lunedì 2 marzo 2020

ROLEX: LO STATUS-SIMBOL DELLA MORTE!





Sabato notte. Napoli è teatro dell'ennesimo, annichilente, folle episodio di violenza.

Violenza criminale, anche. Ma soprattutto, violenza figlia della distorsione umana ai tempi del dominio neoliberista.

Una distorsione che subordina la vita alla roba. L'esistere all'avere. La difesa della proprietà privata all'umanesimo della condivisione sociale.

Sabato notte, un ragazzino di 16 anni, Ugo Russo, che provava, armato di pistola giocattolo, a rubare un Rolex dal polso di un cittadino, è stato da questi freddato con una pistola vera.

Il cittadino in questione, si scopre, era un Carabiniere in borghese.

Questi, i fatti. Tra cui, chiaramente, si affollano inquietanti interrogativi e riflessioni.

La prima domanda che mi viene in mente è, come diamine faccia un Carabiniere, un proletario di pasoliniana memoria, con quello che guadagna, a comprarsi un Rolex? Considerando che il meno costoso, in acciaio, ha un prezzo non infetiore ai 1000€. Qui, però, pare che si tratti di un Rolex d'oro: prezzo di mercato ben superiore!

Ma potrebbe essere un regalo. E poi, non è certo questo il nodo della questione.

Devo confessare che è stato un primo impulso, dettato dalla mai celata, personale antipatia verso le divise, nei confronti della cui deontologia nutro anche un certo scetticismo, a suggerire e ad insinuare questo dubbio maligno.

Ma quel primo impulso, un po'superficiale, lascia immediatamente il posto a considerazioni di carattere più ampio e profondo. Vediamo.

Innanzitutto, il carabiniere -che ha dichiarato al Magistrato di essersi qualificato come tale- perché spara tre colpi ad altezza d'uomo? Perché ha in dosso una pistola se è fuori servizio?

L'ordinanza emanata nel 2017, dall'ineffabile corifeo della repressione sinistrese, il democratico Marco Minniti, che obbligherebbe le Forze dell'Ordine a girare armate anche fuori servizio, infatti, era da circoscrivere all'imminenza del pericolo terroristico, seguito al panico innescatosi dopo che, come si ricorderà, un camioncino bianco, il 17 agosto di tre anni fa (estate 2017), massacrò 15 persone, zigzagando nella folla lungo le Ramblas, a Barcellona.

Ma soprattutto, quello che lascia fin troppo perplessi, è la dichiarazione del ventitreenne rappresentante della Benemerita, che afferma di essersi spaventato perché il ragazzino gli puntava una pistola alla tempia, di cui aveva anche udito lo scarrellamento. Chiunque conosca un minimo le armi deduce, quindi, che il rapinatore aveva messo il colpo in canna. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: dove ha trovato, il Carabiniere, il coraggio leonino -neanche fosse Trinità- di estrarre la sua arma e di fare fuoco, con una canna puntata al viso?

Al giovane criminale sarebbe bastato toccare il grilletto per ucciderlo. Qualcosa, come al solito, in questi casi, nella dinamica degli eventi, non torna. Anzi, sfiora il grottesco!

E d'altra parte, comincia a farsi largo l'ipotesi che a colpire Ugo Russo alla testa, sia stato un proiettile penetrato da dietro la nuca. Se così fosse, dunque, ci troveremmo di fronte all'ennesimo omicidio a sangue freddo, commesso da un rappresentante delle forze dell'ordine.

Gli interrogativi e le riflessioni però, non si fermano alla dinamica dei tragici eventi. Per assumere un carattere più generale e segnatamente socio-economico.

Se il modello di società che si è costruito, infatti, è quello dello status-simbol e del denaro, che ne consente l'acquisto, e attraverso cui compensiamo un vuoto esistenziale indotto dalla logica di un'esistenza mercantile, dunque illudendoci di esistere perché indossiamo un orologio costoso al polso, beh non ci si può meravigliare di quello che è successo l'altra notte a Napoli.

Non ci si può meravigliare se un ragazzino di 16 anni, figlio del sottoproletariato metropolitano, prova a rubare un Rolex, pistola falsa in pugno, nell'illusione che quel Rolex gli attribuisca un ben definito valore umano.

E non ci si può meravigliare, altrettanto, se un figlio della piccola-borghesia italica, notoriamente vendicativa, meschina nel suo attaccamento alla roba, avida nella sua scalata sociale, ansiosa di gestire sia pure il più minimo potere, spara a quel ragazzino, uccidendolo.

Non per salvare la vita, sia ben chiaro. Non ci facciano ridere i soloni borghesi, che in queste ore si stanno accadendo sulla genetica criminale di Ugo, pur di difendere il malcapitato esponente dell'Arma. Ma per non cedere il suo Rolex!

Quello che fa incazzare, invece, e che non consente attenuanti, è che quel figlio della piccola-borghesia sia, appunto, un Carabiniere. Uno sbirro.

E voglio chiamarlo sbirro perché la sua è psicologia da sbirro. La psicologia di un Maurizio Merli qualunque.

Violento perché ritenuto e auto proclamatosi al di sopra della Legge. Addirittura, incarnazione della Legge stessa.

Quella psicologia tipica del giustizialismo vindice, peloso e moralista, che affonda le radici nella bieca cultura torquemadista da Congregazione del Santo Uffizio.

Cultura che plasma di sé, da secoli, l'intera società occidentale. Fondata su due concetti basilari. Colpa e punizione. Sorvegliare e punire.

Una società repressiva e classista, nella quale il potere, specie quello del denaro, l'avere, fa la differenza tra il diritto di vivere e il non diritto all'esistenza.

Una società, per di più, i cui cani da guardia in divisa, vengono quotidianamente nutriti da dosi massicce di violenza. Al solo e funzionale scopo di legittimarne l'uso arbitrario contro i ceti subalterni e i dannati della terra. In difesa di quelle stesse élites che li hanno resi schiavi e assassini, affinché ne difendano la proprietà, ne proteggano l'esistenza parassitaria e ne pepetuino il Potere.

Fa incazzare e fa schifo che uno sbirro, un professionista della "violenza", che nel suo caso dovrebbe essere esercitata con discernimento e in relazione ai contesti, un esperto di armi, perda completamente la ragione e ritenga di poter agire di istinto, senza neanche rendersi conto che la pistola impugnata dal ragazzino di 16 anni, fosse giocattolo. Adducendo, come inaccettabile giustificazione, la paura e il rischio di perdere la vita, laddove questo rischio non esisteva.

Vorrei rammentare, tra l'altro, che le forze dell'ordine vengono pagate per assumersi tali rischi.

Pagate poco, certo. Non tanto, quindi, da poter acquistare oggetti di lusso!

Ed è sinceramente disgustoso leggere i commenti di chi, sui social, festeggia per la morte del giovane criminale.

Come, altrettanto nauseante, risulta l'accanimento della stampa contro Ugo Russo, che si sta registrando in queste ore.

Una canea dai toni lombrosiani, malthusiani e fascisteggianti, che è il riflesso di una "civiltà" orrendamente giunta ai confini della disumanizzazione.

Quella morte, dunque, è stata sentenziata, ancor prima che dal proiettile che ne ha stroncato la vita, da una società impastata con l'odio.

Odio di classe, di censo, di status-simbol, di appartenenza, di razza. Un consesso "umano" in cui solo chi possiede, anche poco, chi vive nella regola dettata da leggi che promanano da quelle stesse istituzioni che riducono l'esistenza ad una merce di scambio, ad oggetto di squallida compravendita, ha diritto di respirare.

Una società che non vuole diversi. Gelosa della propria insignificante uniformità. Della sua volgare opulenza. Del suo conformismo neghittoso. Del suo patto sociale stipulato tra uguali.

E da cui i dannati della terra vengono esclusi all'origine. Insieme a chi contesta questo barbaro regime di classe.

Possibilmente, chiudendoli in galere o manicomi. Ancor meglio, ammazzandoli.

Come venne ucciso, dall'ennesimo sbirro giustiziere, Davide Bifulco. Sparato alle spalle!

Scriveva Claudio Lolli nel 1972, in quella che è diventata il manifesto di una generazione che contestava i costumi della borghesia reazionaria:

«Vecchia piccola borghesia/per piccina che tu sia/non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia/Sei contenta se un ladro muore/se si arresta una puttana/se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana/Sei soddisfatta dei danni altrui/ti tieni stretti i denari tuoi/assillata dal gran tormento/che un giorno se li riprenda il vento».

Mentre Artaud, con sommo disprezzo verso questo mondo popolato da zombie e baldracche del potere, scriveva, ad inizio secolo, da par suo:

«In un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com'è all'uscita dal sesso materno. E questa non è un'immagine, ma un fatto abbondantemente e quotidianamente ripetuto e coltivato sulla terra intera. Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica».

Ecco perché noi, pur condannando il gesto criminale del ragazzino, ci sentiamo dalla sua parte.

Non certo da quella del difensore di una Legge che, prima ancora che sociale e materiale, è legge dettata dalla morale e dall'ideologia delle classi dominanti.

Una legge che consente di uccidere solo a chi veste una divisa o è parte del consesso civile.

Una legge criminogena, nella sua assenza di intelligenza sociale. Nella sua assenza di umanità.

Una legge che rinuncia a chiedersi il motivo del gesto criminale di un ragazzino di 16 anni, assumendo i connotati di legge divina.

Una Legge che non è più, se mai lo è stata, Diritto.

Contro questa deriva legalitaria e megalomane della Giustizia e della Legge, continueremo a batterci.

Perché, come scriveva Montesquieu, padre del diritto liberale, non certo un marxista trinariciuto:

«Non c'è tirannia peggiore di quella esercitata all'ombra della legge e sotto il calore della giustizia».

Vincenzo Morvillo