domenica 11 novembre 2012

                    CARNE DOLOROSA, AMOROSA FOLLIA
Il teatro di Sarah Kane, tra metafore corporee e destini di crudeltà*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi sia consentito cominciare questa recensione in un modo un po’ insolito, dicendo che, se è giusto, quasi doveroso per un critico o un cronista teatrale analizzare uno spettacolo, per informare il pubblico, anche tentando di offrire a questo una lettura più immediata della rappresentazione stessa, è anche vero che ci sono casi, come in tutte le opere frutto del pensiero o della creatività umana, per i quali quella prassi informativa riesce difficile rispettarla. E’ possibile, infatti, trovarsi al cospetto di opere in cui l’autore ha posto in gioco più della sua stessa vita, più della sua anima, trasfigurate dalla creazione artistica o filosofica. Ha posto in gioco, in questo particolare tipo di opere, il nucleo stesso del suo dolore, ri-velandoci i suoi più reconditi segreti, aprendoci le porte più terribili della sua anima, introducendoci nelle stanze più buie della sua psiche, mettendoci difronte anche alle sue abiezioni, meschinità, perversioni. In una parola, ciò che ha posto in gioco è il suo sconfinamento irreversibile nei territori della follia o della morte. E’ capitato a tanti: scrittori, filosofi, pittori, drammaturghi. E’ capitato anche a Sarah Kane, drammaturga considerata la capofila della cosiddetta “new angry generation” britannica, che tanto interesse ha suscitato in tutto il mondo della cultura in questi ultimi anni. Per quanto, secondo me, la Kane rifugga, tanto per struttura e stilemi drammaturgici, quanto per la sua stessa esperienza esistenziale, da qualsivoglia etichetta o slogan fossilizzante. I cinque testi in cui si condensa il suo teatro –dal primo, “Dannati”, fino all’ultimo “Psicosi delle 4.48”, passando per “L’amore di Fedra”, “Purificati” e “Febbre”- sembrano, infatti, un’accelerazione progressiva verso la fine, il baratro; ma anche un bisturi chirurgico operante negli abissi della psiche e atto ad estirpare il cancro di un mondo in rovina che le cresceva dentro -un “mauvais sang”, ricordate Rimbaud?- un sangue infetto, che dall’esterno penetra e divora tutto. Dall’esterno, si, dal mondo sociale e “civile”: perché guai a credere, secondo la logica benpensante e borghese, che la Kane fosse malata: depressa o psicotica non importa, basta che con la malattia del soggetto il mondo “sano” possa sentirsi protetto, possa riconoscere il diverso, il mostro. Insomma, l’altro/nemico!!! Guai a pensare così, amici e compagni di strada. La Kane era viva, e in lei ardeva la fiamma della vita più che in chiunque altro. Proprio per questo il suicidio ha rappresentato, secondo me almeno, non un atto di vile rinuncia alla vita, bensì un’affermazione della vita stessa, un trionfo della vita nella morte, in una morte che, purtroppo, le è parsa come l’unica e ultima soluzione buona per risolvere, in pratica, un problema di incomprensione, di mancanza di risposte ad una domanda sostanzialmente semplicissima e se si vuole banale: Perché il mondo è così crudele? La domanda di una fanciulla che non riesce, non può capire. E la morte, forse, sarebbe dovuta essere soltanto un’altra allegoria drammaturgica, un altro gioco scenico e catartico che però, purtroppo, le è sfuggito di mano, introducendo un eccesso di realismo nella finzione del teatro. Del resto lo dice lei stessa in “Febbre”: «Un orrore così profondo può essere frenato solo da un rito». E a me piace pensare che si riferisse, almeno in quel caso, al rito teatrale, e non al lugubre rito della morte. E la vita palpita, in tutta la sua verità, anche in un testo apparentemente preconizzatore di morte come “4:48 Psychosis”, che è stato portato in scena al Teatro Nuovo di Napoli da Monica Nappo, interprete, e Pierpaolo Sepe alla regia. Un’affermazione che può sembrare un paradosso a leggere il testo o ad assistere alla sua messinscena, che sembra annunciare la morte della scrittrice, ma non lo è. Perché soltanto quando la vita è consapevole della sua finitezza, della sua natura effimera e ingannevole è vera e palpitante. Nietzsche in “La nascita della tragedia”, giustamente dice «[…] Nella coscienza di una verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o l’assurdità dell’essere; ora comprende quel che vi è di simbolico nel destino di Ofelia, ora riconosce la saggezza del dio silvestre Sileno: prova ripugnanza[…]». Ecco, nella Kane, e in questo suo testo in particolare, convive la duplice natura di Ofelia/Amleto: e prova ripugnanza dell’agire, come Amleto; ma anche un amore immenso, disilluso e rubatole dalla crudele follia del mondo, come Ofelia. E con lei anche noi, dovremmo provare ripugnanza e, forse, trovare nell’amore quell’illusione che a lei non è bastata per sopravvivere. A ben considerare le parole della Kane, che la Nappo riesce a trasformare in schegge di vetro che sfregiano l’anima e il cervello degli spettatori grazie ad una recitazione sincopata e fluttuante tra pause, lunghi silenzi, improvvise esplosioni di parole affastellate, che rimanda tutto il senso della tragedia esistenziale e della lucida visionarietà –mi si passi l’ossimoro- a ben considerarle, quelle parole, si capisce come la Kane si trovasse sulla soglia, sospesa tra la vita e l’assenza. Certo, già le prime frasi del testo-monologo sono una scudisciata, una chiara affermazione, sotto forma di allegoria, dell’inutilità, dell’ipocrisia, della corruzione dell’esserci fisico e psichico, del mondo e dell’umanità: sembra, a tratti, di ascoltare, con un linguaggio contemporaneo, Rimbaud o Holderlin «una coscienza antica abita dentro una buia sala da banchetti accanto al soffitto di una mente il cui pavimento si muove come diecimila scarafaggi quando entra un raggio di luce non appena tutti i pensieri riuniscono in un attimo di accordo un corpo che non espelle più nulla gli scarafaggi comprendono una verità che nessuno osa nominare. Una notte tutto mi fu rivelato. Come posso ancora parlar?» Ma poi, più avanti: «Io non voglio morire». «Per favore. Non spegnete la mia mente cercando di rimettermi a posto. Ascoltate e capite». «Sono stanca della vita e la mia mente vuole morire. E’ una metafora, non la realtà. E’ una similitudine». E, a chiusura del testo «per favore aprite le tende», una vera e propria richiesta di luce. A questo punto, credo si sia compreso perché in apertura dicessi che una recensione, in casi come questo, è difficile, se non addirittura inutile: perché peccherebbe inevitabilmente di presunzione intellettualistica e di autoreferenzialità, laddove bisognerebbe soltanto aprire la mente, gli occhi e le orecchie e ascoltare con rispetto. Un rispetto che va riconosciuto in primo luogo alla Kane, per quel suo mettersi in gioco oltre la vita; ma poi anche a Monica Nappo e a Pierpaolo Sepe, che hanno avuto il coraggio di affrontare un testo tanto complesso, drammaturgicamente e sul piano delle emozioni. E si badi bene, poco importerebbe se lo spettacolo non fosse riuscito. Parlo di un rispetto a prescindere, che va attribuito al valore etico che la Nappo e Sepe hanno posto nel loro lavoro. E, invece, non soltanto lo spettacolo è riuscito, ma ci troviamo al cospetto di un messinscena che ci regala brividi intensi, in cui la regia di Sepe ci restituisce tutta la tragica emozione che attraversa il testo, con un lavoro di frammentazione e di destrutturazione della lingua e del corpo e attraverso immagini che colpiscono allo stomaco e danno intelligentemente fastidio. Monica Nappo, da parte sua, scolpisce una partitura di gesti e di parole, di accelerazioni e frenate, che sono la perfetta allegoria scenica di un’anima sull’orlo del suicidio e della vita, come abbiamo già avuto modo di dire precedentemente. E’ un corpo in preda alla febbre del lucido delirio, si fa carne dolorosa, maschera di rabbia impotente e implorante, corpo-icona che, colto nella sua nudità, danza l’amore e la follia. Una danza visionaria, folle e liberatoria, mossa da quelle squassanti musiche che solo la mente sa far risuonare in un corpo. Ma sono solo chiacchiere e difronte al lirismo della morte e della follia, quand’anche rappresentate, sarebbe meglio tacere.
 
 
* Testo originariamente pubblicato come recensione allo spettacolo 4.48 Psychosis, con Monica Nappo, per la regia di Pier Paolo Sepe, Nuovo Teatro Nuovo, Napoli (2001-2003)

Nessun commento:

Posta un commento