mercoledì 29 gennaio 2014

A MALINCUORE, DIFESA DEL DEPUTATO 5 STELLE, GIORGIO SORIAL



E ora mi tocca anche difendere, per amor di verità e soprattutto per il disprezzo che provo nei confronti della manipolazione mediatica, il Movimento 5 Stelle e il deputato Giorgio Sorial.
Dunque, quando ieri appresi la notizia -come veniva passata dai media- che Sorial, nel corso di una conferenza stampa, aveva dato del boia a Napolitano, feci due considerazioni. La prima: questi stanno alzando sempre di più l'asticella della pura volgarità politica: infame, inutile e dannosa. Non sopporto Napolitano e ricordo sempre in che bassa considerazione lo tenesse Berlinguer, ad esempio, per rimanere nell'ambito del PCI, ma un attacco così gratuito alla più alta carica dello stato è assurdo ed è ovvio che susciti polemiche e porti con sé delle conseguenze. La seconda considerazione, direttamente consequenziale alla prima: questi dei 5S dimostrano, sempre più, la loro inesperienza sul terreno dello scontro politico, la loro irrazionalità pulsionale, la loro stupidità. Porca miseria, boia è una parola che andava bene per Almirante e che si adatta a chi sostiene teorie di matrice nazifascista.
Poi, però, andando a vedere il video, mi sono trovato di fronte ad una realtà diversa. Quell'espressione è stata praticamente estrapolata dal discorso. Sorial –almeno così lo interpreto io- la usa come metafora, per essere corretti come una similitudine, dopo aver parlato di tagliola! Con un po' di onestà intellettuale, sarebbe stato facile dedurne che, in effetti, il richiamo poteva essere alla ghigliottina di francese e rivoluzionaria memoria, azionata appunto dal boia. Non ha dato, insomma, del boia a Napolitano, connotandolo come carnefice ed assassino. E se lo ha fatto, lo ha fatto su un piano strettamente simbolico: uccisore della democrazia. Ci può stare, mi sembra. Invece, ne è nata una sarabanda ridicola e meschina, visti i tempi che corrono e le ben più gravi questioni che ci troviamo ad affrontare come paese!
Poi certo, Sorial avrebbe potuto, più astutamente, risparmiarsi quella battuta ed affidarsi ad un aplomb e ad un understatement più istituzionali, su questo non ho dubbi. Ma una cosa è certa. Re Giorgio è il garante della Troika, dei Mercati e delle Banche. Quindi, chiunque lo tocchi, è destinato a finire sotto la mannaia politico-mediatica del governo e delle contrade politiche che lo sostengono.
Due ultime considerazioni. La prima. Lasciando perdere il decreto IMU-Bankitalia da cui è nata la querelle: ma quando uno si fa garante della macelleria sociale, messa in atto dalle politiche di austerità e neoliberiste -che producono morte e disperazione, sia ben chiaro- allo scopo di garantire gli interessi del Capitale, come lo vogliamo chiamare? Io, da Comunista, che mai e poi mai voterà 5 Stelle e che nessuna fiducia ripone in Grillo e Casalleggio, ritenendoli anche fascistoidi, non ho dubbi. BOIA! La seconda, di carattere più morale. Si fa un governo con chi induce alla prostituzione, ha atteggiamenti che, se li avessi io o qualunque altro cittadino comune, verremmo accusati di pedofilia, e poi ci si scandalizza per una semplice parola?
Per quanto ci provi, proprio non ci arrivo!!!

venerdì 17 gennaio 2014

MA VATTENE AFFANCULO! BREVE CONSIDERAZIONE CIRCA LA TELEFONATA TRA SERVILLO E LA GIORNALISTA DI RAI NEWS

Non amo l'arroganza del Potere. Mai e in qualsiasi forma essa si manifesti. Mi irrita e, in alcuni casi, mi istiga sentimenti di reazione, anche rabbiosa. Figurarsi, poi, se quell'arroganza viene da chi un potere reale non lo detiene, ma si alimenta del Potere altrui, in quanto prodotto di uno star system genuflesso alle indecenti logiche, politiche e di mercato. Se a questo ci aggiungiamo che, oramai, qualunque critica e dissenso viene vissuto, da potenti o presunti tali del Belpaese, con lo stesso sgomento e la stessa ira con cui i sovrani di un tempo, e i loro sudditi, vivevano il reato di lesa maestà, allora il quadro è completo e, personalmente, ritengo sia giusto che ai Re e alla nobiltà si tagli la testa.
Ma veniamo al punto. Toni Servillo -un tempo, ricordiamolo en passant, su posizioni radicali e antisistema, tanto che,negli anni della contestazione studentesca, fondò il Teatro Studio di Caserta, mentre oggi, all'apice del successo,lo troviamo banalmente accodato al carro del neoliberista PD- non è il metaforico sovrano dell’ormai decadente regno del teatro e del cinema italiani; e non è nemmeno un nobile di spada. E', tuttalpiù, un nobile di toga. In altre parole, a dispetto di quanto dicano e scrivano, per ovvi motivi di interesse, per leccaculaggine o per incompetenza manifesta, alcuni colleghi giornalisti -critici principalmente- Servillo non è Volontè –e non lo è precisamente dal punto di vista umano e, se vogliamo, politico- non è Gassman, non è Mastroianni e non è, con tutto il rispetto, né Carmenlo Bene né Leo De Berardinis. è, ovviamente, un ottimo attore: mi piace, è molto bravo, non si discute, specie in teatro, suo habitat naturale, per quanto, anche in tale contesto, l’espressività vocale di Servillo mi sia sempre apparsa poco duttile e un tantino monocromatica; mi convince meno al cinema, dove molto dipende, ma è lapalissiano, anche da chi lo dirige –l’ho trovato perfetto nelle prime due pellicole di Sorrentino e addirittura splendidamente commovente in “Una vita tranquilla” di Cupellini- mentre il Sorrentino degli ultimi due film, che hanno visto la loro collaborazione, lo ha lasciato, secondo me, troppo libero di gigioneggiare –soprattutto ne La Grande bellezza- affidandogli personaggi disegnati più nel solco di una tipizzazione grottesca che di una costruzione sfaccettata, complessa, a tutto tondo del ruolo. Ciò detto, anche ammesso che Servillo fosse un Re, purtroppo oggi viviamo in democrazia e, gli piaccia o no, i giornalisti -venduti o meno è irrilevante: io non sono mai stato tenero con la stampa nostrana, asservita alle lobby, ma non sopporto chi non risponde o, peggio, offende gratuitamente i giornalisti, perché segno di intolleranza e di scarsa capacità dialettica e democratica- hanno il diritto di criticare e di farti le domande che più gli aggradano. Nel rispetto, certo, della tua persona e, almeno formalmente, proprio di quella democrazia che dovrebbero, essi per primi, tutelare. Ora, non mi pare che la giornalista di Rai News abbia offeso Servillo, nel corso della telefonata incriminata e che, in questi giorni, sta facendo il giro del web e dei social network. Ha solo accennato, ripeto accennato, alle polemiche che il film, "la Grande Bellezza”, ha suscitato. Un film, va detto, sinceramente lento, pretenzioso, freddo nel suo marcato manierismo visionario e nella sua ricerca della citazione; con una splendida fotografia, sicuramente, e capace di un’attenta analisi dello sgretolamento morale e socio-politico in cui versa l’Italia, risolta anche piuttosto bene sul piano figurativo e simbolico; ma con errori evidenti di sceneggiatura, mono-tòno, in cui, per quanto dolente, è assente una Spannung narrativa, privo di un'autentica, profonda e corrosiva critica di “costume” -che, invece, sembra attestarsi più su quella di “carattere”, tanto per evocare Moliere- e dove il grottesco, sovente, scade in banali cadenze da commedia. Comunque, a quel timido accenno della malcapitata giornalista, Toni Servillo, con spocchia tutta intellettuale e con quell'alterigia tipica di chi sta dicendo "Lei non sa chi sono io", non solo ha finto di non sentirla più, mandandola affanculo, ma l'ha anche apostrofata come cretina. Insomma, ha messo in luce quel carattere arrogante, maleducato ed avvilente, tipicamente italiano, tanto da incontrare l’approvazione di molti. Per non parlare del sottinteso maschilismo, visto che di una donna si trattava. Diciamocelo: un po' di signorilità, di tanto in tanto, non guasterebbe. 
Da un uomo e da un intellettuale, che dovrebbe rappresentare ed esportare il meglio della nostra cultura, onestamente mi sarei aspettato un altro comportamento. E non mi si venga a dire che pensava di aver spento il cellulare.

mercoledì 15 gennaio 2014

I MARXISTI NON FANNO MAI LA RIVOLUZIONE…

I marxisti non fanno mai la Rivoluzione. Un’ affermazione che, da qualche tempo, sento ripetere spesso, troppo spesso. Un’affermazione, direi, quanto meno azzardata e sorprendentemente inesatta sul piano storico. E la rivoluzione d'ottobre? La lunga marcia di Mao, in Cina? La rivoluzione cubana? I movimenti rivoluzionari-resistenziali in Vietnam, Portogallo, Spagna, Cile, Paraguay, i Tupamaros in Uruguay, la ribellione in Congo Belga (dove fu presente Che Guevara), e le altre rivoluzioni in Africa, dove i movimenti marxisti -a cominciare da quello in Burkina Faso con Thomas Sankarà, ucciso, poi, per ordine della CIA- hanno cercato di mutare il criminale ed iniquo assetto politico, economico, sociale, legato al colonialismo e al neocolonialismo Occidentali? E, per arrivare all'Italia, la stessa Resistenza al nazifascismo, fermata poi, sulla strada per l’insurrezione finale, da superiori interessi geopolitici e strategici e dagli accordi di Yalta? E ancora, tutto il movimento bolivariano in Americalatina, oggi, da Chavez a Morales, da Mujica a Correa? Insomma, queste esperienze come le chiamiamo? Sarebbero forse dettagli? Suvvia, cerchiamo di non dire assurdità! Ed inoltre, i movimenti comunisti-rivoluzionari che in Italia, tra gli anni '70 e '80, proprio nel nome della suddetta Resistenza, hanno tentato di farla, quella Rivoluzione –da Autonomia Operaia alle B.R., da Potere Operaio a Prima Linea- venendo alla fine etichettati, dal Potere e dalla morale borghesi, semplicemente come violenti, assassini e terroristi, cosa sono? Pochi li appoggiarono e li seguirono, anche tra coloro -il P.C.I. innanzitutto- che avevano la vocazione di partito rivoluzionario.
La verità è che è troppo facile criticare, incazzarsi, accusare, usare il becero turpiloquio come arma politica -vedi Grillo- e anche blaterare di rivoluzione, da dietro una tastiera o tra amici al bar: questo vale per i grillini come per me stesso, sia ben chiaro. Ma poi, passare all'atto, farla davvero la Rivoluzione, prendere le armi, entrare in clandestinità, dover sparare, doversi nascondere, rinunciare a tutto e forse alla stessa vita, è tutta un'altra musica. Ci vuole coraggio, determinazione, fede altissima in un ideale e nella convinzione che una società diversa sia possibile. Qualità che, guardandomi in giro, non mi pare di vedere.
Oggi, chi è incazzato davvero è stato talmente plagiato e corrotto da anni di propaganda di regime, pacifista e troppo spesso volta alla criminalizzazione del dissenso, quando questo si esprima in forme più dure e decise –si pensi a cosa stanno facendo ai militanti NO TAV- che o ha timore di spingersi fino in fondo per paura di ritorsioni, arresti e manganellate -il G8 di Genova ha segnato un punto di non ritorno, proprio sul versante dell’intimidazione- o, peggio, in caso di egoistica vigliaccheria, bada al proprio orticello, cercando di non perdere anche quel poco che ha. I restanti, al tirar delle somme, mi sembra siamo tutti, chi più chi meno, soddisfatti delle nostre mediocri vite piccolo-borghesi. Mi si voglia perdonare l'amarezza e la franchezza!





«IL MOVIMENTO 5 STELLE XENOFOBO? MA NON SCHERZIAMO, HANNO VINTO COLORO CHE SI SONO ESPRESSI IN FAVORE DELL’ L’ABROGAZIONE DEL REATO DI CLANDESTINITÀ». UN DOVEROSO CHIARIMENTO SU ALCUNE CRITICHE MOSSE AL MIO ARTICOLO -RIGUARDANTE IL REFERENDUM PROMOSSO DAL MOVIMENTO 5 STELLE- PER QUANTO CONCERNE L’ACCUSA DI XENOFOBIA

Alcuni amici, ieri –pubblicamente ed in privato- dopo aver letto il mio articolo “La farsa referendaria di un movimento autocratico e dalle preoccupanti tendenze xenofobe”, ha mosso qualche critica –sempre benvenuta- specie in merito a quella locuzione, “tendenze xenofobe”, che sarebbe eccessiva in quanto accusa ingiustificata ed ingiustificabile di razzismo.
Allora, innanzitutto chiariamo una cosa, che mi sembra fondamentale, al fine di evitare equivoci, diciamo così, ideologici. Anche se, comunemente, i due termini vengono erroneamente assimilati, tra xenofobia e razzismo c’è una differenza, sottile ma sostanziale. La xenofobia è un «sentimento di avversione generica e indiscriminata per gli stranieri e per ciò che è straniero, che si manifesta in atteggiamenti e azioni di insofferenza e ostilità verso le usanze, la cultura e gli abitanti stessi di altri paesi, senza peraltro comportare una valutazione positiva della propria cultura, come è invece proprio dell’etnocentrismo; si accompagna, tuttavia, spesso, ad un atteggiamento di tipo nazionalistico, con la funzione di rafforzare il consenso verso i modelli sociali, politici e culturali del proprio paese attraverso il disprezzo per quelli dei paesi nemici». Il razzismo puro, invece, è un’ideologia vera e propria: «teoria e prassi politica e sociale fondata sull’arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente “superiori”, destinate al comando, e di altre “inferiori”, destinate alla sottomissione, e intesa, con discriminazioni e persecuzioni contro di queste, e persino con il genocidio, a conservare la ”purezza” e ad assicurare il predominio assoluto della pretesa razza superiore» (definizioni entrambe della Treccani). Se parlo di xenofobia, dunque, lo faccio a ragion veduta.
Detto ciò, come giudicare le dichiarazioni di Grillo in merito allo ius sanguinis e allo ius soli –un’ argomentazione, questa, che ho più volte ripreso, a proposito del M5S- ovviamente a sostegno del primo? Mi si vorrà scusare la pedanteria ma, stando alla Storia, questo è praticamente un dispositivo di matrice nazista. Il mito del Blut und Boden (Il Sangue e La Terra) venne elaborato, in chiave biologisticamente razzista, da Darrè -ministro dell’Agricoltura e dell’alimentazione del III Reich- e dallo studioso di statistica e demografo, Friedrich Burgdörfer -apprezzato collaboratore di Hitler- al quale si può attribuire la concezione che il filosofo francese, Jacques Maritain, con una formula quanto mai incisiva definì “umanesimo zoologico del sangue e della razza”. Ora, lungi ovviamente, come si può facilmente comprendere –contrariamente, mi darei dell’imbecille da solo- dal voler confondere, tout court, quelle idee farneticanti con le più populistiche e xenofobe, appunto, istanze del duo Grillo-Casaleggio, si converrà, però, che certe esternazioni siano quantomeno allarmanti e contribuiscano a creare un ulteriore clima di cupezza in una società, come quella italiana –anche se è un po’ tutta l’Europa a vivere sull’orlo di un precipizio politico ed ideologico: Grecia, Ungheria, addirittura la civile Francia, stanno lì a dimostrarlo- già in questo momento fosca, arrabbiata, con fortissime tensioni sociali e notevoli spinte di destra, a caccia di un colpevole qualunque –e l’immigrato è sempre il più facile e vicino- e comunque già predisposta, di suo, come dicevo nell’articolo precedente, a pulsioni di tipo reazionario e fascistoide. E, stando sempre alle dichiarazioni del genovese, come giudicare quelle in cui diceva che, se il movimento si fosse espresso contro la Bossi-Fini, prima della tornata elettorale, avrebbe preso percentuali da prefisso telefonico? In pratica, stiamo alla xenofobia strumentale, il che è anche peggio.
Insomma, come ho più volte ripetuto, non voglio certo dare la patente di fascista al movimento, che so annoverare, tra le sue fila, amici e compagni incazzati e stanchi, persone che, in assoluta buona fede, credono in esso come motore di un reale cambiamento, sinceri democratici delusi, giustamente, dall’attuale quadro politico, e così via. Ma Grillo e Casaleggio –soprattutto quest’ultimo, con la sua farneticante visione del futuro e del mondo- mi inquietano. Inoltre, da Comunista, non amo l’interclassismo –tipico di forze politiche similari- e anzi lo giudico deleterio e indirizzato, inevitabilmente, verso derive qualunquistiche e corporativistiche. Infine, cosa per me basilare, al di là di una generalizzata e demagogica recriminazione di carattere antipolitico, vero nocciolo del movimento –e pericolosissima, diciamolo chiaro, perché tendente ad annullare, nella sua furia pantoclastica, la stessa essenza etica dell’agire politico, sia esso istituzionale o rivoluzionario, come personalmente auspicherei- e di poche proposte, valide ma per nulla incisive –e di ciò andrebbero analizzate le profonde ragioni tattico-strategiche- il movimento non prospetta alcuna visione di società alternativa. Anzi, esso è indiscutibilmente funzionale all’attuale sistema capitalistico, come si può facilmente dedurre anche dalla lettura del programma elettorale nel quale, ad esempio, non una parola viene detta sul lavoro e, anzi, su questo tema, ci sono dichiarazioni di portavoce che si permettono di asserire, con l’ arroganza tipica dei borghesi benestanti, che l’articolo 18 sarebbe un’aberrazione ideologica: andassero in fabbrica a lavorare e poi ne discutiamo. Quel sistema, capitalista e neoliberista, ci ha di fatto condotti nella situazione tragica nella quale, inesorabilmente, versiamo oggi. Io, da marxista, mi batto perché esso venga radicalmente sovvertito. Per dirla in breve: non amo gli aggiustamenti ortopedici!

martedì 14 gennaio 2014

LA FARSA REFERENDARIA DI UN MOVIMENTO AUTOCRATICO E DALLE PREOCCUPANTI TENDENZE XENOFOBE




Con ventiquattromila voti, felici passano le Leggi. Mi verrebbe da dire, parafrasando Celentano. L’ironia, però, poco mi sembra attagliarsi ad una vicenda seria, come quella che riguarda l’infame reato d’immigrazione clandestina e le ignominiose modalità, con cui la sua eventuale abrogazione è stata gestita dal movimento penta stellato.
Molti di quelli che conosco, simpatizzanti, elettori, attivisti del movimento, oggi diranno, ipocritamente aggiungo, che la democrazia in rete ha trionfato. Quale democrazia, mi domando? Una democrazia-farsa, mi sia consentito dirlo, se un partito da 8 milioni di voti decide di risolvere una questione –l’abolizione del vergognoso reato di clandestinità, appunto- tanto spinosa e angosciante dal punto di vista sociale, economico, politico, culturale e principalmente umano, con una consultazione organizzata a sorpresa e senza un briciolo di discussione interna. Ha ragione da vendere il senatore Campanella, convinto che il web venga ormai usato come «un’arma per gestire la vita di più di 150 parlamentari» e chiudendo con un invito tassativo: «Togliamo quella pistola a Casaleggio!». D’altronde Grillo, al termine della consultazione, si è subito affrettato a dichiarare: «Con l’abrogazione si mantiene comunque il procedimento amministrativo di espulsione, che sanziona coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato». Come dire: chi se ne frega dei 366 morti di Lampedusa, del 3 ottobre; chi se ne frega delle angosce, delle violenze, delle vessazioni che queste persone –e già, perché di persone si tratta- sono costrette a patire in patria, durante il viaggio e una volta giunti –se e quando ci riescono- sulle nostre coste, accolti in quelle infami strutture-lager che sono i CIE. E chi se ne frega anche della compassione e dell’umano sentimento di solidarietà, che anima coloro i quali, quei naufraghi, in genere aiutano e raccolgono, rischiando di venire accusati di complicità e di finire addirittura in galera. Voi votate, ma tanto le decisioni reali si prendono altrove. E stiamo pur certi che, di quel processo decisionale, Grillo e Casaleggio faranno e fanno parte. Comunque, la maggioranza ha, per il momento, votato per l’abrogazione della Bossi-Fini e quindi i 5S, in aula, dovrebbero, a meno di sorprese, esprimersi in tal senso. Staremo a vedere gli sviluppi.
Veniamo ora, però, al merito della questione, che riguarda la consultazione indetta da Grillo sul suo blog. Le considerazioni da fare sono, a questo punto, tre. La prima: la modalità a sorpresa con cui il Gatto e la Volpe hanno promosso questo pseudo referendum è indicativa di come, a dispetto della tanto sbandierata democrazia diretta, affidata alla rete, Grillo e Casaleggio, in buona sostanza, pilotino e guidino, d’imperio, il movimento. La loro speranza, infatti, era proprio che votasse un numero esiguo di cittadini e rappresentanti istituzionali: sembra che alcuni deputati e senatori non abbiano neanche ricevuto l’avviso della votazione, organizzata in fretta e furia e con molta approssimazione. Al tandem, questa volta, è andata male, ma quello che è accaduto ed il risultato conseguito sono, comunque, la rappresentazione plastica della poca democrazia che connota il movimento. La seconda, diretta conseguenza della prima: pochi hanno il coraggio di andare contro le decisioni e l’impostazione ideologica, populista e tendenzialmente di destra, data da Casaleggio e Grillo. La causa del fatto che abbia votato appena il 25% degli aventi diritto, infatti, oltre a dipendere dalla voluta disorganizzazione che ha caratterizzato il referendum, credo vada ricercata proprio nel timore di esprimersi contro quell’impostazione. Infine, la terza: come ho più volte sottolineato, il Movimento 5 stelle è attraversato, in buona parte, da forti pulsioni xenofobe, demagogiche e fascistoidi, che costituiscono, poi, la cultura di fondo con cui è impastato questo nostro misero paese e della quale il grillismo non è altro che l’ennesima, sconfortante incarnazione. D’altra parte, per capire bene lo spirito che anima il Gatto e la Volpe, basterebbe leggere il loro libro “Il grillo canta sempre al tra­monto” nel quale, questi due sinceri democratici, sciorinano una serie di luo­ghi comuni rea­zio­nari, del tutto simili a quelli sbandierati dalla Lega o dalla destra razzista e fascista. Ha ragione Alessandro Dal Lago, stamattina, sul Manifesto: «Nel video Gaia, pro­dotto da Casa­leg­gio e Asso­ciati qual­che anno fa, si pre­vede, tra il serio e il faceto, che tra una tren­tina d’anni saranno indetti refe­ren­dum, su scala glo­bale, su temi come la pena di morte. Ven­gono i bri­vidi a pen­sare come potrebbe andare. Soprat­tutto per­ché, nella visione di Casa­leg­gio e Grillo, i refe­ren­dum non hanno biso­gno di quo­rum. Insomma, chi par­te­cipa ha il diritto di deci­dere per tutti…». Questa è la Democrazia del futuro. Venghino siori, venghino!

sabato 11 gennaio 2014

L'IMPERIALISMO DELLE MULTINAZIONALI: SENZA IPOCRISIE, L’ATTUALITÀ DELL’ ANALISI CONTENUTA NELLA RISOLUZIONE STRATEGICA DELLE BRIGATE ROSSE, ELABORATA NEL 1978

Era il 1978. LA RISOLUZIONE DELLA DIREZIONE STRATEGICA
DELLE BRIGATE ROSSE conteneva un’analisi: “L’imperialismo delle multinazionali”, che ripropongo qui sotto.
Quell’analisi, se era corretta e lucida allora, lo è tanto più oggi che, a 36 anni di distanza, il fascismo finanziario sta portando a compimento il suo disegno, egemonico e criminale, di una società antidemocratica, iniqua, ineguale ed elitaria, all’interno della quale gli individui ed i popoli contano solo in quanto consumatori o merce, quando non siano addirittura ridotti in condizioni di vera e propria schiavitù, costretti in un gioco tra mercanti, avvilente e disumanizzante.
Dalla seconda metà degli anni ‘80, infatti, abbiamo assistito alla progressiva finanziarizzazione globale dell’economia capitalistica –la creazione delle banche d’affari assolve appunto a questo preciso compito- ad una sempre più schiacciante supremazia dei monopoli, all’interno degli andamenti del cosiddetto libero mercato, all’arretramento sostanziale, quando non ad un vero e proprio azzeramento –come in Italia- delle forze comuniste sul terreno del conflitto sociale, allo scellerato utilizzo della guerra, come strumento di tutela di interessi neocolonialistici, e ad un crescente, se non definitivo, assoggettamento della politica agli interessi delle lobby finanziarie e della borghesia imperialista. Vassallaggio che sta producendo, come logiche ed inesorabili conseguenze, lo smantellamento graduale del welfare, la cancellazione dei diritti dei lavoratori, la pratica della privatizzazione selvaggia, l’accrescimento delle già consistenti disuguaglianze tra ricchi e poveri e, in ultima istanza, la cessione di una cospicua fetta di sovranità nazionale, da parte degli stati, a favore di organismi di controllo -economico, monetario e politico- sovranazionali: FMI, Banca Mondiale, BCE, UE.
Inoltre, conseguentemente all’espansione del processo di globalizzazione, abbiamo visto estendersi il dominio delle multinazionali, dal più ampio rapporto di classe al più specifico, inquietante, subdolo e devastante rapporto inter e intrasoggettivo, principalmente attraverso la creazione, l’imposizione e la diffusione capillare di un pensiero unico e omologante, di matrice neoliberista e mercatista. Ciò si è reso possibile, con ogni evidenza, grazie ad un uso sapiente e pilotato della stampa e alla creazione di nuove corporation, operanti in settori strategici, come quelli appunto dell’informazione –specie televisiva- della cultura, svilita a ruolo di semplice intrattenimento, e dell’informatica, settore dove, negli ultimi anni, hanno trionfato multinazionali del calibro di Microsoft, IBM, Apple, Google, Yahoo, Facebook, capaci di porre in essere –malgrado i pur non sottovalutabili aspetti positivi dei nuovi strumenti di comunicazione- una vera e propria mutazione antropologica delle dinamiche relazionali, alterandone e deviandone il nucleo emozionale in un senso sempre più autoreferenziale, egoistico e si potrebbe dire spettacolarizzato, fino a sgretolare quella solidarietà, quel patto di mutua assistenza tra i membri di una società che, specie nei momenti di crisi, dovrebbe condurre un popolo ad unirsi contro la comune tirannia, fino all’estremo atto rivoluzionario: personalmente, infatti, credo poco alle rivoluzioni nate sul web. In buona sostanza, dunque, viviamo un’epoca in cui, per dirla con Debord: «Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta, nella sua pienezza, l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale».
Ancora in quel lontano 1978, solo il fragile scudo della rivoluzione separava una generazione dall’integrazione nello spettacolo. Quel feticcio, oggi, sembra invece irrevocabilmente caduto, cancellato dal potere della stessa società spettacolare. La rivoluzione è morta mentre lo spettacolo è diventato l’episteme del nostro tempo ed ha vinto perché è in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione, facendola propria: non possono esserci, in pratica, spettacoli contro.
Molti compagni –beninteso, non solo le B.R.- tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’80, adoperando diverse metodologie di lotta -giuste o sbagliate che fossero, non m’interessa fare qui una simile valutazione perché non m’ interessano, l’ho già detto altre volte, i giudizi ipocriti, moralisti, tipicamente conformisti, da benpensanti pacifisti, borghesi o piccolo borghesi, di destra e di sinistra- e intuendo quale angosciante scenario si preparasse, hanno provato a spezzarle, quelle catene che pretendono di vincolare la vita umana ai soli valori del denaro, del business e, insomma, dello spettacolo. Anche a prezzo della loro stessa vita. Di questo, dovremmo prendere semplicemente atto, oggi che, con ineguagliabile spietatezza, i padroni stanno conducendo un’offensiva di classe senza precedenti, a meno di non riferirsi a parametri ottocenteschi. E dovremmo prenderne atto perché solo a noi è affidato il compito di ridestare, nelle nostre coscienze, la convinzione che una società e un mondo diversi siano possibili, unicamente riappropriandoci del valore della nostra lotta, della nostra Lotta di Classe e, attraverso essa, tentare di scardinare, con ogni mezzo e a qualunque costo, un sistema che punta al nostro annichilimento morale e alla nostra disintegrazione, come soggetti e come comunità.
Diceva Che Guevara: «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati». Un pensiero che, di questi tempi, potrebbe suonare come un appello per qualcuno ed un monito per altri!
VINCENZO MORVILLO

 

L'IMPERIALISMO DELLE MULTINAZIONALI

«Per IMPERIALISMO DELLE MULTINAZIONALI intendiamo la fase dell'imperialismo in cui domina il capitale monopolistico multinazionale.
Il monopolio multiproduttivo-multinazionale, cioè grandi trust, con aziende in vari paesi e investimenti in diversi settori, è ora l'elemento strutturale dominante; e la base fondamentale dei movimenti del capitale non è più, quindi, l'area nazionale, bensì l'area capitalistica nel suo complesso. Se l'elemento costitutivo fondamentale dell'imperialismo è stato, sin dal suo sorgere, il capitale monopolistico, è però solo con la seconda guerra mondiale che si ha il definitivo affermarsi, in tutta l'area capitalistica, del capitale monopolistico multinazionale. I grandi gruppi monopolistici possono ora superare definitivamente i loro confini nazionali per spaziare liberamente su tutta l'area e la struttura multinazionale diviene fattore necessario ed indispensabile per ogni ulteriore sviluppo. E' infatti grazie ad essa che si possono sfruttare pienamente i diversi saggi di profitto presenti nell'area e realizzare così quegli enormi sovraprofitti che sono il dato caratteristico dell'accumulazione nella fase imperialista.
La "multinazionalità" quindi non è semplicemente internazionalizzazione del mercato capitalistico, ma internazionalizzazione del capitale nella sua totalità: strutture produttive, mercato, rapporti di proprietà ecc. Questo processo di internazionalizzazione del capitale determina, all'interno del fronte borghese, la dominanza della BORGHESIA IMPERIALISTA, espressione di classe del capitale monopolistico multinazionale e parallelamente al suo affermarsi vanno consolidandosi anche i suoi strumenti istituzionali di mediazione e di dominio (Trilateral, Stato Imperialista delle Multinazionali, FMI, CEE, ...). Dominanza del capitale multinazionale e della borghesi a imperialista, non significa però che ogni capitale è in questa fase un capitale multinazionale, ma che ogni altra forma capitalistica, sia essa nazionale o non monopolistica, va ora analizzata nei suoi rapporti di dipendenza organica dal capitale multinazionale: sono i movimenti del capitale multinazionale che determinano in ultima istanza i movimenti di tutti gli altri capitali. Non si ha quindi il superamento delle contraddizioni all'interno del fronte borghese, ma il loro riproporsi sotto forme diverse: ora la contraddizione intercapitalistica principale non è più tra capitali nazionali (quindi tra aree nazionali e borghesie nazionali), ma tra grandi gruppi multinazionali (quindi percorrono verticalmente la borghesia imperialista). Con questo non si vuol negare l'esistenza anche di contraddizioni tra le varie "nazioni" capitalistiche o tra capitale monopolistico e capitale non monopolistico, ma pensiamo che queste contraddizioni siano essenzialmente il riflesso di contraddizioni ben più profonde tra gruppi multinazionali. Le varie aree nazionali infatti sopravvivono ora come retroterra delle multinazionali: per ogni multinazionale, l'area nazionale in cui è nata e si è sviluppata diventa il suo "punto di forza", la zona in cui essa gode di un monopolio quasi incontrastato. Quando parliamo di multinazionali infatti sottintendiamo sempre "multinazionali con polo nazionale", e per questo usiamo le espressioni, a prima vista contraddittorie, "multinazionali americane, tedesche, ecc.". Il capitale non monopolistico, dipendendo organicamente da quello monopolistico, vive certamente con esso in unità contraddittoria, ma non può avere ovviamente la possibilità e la forza materiale di dar luogo ad una espressione politica di queste contraddizioni sotto forma di rottura del fronte imperialista. L'imperialismo delle multinazionali si presenta perciò come un sistema di dominio globale in cui i vari "capitalismi nazionali" sono semplicemente sue articolazioni organiche, e le diverse "aree nazionali" sussistono come espressione geografica della divisione internazionale del lavoro da esso determinata. Possiamo quindi trarre una prima considerazione. In ogni area nazionale il proletariato non si trova a fare i conti con la sua "borghesia nazionale" ma con l'articolazione locale della borghesia imperialista. Questo conferisce, anche, nelle metropoli, alla lotta di classe del proletariato il carattere di lotta antimperialista e quindi, più in generale, di GUERRA DI CLASSE RIVOLUZIONARIA. Nelle metropoli è immediatamente anche GUERRA DI LIBERAZIONE ANTIMPERIALISTICA, GUERRA DI LUNGA DURATA.
La catena imperialista resta comunque caratterizzata, come abbiamo visto, dal suo sviluppo ineguale, che si manifesta in ogni suo anello attraverso la specificità della sua formazione economico sociale (rapporto tra capitale multinazionale dominante e capitale multinazionale del "polo", fra capitale monopolistico e non monopolistico, tra borghesia imperialista "interna" e proletariato) per cui la lotta di classe, pur in questa sua omogeneità strategica di contenuto e di prospettiva, si presenta ancora con forme benefiche e tempi propri a seconda delle diverse aree nazionali».