mercoledì 4 giugno 2014

AD ERRI DE LUCA: RIFLESSIONI PERSONALI AL SUONO DELLA LIRA DI UN ORFEO CONTEMPORANEO

Erri De Luca, sull'edizione 2014 dell'Agenda di Magistratura Democratica, provocando le dimissioni, dalla corrente di sinistra della magistratura italiana, dell’inquisitore Gian Carlo Caselli, procuratore capo di Torino, scriveva: «Euridice alla lettera significa trovare giustizia. Orfeo va oltre il confine dei vivi per riportarla in terra. Ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla. Intorno bolliva il 1900, secolo che spostava i rapporti di forza tra oppressori e oppressi con le rivoluzioni. Orfeo scende impugnando il suo strumento e il suo canto solista. La mia generazione è scesa in coro dentro la rivolta di piazza. Non dichiaro qui le sue ragioni: per gli sconfitti nelle aule dei tribunali speciali quelle ragioni erano delle circostanze aggravanti, usate contro di loro. C'è nella formazione di un carattere rivoluzionario il lievito delle commozioni. Il loro accumulo forma una valanga. Rivoluzionario non è un ribelle, che sfoga un suo temperamento, è invece un'alleanza stretta con uguali con lo scopo di ottenere giustizia, liberare Euridice. Innamorati di lei, accettammo l'urto frontale con i poteri costituiti. Nel parlamento italiano che allora ospitava il più forte partito comunista di occidente, nessuno di loro era con noi. Fummo liberi da ipoteche, tutori, padri adottivi. Andammo da soli, però in massa, sulle piste di Euridice. Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali. Ognuno era colpevole di tutto. Il nostro Orfeo collettivo è stato il più imprigionato per motivi politici di tutta la storia d'Italia, molto di più della generazione passata nelle carceri fasciste. Il nostro Orfeo ha scontato i sotterranei, per molti un viaggio di sola andata. La nostra variante al mito: la nostra Euridice usciva alla luce dentro qualche vittoria presa di forza all'aria aperta e pubblica, ma Orfeo finiva ostaggio. Cos'altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana. Cambiammo allora i connotati del nostro paese, nelle fabbriche, nelle prigioni, nei ranghi dell'esercito, nella aule scolastiche e delle università. Perfino allo stadio i tifosi imitavano gli slogan, i ritmi scanditi dentro le nostre manifestazioni. L'Orfeo che siamo stati fu contagioso, riempì di sé il decennio Settanta. Chi lo nomina sotto la voce 'sessantotto' vuole abrogare una dozzina di anni dal calendario. Si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. Una parte di noi si specializzò in agguati e in clandestinità. Ci furono azioni micidiali e clamorose ma senza futuro. Quella parte di Orfeo credette di essere seguito da Euridice, ma quando si voltò nel buio delle celle dell'isolamento, lei non c'era. Ho conosciuto questa versione di quei due e del loro rapporto, li ho incontrati all'aperto nelle strade. Povera è una generazione nuova che non s'innamora di Euridice e non la va a cercare anche all'inferno». Sono parole che, al tempo stesso, fanno riflettere e fanno male. Destano la coscienza e la tormentano. Incidono uno squarcio generazionale ma, quasi magicamente, contribuiscono a saldare, profondamente, passato e presente. A me, hanno suscitato non poche emozioni, anche alla luce di una recentissima esperienza personale e di una serie di valutazioni, su quel percorso accidentato che è la vita, e che, giunti oltre la soglia dei 40, inevitabilmente tocca fare.
Domenica, ho trascorso una giornata con alcuni compagni, esponenti dell'autonomia napoletana, e si discuteva, tra un bicchiere di vino e l'altro, di cosa fu quella generazione degli anni ‘70, delle sue speranze ed aspirazioni, dei suoi impeti e delle sue amare sconfitte. Io, per età, quella generazione l'ho solo lambita ma ne ho, emotivamente, intercettato il canto corale; ne ho annusato gli umori densi di rivolta; ne ho condiviso, sentimentalmente, l'appassionato desiderio rivoluzionario. In sostanza, mi sono innamorato di quelle che Erri De Luca chiama le sue “commozioni”. Il guaio è che, mentre questo accadeva, quella generazione –più corretto sarebbe dire la parte migliore di essa, che alcuni di loro sono stati- si stava dissolvendo, come moderna Euridice, sbattuta dietro le sbarre dell'Ade di stato, quando non uccisa, vigliaccamente, da un potere il cui unico scopo era cancellarne la memoria e divorarne i sogni, affinché non tornassero più ad agitare l’eterno sonno della ragione che, quello stesso potere, ci stava sofisticatamente e subdolamente allestendo, e in cui sembriamo tutti, oramai, essere precipitati. Molti, delusi e stanchi, si rifugiarono, allora, nella sfera privata. Molti si misero a far carriera. Molti si lasciarono semplicemente trascinare dalla corrente. Non c'era più, insomma, un “Orfeo collettivo”, disposto a rischiare il viaggio agl'inferi per liberarla, la bella ed amata Euridice. Si cominciava a diventare dei singoli suonatori di lira, sbandati e depredati dei sogni. E per di più, barcollanti ai bordi dei marciapiedi.
Assecondando la mia indole, plasmata anche da esperienze infantili non certo felici, mi trasformai, a quel punto, in un ribelle anziché in un rivoluzionario, cominciando a far uso massiccio di droga e di alcol. Per stonarmi, per colmare le innumerevoli sacche vuote che mi risucchiavano nel vortice dell’inconsistenza esistenziale, per illudermi di non cedere alla tranquillizzante e mediocre china dell’omologazione borghese. Insieme a ciò, ho preso parte, ovviamente, a manifestazioni, a movimenti per la casa, a scontri con fascisti e polizia. Ho fatto, specie intorno ai vent’anni, qualche follia, rischiando, inutilmente e stupidamente, la galera o qualcosa di peggio. Insomma, in modo molto contraddittorio, autolesionista ma direi abbastanza consapevole, ho lottato –o, sarebbe meglio dire, ho creduto di lottare- per quanto possibile, contro un sistema oppressivo, incarcerante, spersonalizzante e profondamente iniquo, che avvertivo e avverto come nemico. Quel nemico, però, me lo sono trascinato dietro per lungo tempo e le pesanti catene che sentivo stritolare la mia giovane vita non si sono spezzate. Mancava qualcosa di necessario, di unico, di insostituibile. Ciò che ha fatto e fa la differenza tra una rivoluzione, appunto, ed una sterile ribellione. E’mancata la condivisione dell’utopia. E’mancato il senso della collettività. E’ mancato, in una parola, il canto corale. Sia ben chiaro, non rinnego nulla, neanche i tanti errori commessi. Una cosa, però, è incisa profondamente nella mia coscienza, ormai matura: giunto all'età di 46 anni, sono profondamente in crisi, politica ed esistenziale, e non so se riuscirò mai a vedere un mondo migliore. Anzi, sono quasi certo che quel mondo non lo vedrò. Posso e cerco solo, con le esperienze, spesso dolorose e oramai alle spalle, di una vita complessa, e con la mia attuale modestissima militanza, soprattutto intellettuale, di gettarne piccoli semi in una terra divenuta, nel tempo, alquanto arida.
Ed è forse proprio per questa mia disillusione, pervicacemente non arresasi all’evidenza feroce della realtà, che domenica, mentre chiudevamo la giornata a casa di amici, a cena, nel vedere me stesso e tanti compagni, mangiare e bere spensieratamente, sono esploso, ormai decisamente ubriaco, in un recriminatorio e certo non gradevole, per alcuni di loro: a questo siamo ridotti, compagni? Ad ingozzarci ed ubriacarci come borghesi qualunque? Ma dove sono i vostri, i nostri sogni? Dove sono finiti i nostri, i vostri ideali? Dov’ è finita la vostra forza, che un tempo dilagava per le strade e nelle piazze? E ho cominciato, così, a vagheggiare di lotta armata e di P38, rendendomi, considerato l’evidente stato di ebbrezza e visti i tempi, anche ridicolo. è stato uno sfogo infantile, sarcastico e certamente denigratorio. Ma che rivolgevo principalmente a me stesso.
Dunque, le struggenti parole scritte da Erri De Luca, e che stamattina ho riletto sulla bacheca di una compagna, di quelle che certo non mollano e non hanno mai mollato, sono andate a toccare, come s’intuisce, dei nervi scoperti, in un momento di riflessione personale piuttosto doloroso, suscitando, dentro di me, commozione, rabbia, invidia per tempi non vissuti e voglia di combattere e di crederci ancora.
E allora, proprio in ragione di ciò e di quel sogno comunista e rivoluzionario di Libertà, che bisogna necessariamente mantenere vivo per non morire e per non darla vinta a chi vorrebbe continuare a stuprare i nostri ideali, riducendoci al silenzio, dobbiamo dire che siamo con Erri De Luca. Nostro contemporaneo Orfeo. Nostro poeta-guerreriero. Con lui e contro la follia repressiva di quello Stato borghese, che vuole processarlo e vorrebbe, con piacere, vederlo dietro le sbarre, con l’infame accusa di istigazione a delinquere, per aver semplicemente espresso il suo pensiero in opposizione alla criminale realizzazione di un’opera assurda e inumana come la TAV. Ieri come oggi, il dissenso è criminalizzato dalla democrazia liberale. Ieri come oggi, siamo tutti colpevoli!





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