venerdì 19 aprile 2013

CASTELLI IN ARIA…NOTA CRITICA ALLA MOSTRA DI GIUSEPPE MASCOLO




Uno dei più grandi architetti della nostra epoca, il brasiliano Oscar Niemeyer, affermava «Non è l’angolo retto che mi attrae, né la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Quello che mi attrae è la libera curva sensuale, la curva che trovo nelle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde del mare, tra le nuvole del cielo, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo».
Ecco, i disegni di Giuseppe Mascolo, giovane architetto napoletano, appena visti mi hanno suscitato più o meno la stessa impressione, riportandomi alla memoria questa idea di Niemeyer.
Linee, sinuosità, femminile sensualità, ma anche, attraverso esse, solitudine, dolore, turbamento. Tracce di un mondo interiore, che arriva su foglio di getto, quasi come se la mano procedesse costretta dal furore di un bisogno, che sale dalle profonde e oscure pieghe di un’anima in tumulto.
In lui, sembrano combinarsi il segno di una geometrica dissonanza e la traslazione simbolica di una malinconica riflessione sulla struttura architettonica di città in dismissione.
La sensazione più immediata è quella di trovarsi al cospetto di paesaggi colpiti da qualche disastro nucleare, immersi in una solitudine primordiale, in cui è la natura, ormai scarna, a sorreggere l’impalcatura di costruzioni che si reggono appena sul terreno, in taluni casi pericolanti come scheletri incendiati, o che addirittura fluttuano nell’aria.
In molti dei suoi arabeschi, tracciati con penna e acquerello, ci troviamo di fronte a paesaggi malinconicamente inquietanti, nella loro scomposizione ecologica, riadattati in forma architettonica e cementificata. Tutto: il cielo, uno specchio d’acqua che spesso compare, quasi a rimandare l’immagine sbiadita di un mondo delle idee architettoniche in decomposizione, le costruzioni simili ad alberi in ferro -grazie anche all'utilizzo cromaticamente simbolico di un viola che sfuma nel grigio- sembrano piangere la perdita di un'ancestrale verginità naturale, ormai smarrita per sempre, fagocitata dal delirio consumistico di una società artificiale e inautentica.
Nei suoi disegni, Giuseppe Mascolo mette in gioco, dunque, la weltanschauung di un mondo futuribile e tragico, nel destino segnato dalla smania tecnologica e dominatrice dell’uomo, nei confronti del suo habitat naturale: un ecosistema sfregiato da un’urbanizzazione forzata, che ha prodotto lo scempio di megalopoli soffocanti e lontane dalla dimensione umana. Sembra quasi aspirare ad un sovvertimento, ad una disintegrazione palingenetica di un simile scenario, da cui ripartire per dare spazio ad un’idea dell’uomo, a una concezione paesaggistica e, di conseguenza architettonica, di segno completamente opposto.
Nell’addentrarmi nella visione di quelle figurazioni, così scarne eppure così potenti, nell’evocazione di una solitudine, che è poi metafora della condizione umana e “terrena”, sempre più riemergevano, dalle sbiadite trame della memoria, le parole profetiche che Williaam Blake scriveva nel suo poema “Quattro Zoas”, e che Elèmire Zolla riporta all’interno del suo “Eclisse dell’intellettuale”: «Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà. Intrecciano le sciagure, sorelle! I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue? Il cavallo ha più valore dell’uomo; la tigre feroce deride la forma umana; il leone dileggia e vuole sangue. Gridano: o ragno spargi la tua tela! Ingrossa le tue ossa e pieno di midollo, di carne, sii esaltato! Abbi una tua voce! Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più!».
Siamo, insomma, mi pare di poter affermare senza tema di smentita, a quella che Benjamin definiva, a proposito del dramma tedesco, Trauerspiel, “rappresentazione luttuosa”, quel concetto cioè che, a differenza della tragedia, ha per oggetto la storia e non il mito. E si, perché è la Storia, nel suo costante divenire fenomenico, a determinare escatologicamente il destino umano. Un destino che, agli occhi di Giuseppe Mascolo, appare avvolto dalla nube scura del pessimismo.
Or dunque, il termine di paragone più prossimo che mi sovviene, quando cerco di indagare l’origine stessa di quegli schizzi, e la loro profonda essenza, è, mi si passi l’azzardo, quello con le statue di Alberto Giacometti. Come nel caso del grande artista svizzero, le forme tracciate da Mascolo sembrano emergere, come relitti, dagli abissi del tempo o da un universo in cui uno squarcio si è prodotto, improvviso, nella sua dimensione spazio/temporale, precipitandolo in un non-luogo pre-storico, quasi a rappresentare l’abisso umano dell’ inconscio, con tutti suoi fantasmi, le sue paure, le sue angosce, le sue immagini orrorifiche, eppure seducenti.
Molte delle sue rappresentazioni –come nel caso delle sculture di Giacometti- mi appaiono come scheletri corrosi e alteri, che sembrano usciti da un inferno dantesco. Esse comunicano tutta l’incomunicabilità del dolore, la nostalgia, la solitudine, la paura, lo smarrimento e il dramma di un’esistenza costantemente precaria, fragile, in eterna lotta con un mondo così vuoto e, oramai, così altro da noi. Un mondo, diciamolo chiaro, oramai schiavo della sua stessa frenesia produttivistica e finanziaria, dominata da quella filosofia economica, ultraliberista e disumanizzante, il cui unico obiettivo è il predominio dell’uomo sull’uomo, attraverso lo sfruttamento del lavoro, e dell’uomo sulla natura, mediante lo sfruttamento delle sue risorse. Come nel caso delle statue di Giacometti, dunque, nelle raffigurazioni tracciate da Mascolo, possiamo scorgere quello smarrimento e quell’angoscia che sono si condizione coessenziale della vita umana, ma anche una solitudine intellettualmente ricercata e voluta, che si muta in sentimento di rivolta, mi verrebbe da dire quasi ricerca metafisica di una nuova ontologia, di fronte alla dissipazione e alla disgregazione di un’epoca, in cui l’uomo e il suo ambiente sembrano essere stati soppiantati da artifici illusionistici e/o informatici. Dinanzi a tutto ciò, però, non resta, almeno per il momento, che afferrare la fragilità e la sospensione tra Essere e Nulla e, per dirla appunto con Sartre: «la grazia indicibile di essere perituri».
Insomma, per concludere, i disegni di Giuseppe Mascolo sono gli ultimi riflessi di un universo interiore, di un mondo nato martire e ribelle, sulle sottili linee di un architetto privo di senso. Sono l’iperbolica blasfemia gridata ad un cielo vellutato e livido, sotto al quale, l’infernale specchio della dimenticanza avvolge il tutto, scaraventandoci nell’ultimo vagito di una maciullata eternità. Sono sogni astrali; punti e linee. Simboli materni e paterni di una primordiale glossolalia, oscura e alienante. Attraverso essi, ci sembra di fluttuare in labirinti di segni e di parole, significanti puri di cui ci sfugge la semantica e il cui gioco è l’inganno stesso di un dio beffardo, che ha tirato una volta di troppo i suoi dadi. Davanti ad essi, possiamo sentirci assaliti da improvviso sbigottimento, come davanti alle immagini più cupe del nostro inconscio o come dinanzi al fulgore impossibile di una legge kafkiana.
Ecco, per farla breve, la architetture di Giuseppe Mascolo sono affascinanti, kafkiani castelli in aria.









1 commento:

  1. caro padre, non ci siamo proprio. nella forma: tu sei un filosofo, e non puoi fare il critico da quattro soldi. tu devi destrutturare. come cazzo fai a non entrare dentro il linguaggio del disegno, e coglierne soltanto i riflessi. questa tua mancata cogliuta, ti rincoglionisce. nel merito: il parallelo con giacometti deve svelare quello che ti scrivo, e che tu non hai scritto, pur rendendotene conto. le figure ieratiche equivalgono alle torri. non ci sono edifici in giacometti. non ci sono uomini in mascolo. pur se una buona intuizione, quella del confronto, non comprendi il valore differente delle due figure. se non fai questo lavoro di anatomia, non vale la pena prendere la penna. in fine: certo che la condizione storica è presente in peppe (come potrebbe essere altrimenti?) ma nella sua sparizione. la solitudine è na grande stronzata. l'uomo non c'è. l'uomo è solo stato. infatti, è un pregiudizio infame, da parte nostra, attribuire a questi disegni un senso architettonico solamente perchè il suo autore è architetto. sono, a differenza delle distorsioni snelle di giacometti, questi disegni (dei quali parliamo parliamo, ma vorrei sapere quanti ne hai visti, quanti ne esistono) dei paesaggi. il paesaggio è il punto di vista, la morale della visione nel corpo del visionario. e abbi allora il coraggio, degnamente, di parlare della giusta prospettiva storica. la profezia. questi disegni sono visioni profetiche di un uomo che non disdegna gli allucinogeni, di un pacato amante delle linee curve (e se esistono sono quelle del paesaggio natio delle nostre madri), e di un mondo filtrato da occhiali protettivi (ovviamente la protezione è per noi, non certo per peppe). beppe è la pizia con gli occhiali da sole. e tu devi spogliare il re, devi parlare di apo-calisse. (NOTA POSTRIBULA DELL'AUTORE: beata solitudo, sola beatitudido. sei un coglione: tu una volta, ma io due. la solitudine adesso la vedo, ma non la tua. non è la solitudine che tu hai cercato di scrivere, poichè non esiste e te la sei inventata. infatti, non è un paesaggio della solitudine, ma desolato, abbandonato. l'unico solo uomo è sul punto di vista. la solitudine è nell'occhio su, nello sguardo che figura a giganti le cose, nella ricerca di una compagnia fantasmatica dell'oggetto. la solitudine è astorica, fuori dal tempo del profeta che visita un'altro mondo, con tutti quei filtri che non lo rendono nostro ma con quelle distorsioni che ne riequilibrano i significati) è un'articolo di merda. da pennivendolo.

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