lunedì 9 dicembre 2013

BREVE CONSIDERAZIONE SUL CONGRESSO DEL PRC




Ho seguito il congresso del mio partito, Rifondazione, in streaming e la spaccatura, tra chi sostiene l'assoluta autosufficienza del PRC e chi invece promuove un dialogo con le altre forze di sinistra -che non significa, specifichiamolo, alleantismo o subordinazione: Grassi, Burgio, Steri, su questo sono stati chiari, sostenendo anche la necessità di dialogo con chi sta alla nostra sinistra e con i movimenti, nella misura in cui, certo, si riesca a presentarsi come punto di riferimento, non certo nell'ottica, improponibile in questo momento, di egemonizzazione culturale- è netta. Però, tra i sostenitori del doc 1, senza emendamenti, ci sono stati interventi, come quelli di Maurizio Acerbo, Rosa Rinaldi, Fabio Amato, Dino Greco, che non precludevano, pregiudizialmente, il dialogo; e certo, non sostenevano l'isolamento nell'eburnea torre del purismo assoluto. Dal punto di vista degli interventi, il congresso è stato, diciamolo, interessante e, considerata la fase interlocutoria, per usare un eufemismo, in cui versa il PRC, si è volato, in molti casi, anche molto alto, su questioni inerenti i massimi sistemi. Il problema sta, appunto, in quelle che sono le questioni relative alla bassa cucina politica: personalismi, lotte intestine, alleanze strumentali ecc.
Su partito sociale, fronte antiliberista e anticapitalista, ripresa delle lotte, ruolo dei comunisti e riconsiderazione delle strategie sindacali, pur con i dovuti distinguo -vedi quanto è successo alla fine, con un emendamento proposto da Montalto, mi pare, e rigettato dalla commissione politica come ha spiegato Roberta Fantozzi- siamo tutti, più o meno, sulla stessa lunghezza d’onda. Il problema è che tutto ciò, in teoria, va bene, ma è nella prassi politica che deve trovare applicazione. E se non c'è un segretario, la dirigenza non si rinnova e, quindi, tutto si traduce in attendismo/immobilismo o peggio, in una linea politica confusionaria e pasticciata, dove ognuno fa un po' come cazzo gli pare -negli ultimi anni è stato pressappoco così- beh, non so come pretendiamo di aggregare consenso, specie tra quella che dovrebbe essere la nostra "classe" di riferimento: per inciso, già smarritasi, da tempo, in mille rivoli. Negli ultimi anni, ci sono state colpe di altri e colpe, gravi, di Rifondazione, questo va detto con franchezza. Il segretario uscente, Paolo Ferrero, parla di autosufficienza e poi, però, dall'alto si è calato il cartello elettorale di Rivoluzione Civile e lo si è sostenuto con enfasi. Avverto una schizofrenia politica e di pensiero in questo modus operandi.
Altro punto cardine, molto dibattuto, è stato quello della fusione col Pdci. Siamo tutti d'accordo che Diliberto e compagni abbiano sbagliato nel rendersi più volte disponibili ad un’ alleanza col PD, mentre noi abbiamo, fortunatamente aggiungo, praticato strade diverse. La questione sorge, tuttavia, quando si va a considerare quali siano state queste strade. E, onestamente, non mi pare abbiano prodotto i frutti sperati. Inoltre, sfiora quasi il ridicolo la presenza, in questo paese, non di due, ma di circa dieci partiti comunisti. Forze incapaci di trovare un accordo su quello che li unisce, invece di spaccarsi su differenze, spesso diciamolo, cavillose e di pretestuosa cultura politica. Il problema vero, lo sappiamo tutti e, cosa ancor più grave, lo percepisce il nostro elettorato, effettivo o potenziale, non verte tanto sulle diversità culturali, quanto sulle questioni personali che danno vita a faide interne, tra gruppi dirigenti e tra personalità pregne di un narcisismo, non certo sano per qualcuno che si richiama al comunismo, come idea fondante la propria etica, umana prima ancora che politica. Anche tra i comunisti, infatti, pare che, in questi anni, sia di moda il partito personale. Se si avesse veramente a cuore la classe operaia e lavoratrice, quindi, si troverebbe il modo di lottare insieme, anziché calcolare, manuale Cencelli alla mano, le percentuali all'interno dei comitati politici, nazionali e locali.
In conclusione, dunque, si abbia il coraggio di dirlo: o si fa politica, e la politica è anche confronto tra culture diverse, o si hanno le palle di andare in piazza, come avanguardia rivoluzionaria. Costi quel che costi. Io, su questo, posso anche essere d'accordo. Ma, forse, non è il momento giusto!

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