Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

mercoledì 22 ottobre 2014

IN ITALIA, LA LIBERTÀ DI STAMPA È SEMPRE PIÙ UN’UTOPIA E UN PRIVILEGIO RISERVATO AI SOLI GRUPPI FINANZIARI E AI PADRONI. L’INQUISITORE CASELLI VORREBBE METTERE LA MORSA A CONTROPIANO, CONTRO CUI SI APRONO DUE PROCEDIMENTI GIUDIZIARI. SE VORRANNO PORTARCI IN TRIBUNALE, NOI CI SAREMO



Da un po', ho il privilegio di vedere pubblicato, qualche mio articolo, su Contropiano. Giornale comunista ed indipendente. Ora, a quanto pare, due procure vorrebbero mettere la morsa a questo preziosissimo organo di stampa. Due notifiche di apertura di indagini, a carico del giornale, sono state infatti ratificate, dalle procure di Torino e Napoli, alla direzione del quotidiano online.
L'arcigno inquisitore dei No Tav, Gian Carlo Caselli, lo stesso che, che per processare i compagni della Val di Susa, ha rispolverato il reato di terrorismo, intende querelare Contropiano perché si sarebbe sentito diffamato da un articolo comparso sul quotidiano comunista . Mentre, nel caso di Napoli, non si sa per quale pezzo siano state avviate le indagini. Ora, non posso fare a meno di mettere tali atti in collegamento con la discussione, in corso in parlamento, in questi giorni, sulle pene da comminare in caso di diffamazione a mezzo stampa. Caselli ne ha subito approfittato, evidentemente, fedele alla sua linea di giudice repressivo ed anticomunista. Lo stato liberal-democratico italiano, dunque, mostra, ancora una volta, quanto la libertà di stampa, in questo paese ridicolo, sia solo ad appannaggio dei grandi gruppi finanziari e dei padroni, mentre, con i piccoli giornali indipendenti, svela il suo volto repressivo. Tutto ciò va però inquadrato in quella strategia, di più ampio respiro, ormai in atto, da tempo, e non solo in Italia: stroncare ogni voce che si levi alta per dissentire contro quello che, a tutti gli effetti, possiamo definire il fascismo del XXI secolo. il fascismo finanziario, gestito dal capitale monopolistico, a livello globale. Ovviamente, la repressione diventa feroce se, come in questo caso, a dissentire sono forze e voci di estrema sinistra, marxiste, comuniste. Insomma, quelle stesse voci e quelle stesse forze contro cui si scagliò, qualche settimana fa, Roberto Saviano che, del padronato legato al mondo dell’editoria, è il corteggiato e protetto lacchè. A lui è concesso tutto. Anche offendere un’intera città, la sua per inciso, che applaudiva un corteo contro le politiche di austerità, imposte dalla Troika, e che quella città stanno riducendo alla fame. Due pesi e due misure, come sempre, quando si tratta della giustizia di classe e delle libertà accordate dallo stato borghese. E allora, mi viene in mente che, forse, in quanto cittadini e soggetti politici, anche noi, che scriviamo per Contropiano e che, in quanto comunisti, di quella sinistra radicale facciamo parte e a quel corteo partecipavamo con orgoglio, dovremmo querelare Saviano e L’Espersso, per diffamazione a mezzo stampa. Ciò detto, vorrei dire che, per quanto ci riguarda, Contropiano non si tocca. La sua libertà di opinione è inviolabile. Or dunque, se vorranno portare in tribunale il giornale, sappiano che noi saremo lì. A far valere i nostri diritti e a difendere la nostra fetta di Libertà!

martedì 21 ottobre 2014

AL TEATRO ELICANTROPO, CERCIELLO PORTA IN SCENA SIGNURÌ SIGNURÌ DI MOSCATO. NAPOLI, COME TROIA IN FIAMME. IN UNO SPETTACOLO CUPO ED IPNOTICO, TRAGICO E PAGANO ONIRICO E POETICO.



Due sono le battute che condensano il senso profondo, direi quasi ontologico, di “Signurì, Signurì”, lo spettacolo tratto dall’omonimo testo di Enzo Moscato e messo in scena, al Teatro Elicantropo, dagli allievi del Laboratorio Teatrale Permanente, diretti, come sempre, da Carlo Cerciello: « Oh città! Oh Città!… perché non temi i Greci, anche quando ti portano i doni?» e «Ha da passa’ ‘a nuttata». La prima, l’autore la mutuava dal II libro dell’Eneide di Virgilio e, precisamente, evoca le parole pronunciate da Laocoonte, quando vuol dissuadere i troiani dall'accogliere, dentro le mura di Troia, il cavallo di legno, lasciato sulla spiaggia dagli Achei; la seconda, invece, che chiude testo e spettacolo, Moscato la traeva, come si ricorderà, dall’epilogo di “Napoli milionaria”, di Eduardo, apportando, però, una sostanziale e allegorica variazione: nel dire tali parole, il personaggio che le pronuncia viene colto, alle spalle, da un secondo personaggio, che lo uccide brutalmente, con un colpo alla nuca. E, considerando che l’autore della pièce sia, appunto, Moscato, e che, la vera protagonista dello spettacolo in parola, sia Napoli -topos letterario, artistico, musicale, drammaturgico e, conseguentemente, sociale e politico- il valore simbolico di quelle battute e di quella variante sul tema, si possono, a questo punto, facilmente intuire. La prima, infatti, allude, inevitabilmente, alle tante dominazioni subite da Napoli e dal suo popolo, oramai incapace, dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’avvento degli alleati in poi, di distinguere doni ed inganni. Mentre la seconda, più amara, cupa, drammatica, quasi ineluttabile, ha una doppia valenza: da un lato, quello drammaturgico, una valenza di tipo culturale, riferendosi alla tradizione teatrale ed alla novecentesca “paternità” eduardiana; dall’altro,quello della scrittura scenica, una valenza più prettamente politica. I due registri, ovviamente, si compenetrano. Infatti, se nello scrivere quel testo, Moscato lascia intendere, da subito, come nota, giustamente, Enrico Fiore, ne “Il Rito, l’esilio, e la peste”, quale sia il suo «atteggiamento ribelle, nutrito nei confronti delle troppe paternità, illustri o meno, che soffocano, a Napoli, l’espandersi di una ricerca teatrale autonoma e, in generale, uno sviluppo degno del nome, sul piano culturale, politico e civile»; sul versante del codice spettacolare, e del segno puramente scenico, quella battuta, seguita dalla freddezza dello sparo, va oltre, sfociando in un mare nero di pessimismo. Ad essere barbaramente fatta fuori, infatti, non è solo una tradizione, che pure andrebbe necessariamente superata –tradizione deriva dal latino tradere: consegnare, trasmettere; ma anche tradire- soprattutto, tuttavia, la speranza . Le tenebre, infatti, sembrano sempre più avvolgere e sprofondare Napoli, con tutto il suo retaggio ed il suo lignaggio di capitale culturale, in un abisso senza risalita. Non so quanto Moscato, nel lavorare al testo, abbia voluto sottintendere proprio quest’aspetto ma, nella messinscena fatta da Cerciello, all’Elicantropo, quella sensazione, disperata e disperante, mi ha assalito, con tutta la sua durezza e crudeltà.
D’altronde, ci terrei a ribadire, che la Napoli descritta da Moscato in “Signurì Signurì” –primo testo dell’autore ad essere rappresentato, nel 1982- liberamente ispirandosi a “La Pelle”, di Curzio Malaparte, è una città ancestrale e magica, puerile ed innocente, decadente e corrotta, stupendamente preda e, quindi, depredata dai vari dominatori che, nel corso della Storia, si sono succeduti, e dei quali gli americani, giunti alla fine del II conflitto mondiale, non sono che gli ultimi, in ordine di tempo. Ognuno con i propri ingannevoli cavalli, mascherati da doni, lasciati sulle spiagge partenopee. Napoli, insomma, come una novella Troia: stuprata e saccheggiata. Se per il passato, però, Napoli era riuscita a preservare sé stessa, la sua cultura, la sua tradizione, assimilando e stratificando, nel suo composito corpo-lingua, anarchico e osmotico, le civiltà dei suoi conquistatori, rielaborandole, intimamente, in un sorta di sincretismo filosofico e culturale, artistico e religioso, che sfiorava il paganesimo e l’ebbrezza dionisiaca: «Napoli è la più misteriosa città d'Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli», dice, ad un cero punto, proprio ne “La pelle”, Curzio Malaparte; se era riuscita a sopravvivere, ed a sopravviversi, anche cristallizzandosi, quasi per difesa, esternamente, in una più semplicistica immagine oleografica e folkloristica, i cui tratti distintivi sembravano immutabili: il sole, il mare, il mandolino, la canzone; è solo con l’avvento degli americani, che Partenope comincia a smarrire veramente sé stessa. La prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, prima, e l’occupazione nazista, poi, avevano rappresentato una ferita, meglio, uno strappo, una lacerazione, aperti nel ventre molle della Storia, in generale, e in quella di Napoli, in particolare. Con i due conflitti, susseguitisi nel breve arco di vent’anni, veniva spazzato via un mondo, quello delle monarchie e delle aristocrazie e, di contro, un mondo arcaico e contadino; mentre le borghesie s’ imponevano, definitivamente, con tutto la potenza del loro denaro, dei loro capitali, delle loro industrie. Quel processo, che era cominciato con la prima rivoluzione industriale ed era proseguito per circa un secolo e mezzo, veniva, finalmente, a compimento. Gli equilibri strategici e geopolitici mutavano radicalmente, ed il centro del mondo si spostava, dalla vecchia Europa, agli Stati Uniti d’America. Il concetto di imperialismo, però, restava immutato, e Napoli, come tutti i sud del mondo, era costretta a pagare dazio alla modernità. Un tributo altissimo, che l’ex capitale del Regno delle due Sicilie aveva cominciato a versare sin dall’Unità d’Italia, realizzatasi sotto la bandiera savoiarda. Ora Napoli, prima città a liberarsi dal giogo nazista, grazie al coraggio ed al sentimento, ribelle e libertario, che alberga in fondo al suo popolo, cercava di riscattarsi e tentava, forse, di prendere al volo il treno di quella modernità. Così, ai suoi occhi, il cosiddetto esercito di liberazione alleato, sembrava il giusto aggancio per cogliere quell’opportunità. Non bisognava più emigrare: l’America era venuta a casa nostra. Ma quell’esercito, lungi dall’essere liberatore, era null’altro che una nuova milizia di occupazione. E, come si sarebbe poi rivelato nel tempo, la peggiore. I doni che portano con sé, quei novelli Achei, altro non sono che dollari, con cui comprare Napoli e la sua gente. Soprattutto le donne ed i bambini. E Napoli, stanca per le troppe e secolari sofferenze, affamata e ridotta in miseria, si prostituisce, carnalmente e moralmente. Il prezzo da pagare, però, è ovviamente altissimo: l’inesorabile smarrimento di sé stessa, congiunto ad una lenta ma irrimediabile perdita d’identità culturale, da abdicare a favore del dio denaro e di quello sviluppo che, come giustamente notava Pasolini, poco ha a che vedere col progresso. D’altro canto, è stato il destino di tutte le grandi metropoli europee, smarrire sé stesse, dopo la seconda guerra mondiale e con l’avvento, prima dell’industrializzazione forzata e della società tecnologica, e poi, in epoca più recente, della livella globalizzante. E' lo stesso Malaparte, del resto, ad ammonire, in un altro passo de “La Pelle”: «Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell'Europa di diventare Napoli».
Tuttavia Napoli, in un primo momento, prova a resistere, a questa nuova aggressione, adattandosi e trasformandosi; trasformando, però, anche la sua tradizione culturale, in un’ immagine oleografica, da vendere a buon mercato: sulle bancarelle o nei teatri, nei libri o tra i suoi stessi vicoli. E' invece il mercato, con le sue leggi omologanti, a cannibalizzare Napoli e la sua originalità. La borghesia, un tempo illuminata, si allea con la politica e la camorra e fa, della sua stessa città, una tavola a cui sedersi e banchettare. Non più né meno di come avevano fatto gli americani. Ma uno spirito anarchico, complesso, dionisiacamente sospeso tra le forze pulsionali di eros e thanatos, è difficile da domare. Napoli e la sua gente non ci stanno, ad assoggettarsi alle regole imposte da un mondo disciplinato da leggi astruse, che non gli appartengono. Pare quasi di riascoltare Filumena Marturano, quando, davanti all’avvocato Nocella, che le mostra il codice, risponde: «Io nun saccio leggere e po' carte nun n'accetto!» E allora, Napoli sceglie. Sceglie thanatos. Un lento ma inesorabile suicidio. Un suicidio per inedia. è lo stesso Pasolini, ad intravedere i germi di questa morte, denunciandone il fatale processo, in anni lontani, e risultando, ancora una volta, purtroppo, buon profeta: «Io so questo: che i napoletani, oggi, sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso -in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte- di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o, altrimenti, la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività, contro cui non c'è niente da fare. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri. I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all'ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili». Sembra davvero una voce oracolare. E pensare che, proprio in quegli anni, la nostra città viveva un sussulto di orgoglio sociale, culturale e politico. In quel solco, in quell’humus culturale ed in quelle contraddizioni che Napoli, come sempre, viveva, va ad inserirsi la stesura di “Signurì Signurì”. Moscato, autore attento e sensibilissimo alla realtà cittadina, denuncia la decadenza di una metropoli, perennemente in guerra con sé stessa –sono anche gli anni, da un lato, delle più sanguinaria guerra di camorra che Napoli abbia mai vissuto, e, dall’altro, di un impegno politico, appassionato ed estremo, come mai si era visto- intellettualmente antinomica e socialmente conflittuale, dove il modernismo, più che la modernità, sta attuando una mutazione genetica, che rischia di alterarne, per sempre, il volto. Allo stesso tempo, però, coglie, sul piano antropologico, una prospettiva positiva, in tutto ciò: Napoli potrebbe, facendo reagire tra loro tradizione e contemporaneità, passato e presente, rinascere, ancora una volta, culturalmente e politicamente, da sé stessa. Non dimentichiamo che, in quel periodo, si imponeva, soprattutto in teatro, l’avanguardia, e Napoli diceva, a pieno titolo, la sua. Pertanto, a ben leggerla, quell’opera prima racchiudeva in sé un grido di dolore ed una lecita speranza. Una speranza che, purtroppo però, si è andata ad infrangere, negli anni a venire, contro gli aguzzi scogli di una realtà sempre più prevaricatrice, sfibrante, violenta e mortificante. Una realtà, sia ben chiaro, all’imporsi della quale hanno contribuito tutti: politici e cittadini, popolo e borghesi. Uniti, sebbene con motivazioni diverse e divergenti, e con le le diverse responsabilità, derivanti dal proprio status sociale ed economico, in una sorta di pantoclastia nichilistica. Che nessuno si assolva, dunque!
Ebbene, proprio questa sconsolante e tragica presa d’atto costituisce, a mio modesto avviso, sulla scorta di quanto si è detto finora, il cuore, filosofico e formale, dell’allestimento andato in scena all’Elicantropo. Cerciello non si discosta dal testo moscatiano e dall’amara ironia che lo pervade, ma ne fa risaltare, adottando una cifra in bilico tra dramma e cabaret espressionista –maneggiando una simile materia, la scelta sembra quanto mai adeguata- la cupezza, la disperazione, la tanatoica visceralità. La Napoli, cui assistiamo al teatro di Via dei Gerlomini -che, quest’anno, festeggia il suo diciannovesimo anno di vita, sempre all’insegna dell’impegno civile e resistenziale- è una Napoli che, oramai disillusa ed agonizzante, non ha più la forza di reagire per salvare la pelle –appunto il titolo del romanzo di Malaparte- come aveva fatto, invece, alla fine della seconda guerra mondiale. E’ Troia, definitivamente in fiamme. L’immagine, il segno scenico, che meglio sintetizza questa tristissima realtà, è quello di un Pulcinella/Zeza posto su una sedia a rotelle, maschera sdoppiata e metafora di una città franta, schizofrenica, disintegrata, inghiottita dalle sue stesse polimorfie socio-antropologiche, dalle sue polifonie linguistiche, dalle sue mille vite e dai suoi mille segni, o -per parafrasare lo stesso autore- dalle sue polisemantiche “babelicanti”: « Lengua? E che mi abbisogna di una lengua a me? Ne tengo ciente, ‘e Menelicche e una, di soppiatto, ‘e fuoco...e abbruscia, abbruscia, cupole e ciardine[...]Si je voglio, cu’ nu sciuscio San Ferdinando crolla, e Capemonte ‘a sposto da sinistra a fronte...‘A Galleria? Si me ‘ngrife, è ‘a mia! ‘A Floridiana? Ma metto ‘mmiez’o ppane! ‘A Duchesca? Zi’ Carmè, mescafrancesca! Marechiare? Mergellina? Stamme ‘nzieme ogni matina! Tina? Mattutina? Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo. Chissà dove sarà! Sarà? Non sarà? Avverrà? Chissà! Orsù,facimme ‘ e serie! Non prendete la mia anima per viva[…] No!Nun voglio int’a chesta valiggia‘e dische rutte aspettà l’ora d’a morte...Ma si guarde, veco ‘na cosa sola, solamente scheggia, crastule, frammente...e allora...e allora...No, nun vale ‘a pena‘e se pentì » dice Zeza/Pulcinela, durante il suo monologo.
Una città in crisi, dunque, che non riconosce più sé stessa ed il suo passato, e non sa, o non vuole guardare, al futuro. I tanti quadri che compongono questo spettacolo nero, inquietante, meravigliosamente crudele, in senso artaudiano, ci parlano di tutto ciò, fondendo insieme le tante “facce” di Napoli. Su di essi, la regia di Cerciello lavora, tessendo una partitura scenica in cui ogni singolo elemento funziona, senza stonature. E così, davanti ai nostri occhi, si vengono costruendo visioni, che sembrano salire dagli stati crepuscolari della nostra coscienza malata. Il teatro e la realtà si confondono, sul filo di una soglia sottilissima. Guappi incerottati, sciantose ridotte a bambole automatiche, figure fantasmatiche, maschere demoniache, monache avvezze ai piaceri della carne –la Chiesa, altro potere che ha divorato e fatto scempio di Napoli- prostituzione, stupri e atti cannibalici si susseguono, in un rincorrersi incessante tra verità e verosimiglianza, cronaca e romanzo, teatro e vita vissuta. Visioni ipnotiche, oniroidi, poetiche, pagane ed arcaicamente simboliche, sotto cui scorre, però, come un fiume in piena, la violenta ironia deformante, come in un film di Quentin Tarantino. Visioni ai limiti dell’incubo, i cui riferimenti più immediati mi sembrano Lynch e Kubrik. E allora, a tale proposito, mi corre l’obbligo di citare le bellissime coreografie, curate da Cinzia Cordella. Ed in particolar modo, vorrei menzionare una sorta di sabba stregonesco che, con l’ausilio delle maschere, ha evocato in me, appunto, tanto il Kubrik di “Eyes wide shut “ che il Lynch di “Inland Empire”; come pure, le movenze da automa di una sciantosa, oramai fissata, dall’oleografia imposta dal mercato, in un insieme di gesti coatti, sincopati, stereotipati, innaturali. Spettacolo tragico e corale, infine, con richiami desimoniani, nei primissimi quadri. Ma anche, vogliamo dirlo, spettacolo catartico, nel suo pur cupo pessimismo. Sì, perché da quel teatro si esce scossi, certo, ma con in sé la voglia di non arrendersi, di non lasciarsi sopraffare e di mettere in piedi l’ennesima palingenesi partenopea. Una palingenesi, d’altronde, i cui embrioni sono già in atto negli splendidi, motivatissimi, entusiasmanti ed emozionanti allievi del Laboratorio Teatrale dell’Elicantropo. Tutti bravissimi!

giovedì 16 ottobre 2014

CROLLANO LE BORSE? OVVIAMENTE, È TUTTA COLPA DELLA GRECIA!



E c'è pure qualcuno che ha la vergognosa sfrontatezza di venirci a dire che non c'è altro modo, per uscire dalla recessione, se non approvare le politiche di austerità. O che la battaglia per i diritti della classe lavoratrice è vecchia e che, tuttalpiù, andrebbe fatta in maniera pacifica e meno marxista. Gli speculatori finanziari, i grandi trust e la Troika (Bce, Ue e Fmi) che ne cura gli interessi, sul versante politico, invece, procedono spediti con la loro Lotta di Classe padronale. Non si accontentano di mettere in ginocchio paesi e popoli. No, loro ne vogliono il sangue.
Potete giurarci, noi finiremo come la Grecia! La quale, dopo aver applicato le ricette recessive imposte dai trattati di Maastricht e dal famoso patto di stabilità -o fiscal compact- aver cancellato diritti, licenziato operai e lavoratori statali, tagliato salari, ridotto al di sotto del livello di sopravvivenza le pensioni, reso precario il futuro dei giovani; dopo aver privatizzato tutto il privatizzabile e aver massacrato lo stato sociale, tagliando, in modo lineare, la spesa pubblica, causando la chiusura di ospedali e lo sventramento di settori nevralgici come scuola, cultura e conoscenza, è ancora sotto lo schiaffo dei pescecani del mercato. E, non appena spera di potersi liberare dai vincoli della Troika, i mercanti la puniscono e fanno crollare gli indici di borsa. Se non è dittatura questa –ricordo che l’etimologia latina di dittatura è dictatura: dettatura; da cui, anche il tedesco diktat: ogni imposizione unilaterale di volontà, che esclude la possibilità di negoziati- mi domando: come la dovremmo definire? Ma no, lor signori ci rassicurano: siamo in democrazia. Un nuovo tipo di democrazia, evidentemente. La democrazia delle oligarchie finanziarie. Democrazia fascista!





sabato 11 ottobre 2014

STATO DI DIRITTO O STATO D’ECCEZIONE?



Esprimere solidarietà a due mafiosi del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, come ha fatto Sabina Guzzanti, può forse essere eccessivo, benché sia chiaro l'intento provocatorio: prima ci trattate, con i mafiosi, e poi, a vostro piacimento, ne sospendete le prerogative giuridiche! E, molto probabilmente, la Guzzanti lo ha anche fatto per attirare l'attenzione sul suo ultimo film, "La Trattiva", che bene pare non stia andando. Ciò premesso -e tralasciando la Guzzanti, di cui qui non si vuole assolutamente parlare- è fuori discussione che, nel caso della deposizione di Napolitano, dinanzi ai giudici di Palermo, per il processo sulla presunta trattativa stato-mafia, sia stato commesso un abuso di potere e siano stati violati i diritti elementari dei detenuti, incorrendo nel probabile rischio che l’intero procedimento venga annullato. Forse, è proprio quel che si vuole.
Senza però indulgere ad inutili dietrologie, mi limiterei ad osservare che o si è in uno stato di diritto, o si è in uno stato d'eccezione. D’altronde, come sosteneva, in "Teologia politica”, Carl Schmitt -torico di quella Rivoluzione Conservatrice che rappresentò il brodo di coltura da cui nacque il nazismo- enucleando la tesi per cui la sovranità deriva dallo stato di eccezione e non dal popolo: “Sovrano è chi decide nello stato di eccezione”. Ecco, l’Italia, nello stato d’eccezione, ci vive da tempo; e di sovrani che abbiano deciso e decidono extra legem, ne ha avuti tanti. Basti ricordare le Leggi Speciali, in materia di terrorismo, varate durante i cosiddetti anni di piombo. Dispositivi ai limiti dell’incostituzionalità, come la Legge Reale (1975) e la Legge Cossiga (1980). Strumenti, di cui hanno pagato lo statuto repressivo decine di compagni, scontando anni ed anni di galera, solo perché sospettati di banda armata. Di questi tempi, in cui la repressione del dissenso sta raggiungendo limiti francamente intollerabili, è bene ricordarle, certe cose. Anche perché, se Riina e Bagarella sono, senza dubbio, due criminali della peggior risma, i compagni appartenenti al Movimento NO TAV -Claudio Alberto, Mattia Zanotti, Chiara Zenobi e Niccolò Biasi- tanto per fare un esempio, certo non lo sono. Ma contro di loro, si è proceduto ugualmente, ignobilmente ed in deroga a qualunque senso di giustizia, per il reato di terrorismo, solo per aver danneggiato un compressore, durante l’attacco al cantiere di Chiomonte, il 14 maggio 2013. Surreale, grottesco, allucinante cme un incubo kafkiano. La loro colpa, in realtà, ben più grave, risiede nel non essere inclini ad accettare, passivamente, lo scempio delle nostre vite, consumate dal sistema capitalistico e dalle sue inique regole di mercato. Dunque, in conclusione, è sempre bene discernere tra uno stato di diritto ed uno stato in cui la legalità, divenuta solo formale, può degenerare in legalitarismo. Fu appunto questo il presupposto delle dittature fasciste e del nazionalsocialismo. Insomma, si comincia coi mafiosi e si finisce per sospendere i diritti ai normali cittadini. Del resto, è quel che sta gia accadendo!
Lascerei però la chiosa, a questa breve riflessione, ad un certo Vittorio Alfieri, sul concetto di tirannide: «Tirannide: indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».

venerdì 10 ottobre 2014

ALTRO CHE CLASSE OPERAIA IN PARADISO, SI VA VERSO UNA MONARCHIA BORGHESE!



Ieri sera, Servizio Pubblico, ha fornito alcuni dati che hanno colpito non poco la mia attenzione. La ricchezza privata, in Italia, è pari al 7% sul PIL. Parallelamente, la crescita della ricchezza derivante da accumulo di capitale e da rendita finanziaria è pari al 5%, contro l'1,5% della ricchezza prodotta da lavoro salariato. In questo quadro sconcertante, dove i rapporti di forza e le dinamiche sociali e di classe sono palesemente squilibrate, è stato approvato, dal parlamento italiano, prima il pareggio di bilancio in costituzione, nell’ambito di quel patto di stabilità, o fiscal compact, deciso a livello europeo, e poi, l’altro ieri, in senato, è passata –con la vile acquiescenza della sinistra PD, che non è d’accordo ma vota lo stesso qualunque cosa gli propongano, scambiando, evidentemente, il bonapartismo per centralismo democratico- quella delega in bianco sulla controriforma del lavoro, il Jobs Act, voluta da Renzi e dal suo governo, e che consente flessibilità e licenziamenti facili –perché la sostanza dell’abrogazione dell’art.18 tale è, e chi dice il contrario o è stupido o in malafede- adducendo, come motivazioni, la modernizzazione dell'Italia e che, se non si procede in tal senso, le imprese non investiranno più nel nostro paese e, dunque, non si produrrà crescita e ricchezza. Il tutto, ovviamente, per accontentare la Troika: Ue, Bce, Fmi.
Ora, stando ai dati citati all’inizio, vorrei che qualcuno dei grandi economisti ed analisti di cultura liberal-liberista, la ragione di simili scelte politiche che, evidentemente, aumentano il divario tra ricchi e poveri –non solo in Italia, sia ben chiaro- ed altrove, come in Grecia, ad esempio, o, in passato, in alcuni paesi del Sud America, hanno prodotto soltanto recessione e disoccupazione, me la spiegasse come se fossi un bambino, un po’ tardo, di sei anni. Perché io questa logica assurda, francamente, non la capisco. Mi pare evidente, invece, che sia stia giocando al massacro sulla pelle di operai, lavoratori, giovani, pensionati. Insomma, sulla pelle di noi tutti. Ma si sa, noi comunisti siamo non moderni, anacronistici e fuori della storia. Dunque, certe scelte raffinate e modernizzanti non riescono proprio ad entrarci, nella testa. Però Carletto Marx, nel Capitale, era stato chiarissimo. Dicesi accumulazione di capitale, quando il capitalismo è in crisi recessiva e non è in grado di fare profitto attraverso la vendita di merce, proprio l’espropriazione dei diritti della classe lavoratrice. In poche parole, il padrone fa profitto e si arricchisce, appunto licenziando. Sarò pure antico, ma continuo a pensare che questa debba definirsi una barbara ingiustizia, volendo parlare pulito. E coloro che la consentono, la classe politica, coloro che ne godono i frutti, i padroni, e coloro che proteggono entrambi, le forze dell’ordine, andrebbero combattuti con ogni mezzo e senza compromessi di sorta. L’alternativa, del resto, è la nostra fine per reificazione –trasformazione in cosa/merce, per chi non fosse aduso ai termini marxisti- e l’instaurazione definitiva di una sorta di monarchia finanziaria, che comunque si sta già imponendo, a livello globale, da trent’anni. D’altronde, nel mondo, la ricchezza da rendita e da accumulo è pari a più di 150.000 miliardi di dollari, detenuta da un ristrettissimo numero di super ricchi. La loro lotta di classe, i padroni, la stanno dunque conducendo senza pietà e senza frontiere.
E pensare che c’è, a sinistra, chi ha ancora il coraggio di teorizzare un capitalismo dal volto umano, di insistere sulla socialdemocrazia e sulla mediazione sociale delle contraddizioni interne allo stato liberale ed al sistema di produzione capitalistico; o chi afferma, con una certezza che sfiora il grottesco, che l’imprenditore non avrebbe interesse a licenziare l’operaio, perché questi sarebbe la sua ricchezza; o, peggio, chi mette il padrone ed il lavoratore sullo steso piano -in una visione evidentemente provocata da alterazioni chimiche- in quanto ad entrambi starebbe a cuore il destino dell’azienda. Vorrei ricordare a coloro che l’avessero dimenticato e che, nonostante tutto, continuano a definirsi di sinistra, che questo si chiama corporativismo fascista. Mentre loro, altro non sono che traditori della classe lavoratrice.
Una postilla, per chiudere, partendo da Carl Schmitt, uno dei teorici di quella Rivoluzione Conservatrice che costituì l’humus culturale da cui, poi, si sviluppò il nazismo, e che dedicherei a coloro che vedono, nel profeta di Firenze, il salvatore della patria. Ne “La dittatura”, Schmitt auspicava la rigenerazione della società europea per mezzo dell’intervento di un individuo dotato di capacità superiori, in grado di guidare lo Stato senza incorrere nei limiti della forma democratica: la contrattazione con le forze politiche, con le parti sociali, l’eguaglianza giuridica e la ricerca del consenso elettorale come base dell’autorità. Ed in “Teologia politica”, alzava il tiro della sua critica contro le liberal-democrazie, enucleando la tesi per cui la sovranità deriva dallo stato di eccezione e non dal popolo: “Sovrano è chi decide nello stato di eccezione”. Ecco,l’Italia, nello stato d’eccezione, ci vive da tempo. Ora, pare abbia trovato anche il suo sovrano!