lunedì 7 maggio 2018

PRIMO MAGGIO E NUOVE RESISTENZE

A margine del Primo Maggio trascorso, ed anche in considerazione dei fatti di Parigi,  credo che vada necessariamente detta una cosa. La distruzione dei simboli del capitalismo -tra cui l'icona McDonald's- dovrebbe essere un imperativo etico di qualunque forza comunista, anticapitalista, rivoluzionaria. Possiamo, poi, discutere del metodo, dell'opportunità strategica del contesto e di tecniche di guerriglia. Ma l'abbattimento di quei simboli è fuori discussione.

Pertanto, sentir  parlare -all'indomani degli scontri nella capitale francese- il leader di La France Insoumisse, Jean-Luc Melenchon, di infiltrazioni fasciste nel corteo di Parigi -solo perché quelli che, nella narrazione inquinante del potere mainstream, vengono identificati come violenti Black Block, hanno esattamente messo in atto una piccola guerriglia urbana, rompendo vetrine ed incendiando qualche negozio, simbolo del Capitale- è la sintesi paradigmatica dell'ambigua filosofia dell'ordine pubblico e dell'idea di pace sociale, che ispirano la sinistra istituzionale, compatibilista e concertativa europea. Dagli anni '70, se non prima. D'altronde, qui in Italia, quando, terminata la seconda guerra mondiale, alcuni gruppi di partigiani comunisti, contrariamente a quanto ordinato dal Pci, si rifiutarono di deporre le armi e giustiziarono i fascisti amnistiati dal decreto Togliatti -fascisti che avevano commesso, dal settembre '43, ogni sorta di crimine e di porcata contro la popolazione  resistente dell'Italia settentrionale-  l'organo del partito comunista italiano, L'Unità, tacciò di trotskismo e parlò, vigliaccamente, di sinistrismo come "maschera della Gestapo" (Pietro Secchia ndr),  riferendosi a quegli stessi partigiani, insofferenti al ripristino dell'ordine borghese. I fatti di Schio ne costituiscono un esempio eclatante.

Or dunque, oggi come allora, quello stesso ordinamento, che trova la sua compiuta realizzazione ed il suo assetto formale nello Stato liberale e nei comitati d'affare sovranazionali e ultra liberisti -l'Unione Europea e la sua gabbia di soffocanti trattati, tanto per intenderci-  non si scardina, non si rompe con la mediazione di classe, la pacificazione sociale o qualche manifestazione attenta a non turbare il tranquillo andamento della vita cittadina. I rapporti di forza non si sovvertono senza forzare i limiti, sempre più restrittivi, imposti da pseudo regolamenti questurini. Il sistema di produzione capitalistico ed il suo processo di accumulazione, ormai sempre più irreale, visionario, cinico e violento, non si muta sfilando in cortei improntati alla ragionevolezza e al buon senso civico.  La repressione, spesso cruenta, delle forze dell'ordine, non si combatte senza un ricorso alla "violenza di classe".  La Rivoluzione non si fa senza alzare ed inasprire il livello del conflitto in atto nelle piazze, nelle scuole, nelle università ma, soprattutto, in quei luoghi di lavoro dove si assiste, quotidianamente, alla cancellazione dei diritti, alla mortificazione della dignità, all'espropriazione del corpo e dell'intelligenza, fino all'usurpazione della stessa vita del lavoratore, spesso messa a rischio di morte. È triste dirlo, ma bisogna cominciare a prendere atto di questa insopprimibile e cupa realtà. Prima che le elite finanziarie, gli Stati, il Capitale non ci lascino più scampo.  Come diceva Edmund Burke «Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione». E, per essere chiari, qui il Male sono il capitalismo, la sua deriva neoliberista, il mercato. E quel simulacro chiamato, ormai, democrazia liberale o socialdemocrazia!

Vincenzo Morvillo

mercoledì 10 gennaio 2018

BENE...BRAVI...NO AL 41BIS

Dall'art.90 al 41bis, la vocazione repressiva dello Stato liberal-borghese -comprendente arresti indiscriminati, carceri speciali, tortura, fino alle forme detentive restrittive, che violano i diritti umani- ha sempre trovato il sostegno della sinistra manettara. A partire da quel P.C.I. -autoproclamatosi difensore assoluto della classe operaia- che, nel nome della governabilità, di un simulacro di "democrazia" sempre più elitaria, e dell'accesso secondario al banchetto di Montecitorio, cui avrebbe partecipato anche in livrea, ha contribuito non soltanto a mandare in galera centinaia di compagni, non solo a distruggere il più grande movimento rivoluzionario all'interno di quell'Occidente capitalista, che proprio la classe operaia e lavoratrice, con il proletariato, ha massacrato e continua a massacrare, ma all'affermazione di un giustizialismo sempre più forcaiolo, peronista e di destra. Quel giustizialismo di cui, oggi, in Italia, si fa corifeo culturale, tanto per intenderci, il Movimento 5 Stelle che, giusto a sinistra, sembra aver riempito vuoti ideali e politici incolmabili.
Dunque, nulla di nuovo se l'ex parlamentare Manuela Palermi, il neo nascente PCI dalle ceneri del vecchio Pdci del ministro della giustizia Oliviero Diliberto -colui che nel 1999 istituì il GOM (Gruppo Operativo Mobile), reparto di polizia penitenziaria addetto al controllo dei detenuti in regime di 41bis e alla repressione dei disordini carcerari, della  cui violenza hanno fatto e fanno le spese molti compagni ancora in galera- e ex rifondaroli si scagliano contro il punto programmatico di Potere al Popolo, che prevede l'abolizione del 41bis. 
Ho già espresso, senza pregiudizi e argomentazioni speciose, ma puntualmente motivandoli, i miei dubbi sulla lista. Dico però ancora che, se Potere al Popolo vuole effettivamente segnare uno spartiacque con i vecchi tatticismi politici di quella sinistra compatibilista fino al punto di divenire la più fervente sacerdotessa della statolatria borghese o la più servile vassalla del pensiero neo liberale -si pensi alla linea della fermezza tenuta dal Partito Comunista durante il rapimento Moro o alle attuali derive coercitive, con uso indiscriminato di manganelli e fermo di polizia, in materia di controllo sociale e immigrazione, adottate dal Pd - e porsi come embrione di qualcosa di veramente rivoluzionario, allora deve necessariamente liberarsi della zavorra rappresentata dai vecchi "professionisti della politica" -mi si passi la locuzione à la page- ancorché  compagni, e fare chiarezza su questioni dirimenti. La battaglia contro il 41bis, come quella per l'introduzione di un reato di tortura che non sia un capolavoro di incongruenza -specie in un momento in cui il Decreto Minniti e la repressione delle forze antagoniste costituiscono l'agenda politica di un governo impegnato attivamente nella cancellazione del dissenso: che si tratti di dicasteri in mano al Pd o al centro destra poco importa- rappresenta una battaglia culturale imprescindibile per il movimento comunista. Una battaglia su cui non è concesso trattare. E non sono concessi neppure sofismi o astruserie giuridiche, come i cinque anni di detenzione attenzionata per i boss della criminalità organizzata. Sappiamo, infatti, fin troppo bene, per esperienza, che simili provvedimenti, una volta emanati, vengono, alla lunga, estesi anche ad altre fattispecie e, quindi, a pagarne il prezzo sarebbero, in futuro, anche altri detenuti, specie i politici. La mafia infatti, se la si vuol sconfiggere, va combattuta sui territori, attraverso lotte e interventi di carattere sociale, politico, economico e, appunto, culturale.Non certo con il ricorso al 41bis o a secoli di galera, che servono più a ripulire la coscienza di un apparato statale spesso complice, che non ad eliminare un fenomeno incistato in una struttura sociale che nessuno, a quanto pare, vuol modificare.
Per questo, accanto ai No all'Unione Europea, all'Euro, alla Nato e al pagamento del Debito, è per me irrinunciabile il No al 41bis: tra l'altro, sovente, divenuto vile strumento di ricatto per costringere il detenuto a delazioni fittizie, quando non totalmente false, sull'onda emotiva della paura o sulla base di un calcolo puramente utilitaristico e personale.. Come il No all'ergastolo. E il superamento dell'istituto punitivo della pena, pensato come unico strumento di deterrenza del crimine o, peggio, come metodo rieducativo. In tal senso, le galere hanno fallito. E falliscono ancor di più le teorie che producono svolte restrittive e autoritarie. 
D'altronde, come ho già scritto altrove, non dimentichiamo che  secondo il filosofo e psicologo francese, Michel Foucault, tra la nascita del capitalismo e l’instaurazione del potere disciplinare esiste una causalità irriducibile e biunivoca: ciascuno dei due fenomeni ha alimentato l’altro e nessuno dei due avrebbe potuto mai assumere le proporzioni che ha assunto se non si fosse potuto poggiare sulle acquisizioni e sugli effetti dell’altro.
Scrive in pratica Foucault, in "Sorvegliare e Punire": «L’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere, che si chiama “la disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione». Stando, dunque, a quanto dice Foucault, il potere produce innanzitutto sovrastrutture, morali e culturali, codici di comportamento, simboli, linguaggio e, di conseguenza, senso. Ecco, il potere produce senso e quindi, com’è facile comprendere, determina la differenza –storica e culturale- tra il Bene e il Male, tra ciò che è legale e ciò che non lo è, tra lecito e illecito, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In una parola, stabilisce e precisa l’ethos all’interno di una società e di un particolare momento storico. Ne deriva che una delle principali peculiarità e finalità del potere –e specifichiamo che, quando Foucault parla del potere, si riferisce a quello dello stato borghese e liberale- risiede in ciò che egli definisce governamentalità, concetto che racchiude in sé quelli di sovranità e disciplina, affermatosi in Occidente proprio con la nascita del liberalismo e che, inequivocabilmente, conduce ad una gestione analitica, economica e disciplinare appunto delle masse. Con l’avvento dello stato liberale, insomma, siamo entrati nell’era della biopolitica e del biopotere. E, come approfondiranno, poi, in senso più squisitamente marxiano Cesarano e Agamben, attraverso la biopolitica, il Capitale ha avuto accesso al più completo e complesso dominio del reale, giungendo a sottomettere tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione e restringendo, così, le possibilità di resistenza e opposizione al sistema, attraverso quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han definisce, ormai, una vera e propria "psicopolitica". Categoria orwelliana decisamente inquietante, per mezzo della quale, afferma Han, il potere non disciplina più i corpi ma plasma le menti, non costringe ma seduce, sicché non incontra resistenza perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema. Non certo il desiderio rivoluzionario, per parafrasare Deleuze.
Se si vuole continuare a definirsi marxisti e comunisti, quindi, è necessario rompere con questi paradigmi del pensiero borghese e cominciare a declinarne di nuovi. Ampliando gli orizzonti e spaziando liberi in essi.



VINCENZO MORVILLO