domenica 13 ottobre 2013

AL TEATRO NUVO “NAPOLI 43” DI MOSCATO. LE QUATTRO GIORNATE IN UN CORO TRAGICO, TRA BENJAMIN E VIVIANI.




Scrive Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico, si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall'idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». E ancora, più avanti: «Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. In Marx, essa appare come l'ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente, in cui egli per suo conto scrive storia. Lo storicismo postula un’immagine “eterna” del passato, il materialismo storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice “C’era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».
Ecco, le Tesi succitate definiscono perfettamente l’essenza ideologico/filosofica che permea “Napoli 43”, lo spettacolo -in scena al Teatro Nuovo, scritto diretto ed interpretato da Enzo Moscato- in cui si narrano le vicende e le emozioni che segnarono e percorsero l’anima del popolo napoletano durante quelle Quattro Giornate che, attraverso un’insurrezione che potremmo chiamare spontaneista, condussero alla cacciata dei nazisti dalla città.
Chiarisco. Per Benjamin, in pratica, ogni rappresentazione della Storia secondo concezioni lineari è fuorviante. E’ falso, inoltre, che i traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed esclusivamente collocare nel futuro. Alla redenzione, umana e di conseguenza sociale, si deve essere spinti, invece, dalla visione del passato. Un passato fatto, come egli stesso sottolinea, di “rovine su rovine” e così orrendo da esercitare, in chi sappia voltarsi a guardarlo, una spinta irresistibile verso un futuro diverso. Quel passato, come si diceva, è il «ricordo come esso si presenta al soggetto storico nel momento del pericolo». Ma chi è il soggetto storico in questione? Per Benjamin, marxista sui generis, si tratta, ovviamente, di quelle classi e popoli rivoluzionari che sappiano svolgere il loro compito teorico e pratico, assumendo su di sé una responsabilità epocale: quella di capire e di far capire che viviamo in uno “stato di emergenza” . In buona sostanza Benjamin -rifacendosi alle 11 Tesi su Feuerbach di Marx- non solo conduce una durissima critica nei confronti dello storicismo, che giustifica gli eventi storici assumendo il punto di vista dei vincitori nella storia, ma indica una possibilità di vittoria, per il materialismo storico, solo se questo, recuperando la tradizione messianica, consente di concepire il tempo non come un processo lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari, che frantumino la continuità storica: «La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie, nell'attimo della loro azione», scrive ancora il filosofo tedesco. Ebbene si comprenderà, a questo punto, come Moscato, rievocando le Quattro Giornate, persegua, agendo da materialista storico, proprio il fine di rievocare il passato dell’occupazione nazista e della successiva liberazione, allo scopo di renderlo vivo e attuale, non “museificato” in una sorta di Storia/Mito, inviolabile e dogmatica, dunque preda nelle mani delle classi dominanti. Le Quattro Giornate, sulla scena moscatiana, diventano evento che, dalle tenebre del Tempo fissato nella Storia, ci viene incontro, quasi assalendoci, nel momento di un presente percepito, appunto, come pericolo. Ed eccoci giunti, finalmente, al nucleo di questo spettacolo/evento! Quei quattro giorni, che fecero di Napoli la prima città liberata dal nazifascismo, non vengono semplicemente celebrati –come del resto avviene, oramai, ogni anno- a mo’ di rituale svuotato di senso. Diventano, invece, Storia viva, Presente, cui voltarsi –come l’Angelus Novus di Klee- e da cui trarre ispirazione, orgoglio di classe e di popolo, forza morale in un momento storico, sociale, economico, culturale, che vede sempre più allargarsi il divario tra classi e popoli dominanti e dominati. La nostra attualità, insomma, si configura come quello “stato di eccezione” -di cui ci parla Benjamin- attraversato da un fascismo che, pur non mostrando il volto sanguinario di quello che marciò, sull’Europa e sul mondo, col passo dell’oca, risulta però più sottile e subdolo, quindi altrettanto pericoloso e inumano. Un fascismo nato dal ventre stesso di una democrazia malata e ridotta ormai a mero simulacro perché inginocchiata ad un potere economico-finanziario, il cui credo ultraliberista sta devastando nazioni, popoli, persone. «Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» scrive, come abbiamo visto, Walter Benjamin. Il fascismo –sia esso in camicia nera, doppiopetto o cachemire- va, di conseguenza, sempre combattuto, facendo appello a quelle passioni, a quell’orgoglio di popolo e di “classe”, che possano, in un dato momento, spezzare, attraverso un atto rivoluzionario, il continuum della Storia.
Per la Napoli della rivoluzione fallita del 1799, culturalmente borbonica e votata alla provvidenziale apparizione del Masaniello di turno, quelle Quattro Giornate dell’autunno del ’43 rappresentarono proprio un atto rivoluzionario, carico di valenza messianica e perciò deflagrante sull’asse cartesiano raffigurante la sua storia. Storia di una città consacrata alla sconfitta, al dominio, alla rassegnazione.
Moscato ed i venti attori che popolano la scena di “Napoli 43”, quelle Quattro Giornate, dunque, le ri/evocano, senza retorica, sganciandole dall’enfasi che, in genere, connota la liturgia della commemorazione fine a sé stessa.
“Napoli 43” è un racconto di passioni, che erompono dalle viscere di una terra e di un popolo che ha deciso di combattere la tirannia. Un racconto commosso e lucido, tragico ed ironico; giocoso come una festa di Piedigrotta e dolente come un corteo funebre; tetro e soffocante come un lager, ma invaso da improvvisi scrosci di luce popolare e dialettale.
Dalle grotte oscure del tempo, a parlarci e a raccontare, ecco materializzarsi, evanescenti come ombre platoniche, figure di testimoni e protagonisti di quegli eventi. Ci raccontano fatti, episodi, atti di eroismo e di vigliaccheria; ci parlano di spie e di scugnizzi morti, di collaborazionisti e di puttane. Si susseguono, in un vortice di emozioni, la ferocia nazista e l’innocenza fanciullesca, le deportazioni e la vendetta; come strette nell’indissolubilità della comune origine, si sovrappongono la paura e la tensione morale e civica dei napoletani, stanchi di subire i teutonici soprusi. Il tutto si mescola, su un tappeto cromatico simile ad una tela di Pollock, grazie alla lingua drammaturgica e alla scrittura scenica adottata dalla sapiente regia. I suoni della babelicante phonè moscatiana -intessuta di filastrocche, canzoni, motti, italiano, napoletano, tedesco, greco, cui si aggiungono pezzi di dialoghi tratti dal bellissimo film di Nanni Loy, “Le Quattro Giornate di Napoli” appunto - sono la perfetta metafora di quella rivolta cittadina, dove si rincorrono voci, grida, proclami, rumori, musiche, spari. Un coro tragico tra i vicoli di una città vivianea, che Moscato guida, direttamente sulla scena, come un puntuale direttore d’orchestra.
Lo spettacolo/evento vive di momenti, di attimi di magia, di suggestioni e turbamenti, che emergono grazie alla straordinaria potenza espressiva degli attori, ma anche alla perfetta e stilizzata architettura scenica, costruita ad arte da Mimmo Paladino. Qualche lungaggine nel telaio drammaturgico è, tuttavia, sorvolabile.
Bravi nel complesso i protagonisti, certo. Ma mi sia consentito citare, su tutti, la prova vigorosa di Gino Curcione, di un rigoroso Salvatore Cantalupo, quella intensa e malinconica, seppur spruzzata da accenti di ironia, del bravissimo Benedetto Casillo; e ancora, quella pregevole di una Cristina Donadio capace di regalare, con grande e personale sapienza attoriale, inquietudini e smarrimenti, cesellando un’interpretazione in bilico tra la stereotipia di una bambola/automa, sintesi della disumanità nazifascista, e la biblica crudeltà di Salomè. L’emozione più grande, però, la si vive vedendo in scena una delle colonne portanti del teatro napoletano: Antonio Casagrande. E, difatti, Moscato affida a lui, testimone umano, per questioni anagrafiche, di quegli eventi, ma soprattutto patrimonio di memoria teatrale, un finale dai toni sarcastici e solo apparentemente rassegnati:
« Adesso, ci vorrebbero i Tedeschi. Un’altra volta! […] Ma, oggi, in un paese e in un popolo totalmente istupiditi, indifferenti, egoisti, rassegnati, dovremmo fare il voto a qualche santo che risorgano e ritornino, i Tedeschi, a molestarci, offenderci, ferirci mortalmente, come prima e più di prima! Così, almeno, reagiremmo da cristiani, come facemmo allora».
In conclusione, “Napoli 43” è uno spettacolo che vuole e deve insegnarci qualcosa; che vuole e deve interrogarci sul nostro presente. Moscato, come di consuetudine, parla della sua Napoli e alla sua Napoli, ma –come spesso avviene nel teatro moscatiano- quel microcosmo cittadino può dilatarsi e assurgere a simbolo di ferite universali e umanissime. Del resto, come abbiamo sottolineato sin dall’inizio, la tirannide e il fascismo sono sempre in agguato, nascosti nel buio e pronti a colpire. Oggi poi, più che mai!

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