Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

mercoledì 14 luglio 2021

IL MONDO NUOVO: RIFLESSIONI SULLA REPRESSIONE NELLA DEMOCRAZIA TECNO-LIBERISTA

Le immagini del video -circolato nei giorni scorsi su media, stampa, social- che ritraggono le guardie penitenziarie di Santa Maria Capua Vetere accanirsi, con sadico piacere di aguzzini, sui detenuti di quel carcere -finanche su quelli costretti in sedia a rotelle- che avevano protestato, lo scorso anno, per il logico timore che si potesse verificare una rapida diffusione del Covid in una struttura penitenziaria che versa in condizioni di disumano sovraffollamento, sono la rappresentazione plastica di Corpi di Polizia sempre più fuori controllo.

Sempre più pervasivi e dunque concepibili quali gangli indispensabili della governance occidentale e neoliberista che disciplina, ormai, ogni settore delle nostre esistenze.
Corpi di Polizia, dunque, sempre più dotati di potere autonomo e discrezionale, e sempre più impuniti ed esenti dal rispondere a un supposto vertice politico sulla catena del comando.

Corpi di Polizia, a tutti gli effetti assimilabili, pertanto, a squadroni della morte di stampo fascista.
Sono immagini, quelle viste nel carcere sammaritano, che evocano e possono benissimo sovrapporsi a quelle delle brutalità compiute dalla Dina cilena di Pinochet, dalla Tripla A durante la dittatura della Junta in Argentina, dalla Falange del Maggiore D'Aubuisson in Salvador, dai Contras in Nicaragua.

O da qualunque altro corpo speciale creato, a fini repressivi, da uno Stato che rilasci un assegno in bianco alle forze dell'ordine e su cui la cifra e l'intensità delle violenze e delle torture venga costantemente aggiornata al rialzo.

Sono immagini che ricordano, alla vigilia del ventennale del G8 di Genova, la macelleria messicana della Diaz o il massacro dei diritti e dei corpi dei compagni nella caserma Bolzaneto.

Immagini che confermano, insomma, qualora ve ne fosse la necessità, la natura perversa, violenta e vendicativa dell'ideologia punitiva e del controllo capillare, legata alle logiche disciplinatrici del Capitale.

La stessa natura di quelle strutture carcerarie che, con il reinserimento e la rieducazione a fini sociali, nulla hanno a che vedere; ma molto hanno, invece, a che fare con l'annientamento della persona umana e con le più feroci forme di vessazione dell'individuo.

Tanto che per esse non sembra eccessivo rievocare i metodi della Santa Inquisizione.

La stessa natura, infine, di una classe dominante liberal-borghese e perbenista, per quanto spregiudicata nella sua insolente presunzione di autoreferenziale difesa del privilegio oligarchico.

Manichea e moralizzatrice con coloro che, a tutti gli effetti, ritiene "sudditi", ma assolutamente amorale nella gestione dei propri affari e dei propri costumi.

Oligarchie rigidamente arroccate dietro le barriere di un potere politico-economico svincolato da ogni controllo e da qualsivoglia giudizio; e portatrici di una concezione del mondo avulsa dalla materialità dei bisogni delle esistenze comuni.

Una concezione che si pretenderebbe, oltretutto, di assumere come globale protocollo sociale.
Ebbene, tali oligarchie suppongono, nella loro weltanschauung rigorosamente classista, che vi sia una parte della società -ovviamente quella costituita dalle classi subalterne, dai ceti popolari, ancor peggio se immigrati, e da coloro che non si uniformano al dettato politico-economico imposto dalle stesse élite- che, sopravvivendo o ponendosi volontariamente ai margini del consesso civile -e soprattutto ai margini della sfera produttiva e della sua conseguente, pretesa legalità- difetti di qualità propriamente umane.

Delineando, così, malthusiane tipologie di minus habens che vadano rinchiuse in carceri, manicomi o in altri perimetri rieducativi. Nei quali comprimere sempre più gli spazi, a maggior ragione quelli mentali.

Luoghi dove poter "raddrizzare" questi ampi settori sociali con isolamenti, manganelli, botte, torture, elettrodi e waterboarding. O, se donne, casomai, con qualche stupro.

Luoghi, insomma, dove poter rieditare la versione liberista del bastone e della carota di mussoliniana memoria.

E nulla conta, sul piano almeno della coerenza formale, se la stessa società iberal-borghese e quelle stesse oligarchie, insorgono poi, indignate, gridando alla violazione dei diritti umani, quando un mafioso di Miami o un nazista ucraino vengono arrestati a Cuba o in Bielorussia. O quando un teppista di Hong Kong viene ammanettato dal governo cinese.

Oppure, se quella stessa congrega sociale definisce antidemocratica e violenta la polizia venezuelana, costretta a fronteggiare squadre di killer sovvenzionate dagli Usa, per seminare il panico nelle strade di Caracas e fomentare un golpe contro il governo bolivariano di Maduro.

Insomma, il più classico esempio dell'ipocrisia democraticista a geometria variabile.

Purtroppo, da quelle logiche punitive, securitarie, repressive e violente non sono stati e non sono esenti molti di quelli che si definiscono "sinceri comunisti".

L'ideologia del carcere, della caserma a cielo aperto e della rieducazione col manganello appartiene, di fatto -ci piaccia o no- anche a molte esperienze ascrivibili al socialismo reale.
Ed è stata tenacemente propugnata, soprattutto in Italia, da molti cosiddetti compagni.

Il Pci, d'altra parte, ne ha rappresentato il campione più fulgido.

Prima con Togliatti che, dopo la guerra, faceva arrestare quei partigiani che non volessero posare le armi e il cui obiettivo era combattere contro la restaurazione della democrazia borghese, fino alla creazione di una Repubblica Italiana dei Soviet.

Poi, con l'ineffabile Berlinguer che, tra gli anni '70/'80, ha sostenuto lager come l'Asinara, la deriva securitaria delle carceri speciali, la torsione incostituzionale della legislazione emergenziale -con l'istituzione, ad esempio, dell'articolo 90, successivamente sostituito da quel 41bis contro cui si sono più volte sollevate eccezioni di incostituzionalità- e addirittura la tortura sui prigionieri politici delle Brigate Rosse e di altre formazioni combattenti per il comunismo.

Sussunti nel dogma della statolatria e avviluppati nelle spire del modello produttivo mercantile da difendere ad ogni costo; o sedotti dal potere personale; o anche pervicacemente legati ad una rigorosa applicazione di principi dottrinari; molti, troppi autoproclamatisi comunisti hanno assunto il punto di vista della giustizia borghese in materia di diritto e di legalità.

Finendo spesso con lo sposare l'autoritaria diarchia della Legge e dell'Ordine.

D'altra parte, fu proprio uno di questi sedicenti comunisti, il "compagno" Oliviero Diliberto dell'allora PdCi che -in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia durante il Governo del centrosinistra presieduto da Massimo D'Alema- istituì, nel 1999, il corpo speciale dei Gom (Gruppo Operativo Mobile) che risponde direttamente al Capo del Dipartimento della Polizia Penitenziaria.

Confermando, ove mai ve ne fosse bisogno, la vocazione securitaria e repressiva di una non irrilevante schiera di cosiddetti comunisti democratici italiani!

Proprio quei Gom, guarda caso, che si sono resi protagonisti della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Del resto, il controllo sociale, la repressione di qualunque forma di conflitto e la censura imposta a qualsivoglia voce dissonante col pensiero unico dominante o a qualsiasi vagito di cultura antagonista - fattori che hanno attraversato, come una costante, questi ultimi quarant'anni, subendo poi un'accelerazione negli ultimi venti, dalle Torri Gemelle in poi- hanno visto in prima linea ampi strati della indecorosa sinistra italiana.

Che ha finito col rincorrere -soprattutto attraverso il suo legame con uomini e pezzi fondamentali della Magistratura, spesso addirittura candidati alle elezioni- la destra più reazionaria, giustizialista ed estrema sui temi della legalità.

Riuscendo, ed è storia presente, persino ad anticiparne le pulsioni forcaiole, con il famigerato Decreto Minniti in materia di sicurezza.

Una deriva coercitiva, censoria e normalizzatrice, sul piano sociale e culturale, che non solo non sembra trovare fine, ma che si perfeziona e inasprisce giorno dopo giorno.

Quanto successo, ad esempio, circa un mese fa, al compagno e amico Paolo Persichetti è qualcosa che va ben oltre il perimetro concettuale della semplice repressione.

La perquisizione della sua abitazione, il conseguente sequestro di tutto il materiale archivistico-documentale, dei libri, del corpus di carte necessario per la sua ricerca storica, in uno con la confisca di ogni dispositivo -Pc, smartphone, tablet- in cui sono contenute non solo le tracce del suo lavoro di storico e ricercatore, ma anche e soprattutto i frammenti intimi della sua vita, personale e familiare (non dimentichiamo che Paolo ha un figlio tetraplegico, e anche tutta la documentazione afferente alla malattia del bambino è finita sotto sequestro);

nonché le susseguenti accuse di favoreggiamento e addirittura di associazione sovversiva a fini di terrorismo, confermate -ed è l'aspetto più grave- dal Tribunale del Riesame, spalancano scenari terrificanti, e disegnano nuovi e ben più asfissianti confini per quelle che, oramai sempre più solo teoricamente, si possono definire libertà democratiche.

Come se la ricerca storica e l'accertamento della verità possano rappresentare un pericolo per la collettività e per lo Stato.

Una simile assurdità la può concepire, diciamolo chiaramente, solo un governo autoritario. Anzi una dittatura.

E quest' Italia, quest' Europa e questo Occidente, a trazione neoliberista, somigliano sempre più ad un regime, nel quale il principio di legalità assoluto è divenuto non solo il modello a cui informare la norma socialmente accettabile; ma addirittura il paradigma, comportamentale e relazionale, su cui declinare un'etica di ispirazione metafisico-statuale, e da cui espungere qualunque ratio democratica di giustizia, conformata sui canoni del tanto decantato diritto liberale.

Per tacere di auspicabili e non più rintracciabili barlumi di sentimento umano e collettivo.

Ricordo, d'altronde, che il mio professore di Filosofia del diritto, spiegandoci la differenza tra Stato di legalità e Stato di diritto, portava ad autorevole esempio del primo lo Stato Nazionalsocialista!

Il principio di legalità assoluto lo potremmo dunque definire un cancro in proliferante metastasi nel corpo della democrazia occidentale.

Basti pensare, d'altro canto, all'irrazionale torsione compiuta, sul piano del linguaggio, dalla comunicazione social.

Piazza virtuale, dove impera la logica binaria e il giudizio assoluto e assiomatico, plasmato proprio sulle più diverse esegesi del principio di legalità, nell'affrontare temi di carattere politico-sociale.

Esegesi, evidentemente, rispondenti sempre ad individuali visceralità e a sovradeterminate pulsioni, mescolate a guazzabugli ideologici che poco o nulla attengono a reali culture politiche, e con cui alimentare derive sempre più destrorse.

Una sete di manette, forca e sangue che tracima da ogni bacheca.

Fomentata, vieppiù, proprio dall'algoritmo di Facebook, che addirittura invita gli utenti a denunciare chiunque sia in odore di estremismo.

Ciò che però rende il tutto, non si sa se più grottesco o terrorizzante, è la motivazione sentimentale che sottende questo nuovo dispositivo.

In pratica, l'algoritmo agirebbe a fin di bene, consentendo, a chi sia preoccupato per la sbandata estremista presa da un amico o un familiare, di riportarlo sulla retta via. Denunciandolo!

L' infamità della delazione dai contorni amorevoli. Lo spionaggio elevato a sistema relazionale...

Ma Facebook va addirittura oltre, mettendo a disposizione contatti con eventuali comunità di recupero. Per intossicati dall'estremismo.
In poche parole, una specie di San Patrignano per il reindirizzo ideologico.

Bisogna riconoscere che la cosa, al di là dei suoi aspetti allarmanti, ai limiti anche del ridicolo eccesso, ha un che di geniale. Sebbene non originale.

Chiusi, infatti, in un Panopticon virtuale dove tutti spiano tutti, viviamo ormai una realtà concentrazionaria, coartiva e angosciosa che va ben oltre l'analisi foucaultiana sulla microfisica del potere.

Trovano concretezza, in vero, le più attuali analisi, elaborate dal filosofo sud coreano Byung-chul Han, sulla psicopolitica e le nuove tecniche del potere neoliberista.

La distopia, in definitiva, è diventata la nostra attualità. Il nostro presente supera di una spanna la romanzesca narrazione orwelliana.

Siamo all'alba di quel Mondo Nuovo, mirabilmente descritto da Aldous Huxley, il cui motto era "Comunità, Identità, Stabilità".

E nel quale la produzione in serie - intesa non solo come organizzazione del lavoro in fabbrica ma anche come possibilità di selezione e ottimizzazione umana- il controllo mentale, l'eugenetica, le tecnologie riproduttive, erano dispositivi usati per forgiare un nuovo modello di società.

Huxley faceva riferimento a quella società fordista che, negli anni di uscita del libro, stava mutando significativamente non solo i parametri del Modo di Produzione Capitalistico ma persino il profilo socio-culturale del '900.

Ebbene, noi possiamo dire di trovarci in una società postfordista in cui tutto, finanche il singolo individuo è ridotto a merce.
Mentre la nuova frontiera del controllo psicopolitico non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio. Anzi.

Essa ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita.

Ci seduce con un volto amichevole. Mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i big data. Ci stimola all'uso di dispositivi di automonitoraggio.

Nel panottico digitale del nuovo millennio - con internet e gli smartphone - non si viene torturati, ma twittati o postati.

Il soggetto e la sua psiche diventano produttori di masse di dati personali che sono costantemente monetizzati e commercializzati.

Siamo, insomma, immersi nell'epoca di un'aporia ontologica.

Dove alla più totale pornografia culturale fa da contraltare una violenta autocensura del pensiero critico. Un paradosso perfetto!

Usando un'immagine allegorica, potremmo dire che siamo nudi robot erotomani che galleggiano tra gli scarti della Storia e dell'Umanità.
Macchine controllate da algoritmi.

E in questo mondo nuovo, dominato dal turbocapitalismo schizofrenico e paranoide, vittimista e guerrafondaio, avido e famelico di corpi e di menti da ingurgitare, la cessione della propria libertà, della propria indipendenza, della propria soggettività alle necessità della governance tecnocratica, è divenuta un obbligo.

Le libertà democratiche e costituzionali, nate con l'Illuminismo e il diritto borghese -che pure come comunisti contestiamo e non accettiamo, in quanto sostanziali presupposti giuridico-filosofici di forme di governo liberali, piegate dunque alle esigenze del mercato, della proprietà privata e dell'individualismo- rappresentano ormai solo un simulacro. Perfino ignobile.

Un alibi per i detentori del Potere che ne evocano la copertura, un giorno sì e l'altro pure, ad esclusiva tutela dei propri interessi economici, politici e intellettuali.

Un alibi e un simulacro ai quali si può evidentemente ed allegramente non prestar attenzione, però, quando a reclamarne la validità e la solidità sono i ceti subalterni.

O quegli intellettuali liberi dai vincoli di una cultura che pretende l'ossequio all'omologazione della circolazione delle idee. Rigorosamente in linea col pensiero dominante.

Ceti sociali e intellettuali organici a quella classe, cui non è concesso contestare misure politiche o dispositivi di controllo che mettano a rischio la sopravvivenza materiale delle persone, ne violino sistematicamente i diritti o ne impediscano la piena libertà di espressione.

È così che il pregevole lavoro di decostruzione e ricostruzione storica, rigoroso e puntiglioso, portato avanti da Paolo Persichetti sugli anni '70, la lotta armata e soprattutto sulle Brigate Rosse, con la pubblicazione di articoli e libri, diventa un lavoro che, palesemente, costituisce un pericolo per chi detiene le leve del potere.

Per chi, cioè, ha tutto l'interesse che quella Storia rimanga sepolta sotto un cumulo di menzogne.

Ci riferiamo, ovviamente, innanzitutto agli eredi dei partiti del compromesso storico (Dc- Pci) che, già all'indomani del rapimento di Aldo Moro, si misero all'opera per la creazione di un'architettura narrativa che controvertesse la veridicità materiale degli eventi e della Storia.

Quarant'anni durante i quali, prima il Pci e la Dc, e successivamente i loro eredi, hanno inquinato fatti, alterato testimonianze, mistificato eventi, prodotto teoremi e narrazioni surreali sul conflitto sociale che ebbe luogo in Italia negli anni '70.

Quarant'anni durante i quali lo Stato ha assolto sé stesso dalle stragi compiute con l'ausilio di manovalanza mafiosa e fascista.

Quarant'anni durante i quali si è preteso di occultare il fatto che in Italia ci fu una guerra civile a basa intensità.

Una guerra civile dichiarata innanzitutto dalla Repubblica contro il movimento operaio, contro i ceti subalterni, contro le organizzazioni comuniste extraparlamentari e antagoniste.

Quarant'anni durante i quali si è costruita una narrazione tossica e di comodo su quel contesto e quegli eventi. Turlupinando la verità storica e raggirando i cittadini.

Sono quarant'anni che, soprattutto il Pci e i suoi eredi, rimestano in un torbido che è solo la proiezione della loro cattiva coscienza.

Sporca per aver svenduto il movimento operaio e i principi stessi del comunismo, barattandoli con un posto alla tavola dei padroni.

Sono quarant'anni che si continuano ad alimentare grottesche e nere favolacce su doppi e tripli stati. Su fantomatici servizi deviati. E soprattutto sulle Brigate Rosse.

Che si vorrebbero infiltrate ed eterodirette da Mafie, Cia, Mossad, Kgb, Sismi, Lupi Grigi e Capre Nere.

Un filone complottista che, dopo quarant'anni, ha assunto nuance addirittura pecorecce, tanto è infimo il livello toccato dalla pubblicistica in materia.

Un filone complottista sbugiardato da una storiografia seria e puntuale, prodotta da storici di vaglia come Clementi, Satta, Armeni, Barbero, De Bernardinis.E ovviamente da Paolo Persichetti.

Una storiografia che conferma un dato incontestabile da quarant'anni.
A Via Fani, lo Stato liberal-borghese, con tutti i suoi sistemi di sicurezza, fu colto di sorpresa da dieci tra operai ed ex studenti.

Si chiamavano Brigate Rosse ed erano sole, in quell'operazione studiata, pianificata e portata a segno con i loro soli mezzi e con le loro sole intelligenze politico-militari.

Sono cose che andiamo ripetendo da anni. Come un disco rotto.

Un'azione compiuta da comunisti per il comunismo.

Checché ne dicano quegli altri. Quelli che erano seduti in parlamento e che, con il loro amato segretario, alle classi popolari volevano far ingoiare di tutto.

Dalla ristrutturazione capitalistica all'austerità. Dalla robotizzazione in fabbrica all'ombrello della Nato.

Quelli che la bandiera rossa la infangarono, lasciando torturare i compagni finiti nelle grinfie dei reparti speciali voluti da Dalla Chiesa.

Insomma, quelli del Pci.

Come il summenzionato Diliberto, fondatore dei Gom e amante della repressione sociale e carceraria.

I fatti, i dati incontrovertibili della realtà, le testimonianze, le fonti e gli storici seri hanno sempre confermato quanto fin qui detto.

Tra essi, il ricercatore più rigoroso e puntiglioso è proprio Paolo Persichetti.

E Paolo fa paura. Magistratura, Digos e politici complottardi ne hanno terrore.

Vorrebbero quindi chiudergli la bocca, addirittura contestandogli, come scritto più su, il reato di associazione sovversiva a fini di terrorismo e favoreggiamento.

E hanno ragione. Perché è vero!

Paolo è colpevole di favorire la Verità. Paolo è colpevole di attività sovversiva contro le loro indecenti menzogne.

Paolo è un intellettuale indipendente, che non ha da chiedere nulla a nessuno. E come tutti gli intellettuali indipendenti fa paura.

Come fa paura quella Storia di sovversione, benché sconfitta.

Una Storia di sovversione che, nell'ottica delle classi dominanti, non dovrà più riproporsi. Oggi come in futuro.

Vae victis, insomma. Guai ai vinti.

Perciò, chi pensa di poter restituire verità alla storia del conflitto sociale in Italia, rischia l'incriminazione e finanche il carcere. L'avvertimento è chiaro

Perché il Profitto, il Mercato, il Capitale e il Pensiero Unico sono le sole divinità alle quali è consentito immolarsi.

Gli dei che dettano le regole del nostro vivere sociale e materiale.

I Moloch cui sacrificare intelligenza, cultura, verità.

Un'ortodossia fideistica che, se violata, prevede la completa scomunica statale.

Con buona pace della laicità democratica e delle sue sbandierate libertà.

È evidente, dunque, che lo storico Paolo Persichetti, col suo lavoro rappresenti una bestemmia per questo ordinamento, improntato alla teologia della legalità.

Ma stiano certi lor signori. Non riusciranno a togliere a Paolo la sua libertà. Non riusciranno a zittire la verità che la Storia porta con sé.

Come non riusciranno a reprimere nel sangue ogni rivolta. Che sia nelle piazze o nelle carceri.

Non riusciranno a imporre il loro controllo paranoide e asfissiante alle nostre vite, ai nostri corpi, alle nostre coscienze e intelligenze.

Questo Mondo Nuovo non ci piace. E noi siamo qui per lottare e sovvertirlo!

Vincenzo Morvillo

martedì 18 maggio 2021

ISRAELE E IL PARADIGMA VITTIMARIO: TRA SENSO DI COLPA E PROFITTO

14 Maggio 1948. Nasce lo Stato d'Israele. Risarcimento del senso di colpa europeo ed occidentale per l'Olocausto e i crimini del nazifascismo.

Crimini che contemplavano, però, anche Rom, Sinti, omosessuali, persone afflitte da disagio mentale e handicap, comunisti, anarchici. 

Minoranze etniche e sociali, nessuna delle quali ha mai ottenuto risarcimenti materiali o morali. Figurarsi la fondazione "a freddo" di uno Stato! 

Nessun senso di colpa, per questi uguali eccidi, ha dilaniato la coscienza della Vecchia Europa e del ricco Occidente. 

Dove, anzi, certe minoranze continuano ad essere discriminate e marginalizzate. Perseguitate, imprigionate e persino uccise. 

Forse perché nessuna di esse è citata tra le Sacre Scritture come Popolo Eletto

O forse, più semplicemente e concretamente, perché faceva comodo insediare quella componente ebraica, dalle cui radici giudaiche nasce, volente o nolente, il cristianesimo -radici dunque all'origine di larga parte della moderna cultura occidentale- in un Medio Oriente che, dopo i due conflitti mondiali, si apprestava a divenire il serbatoio della ricchezza globale, con i suoi enormi giacimenti petroliferi. 

Un risarcimento morale e materiale attraverso cui esigere,  dunque, anche un prezzo oneroso. 

Quello di uno Stato Sionista gendarme, nella regione, dell'impero statunitense e degli interessi occidentali. 

D'altronde, gli affari sono affari. Il business è business. E le motivazioni del Profitto trionfano su tutto. 

Se poi a sostenerle ci sono anche la religione, la contrizione morale, il martirologio, il perdono, e dio, beh il gioco è fatto! 

Ubi maior minor cessat... 

E così i palestinesi, da più di cento anni (tutto ha inizio dopo la prima guerra mondiale con il protettorato britannico, se non prima) pagano il fio dei desideri espansionistici e dei crimini degli imperi europei. Della loro avidità e della loro sete di potere. 

Pagano il fio di quel Capitalismo feroce che, pur di difendere il proprio dissipatore stile di vita, il proprio dissennato consumismo, la propria vocazione al mercato e al profitto, ha prima creato il mostro nazifascista da contrapporre al pericolo rosso;  e poi, da quelle stesse macerie, ha tirato fuori un nuovo, subdolo nazionalismo. 

Il sionismo, il cui riscatto per l'Olocausto doveva necessariamente coincidere con gli interessi petroliferi delle multinazionali americane ed europee. 

E la cui affermazione non poteva certo essere limitata dalle umane ragioni di un popolo come quello palestinese. 

Spesso trascurato se non addirittura avversato e combattuto dalla stessa comunità araba. 

Un popolo da sempre, d'altra parte, cancellato dalla Storia e dalle mappe geografiche. 

Nonché, ancora secondo le scritture, usurpatore della cosiddetta Terra Promessa ebraica. Elemento certamente non trascurabile. 

Insomma, la nascita dello Stato d'Israele rappresenta la quintessenza di tutte le conseguenze delle distorsioni prodotte da un mondo fondato, da sempre, sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sulla sopraffazione, sul colonialismo, sull'imperialismo. Sulla lotta tra le classi. 

Ma anche su quella visione trascendente, arbitraria e mistificatoria della realtà, che si suol definire religione. 

Una traslazione dell'oggettività materiale nel nulla. Un nulla però, chiamato dio

E allora,  accade così che un popolo il quale, con un puro atto di presunzione vittimaria, compiuto proprio nel nome di quel Nulla divino, voglia definirsi Eletto, venga prima perseguitato per secoli, poi indennizzato, infine, quasi per paradossale nemesi, si veda ratificare per Legge -questa volta umana- la sua presunta elezione. 

Dando in tal modo vita, nel secolo del senso di colpa rivelato, al nuovo paradigma fondante la realtà attuale. 

Il paradigma della vittima elevata ad ideologia e perciò stesso a tutela imperitura del simulacro democratico. 

Simulacro corporativo, per il quale solo chi muore ai piedi di questo marmoreo blocco monumentale e sclerotico, raffigurante la democrazia, sarebbe degno di accedere allo statuto di vittima. 

Gli altri, siano essi individui o popoli, non meritano riconoscimenti post mortem. Figurarsi menzioni mass-mediatiche o legittimazioni politiche. 

Solo la riprovazione dei Creonte di turno. Quando non il marchio infamante di terroristi! 

Benvenuti nel regno ossimorico della democratura risarcitoria! 

Ma due torti non fanno una ragione. 

E così quello Stato creato dal nulla, senza un accordo con la comunità arabo-palestinese, sulla base di una concezione laboratoriale, e finanche etnica della politica, capace di tagliare via le ragioni dei popoli; 

sulla base di precisi interessi economici e imperialistici; come di un'ideologia nazionalista fondata, a sua volta, su presupposti di ordine religioso e sul presunto verbo scritto nella Bibbia e nella Torah, assurge oggi a modello di un nuovo ordine mondiale. 

Dove a fondare la verità sono le vittime proclamate da un sistema che delinea sé stesso come un Leviatano intoccabile. 

Stato/Moloch -quello sionista- dei disastri materiali e culturali dell'ideologia capital-liberista. I cui gendarmi sono senz'altro Dio, Patria, Famiglia. 

Ma con Profitto e Vittime a fare da ineludibili  cecchini. 

I palestinesi muoiono a migliaia sotto i colpi di questi spietati tiratori. Ma nella percezione comune non sono da considerarsi vittime. Non potrebbero! 

Un simile privilegio, nel mondo "democratico" del relativismo etico, dove la verità promana dalle stanze inaccessibili del Castello kafkiano -dimora del dio beffardo della Legge- è concesso solo agli israeliani. 

Le vittime palestinesi, viceversa, secondo la stringente logica del paradigma vittimario, oscuro labirinto tra i cunicoli del quale si smarrisce l'autenticità storica e politica, confondendosi nella liquidità entropica di un'informazione destituita di senso, divengono pertanto la fisiologica conseguenza della lotta del Bene contro il Male

Dove il Bene è rappresentato dallo Stato invasore di Israele e il Male dall'oppresso popolo palestinese. 

Grazie ad un meschino gioco di prestigio linguistico-mediatico, fondato su manipolazioni psicologiche che agiscono nel profondo, si compie dunque l'incantesimo metafisico del rovesciameto di senso. 

I carnefici si tramutano in vittime e le vittime in carnefici

Capolavoro di una società che ha smarrito coscienza e verità tra le pieghe del discorso, tra i funambolici sofismi del linguaggio e tra le sabbie mobili della comunicazione totale.

Sia chiaro dunque, in conclusione. 

Lo sterminio di sei milioni di ebrei da parte della bestia nazifascista, è e resterà una ferita aperta nel petto e nella storia dell'umanità. Una ferita che non si rimargina. 

Ma il genocidio -come afferma  Norman G. Finkelstein, ebreo americano figlio di genitori sopravvissuti alla Shoah, nel suo provocatorio ma documentatissimo L'industria dell'Olocausto- non può diventare l'alibi attraverso il quale Israele, come scrive lo stesso Finkelstein, non solo «estorce denaro all’Europa in nome delle ‘vittime bisognose» riducendo «la statura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo»; ma arriva a giustificare ogni  azione criminale nei confronti del popolo palestinese, adducendo la scusa della propria difesa. 

Israele, con la sua politica di aggressione, segregazionista e guerrafondaia ha degradato il martirio di quei sei milioni di ebrei a livello di un meschino pretesto, al fine di esercitare un potere arbitrario, illegittimo e costellato di violenze. 

Il tutto, a sostegno di una perversa logica d'invasione coloniale, imperialista e repressiva, che dal popolo che fu oggetto di una barbarie simile sarebbe stato lecito non attendersi. 

Un atteggiamento che, a ottant'anni di distanza, lascia sgomenti e inorriditi. 

Perché proprio a quelle che furono le vittime dell'Olocausto manca oggi la pietas necessaria di fronte ad un popolo al quale il sionismo revanscista, razzista e, in fin dei conti fascista, sta costringendo a vivere la stessa angoscia e violenza persecutoria. La stessa pulizia etnica. 

Sete di potere e di vendetta di una miseria umana senza vegogna! 

Vincenzo Morvillo


venerdì 28 agosto 2020

ESSERE TEMPO E RIVOLUZIONE


Leggo il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.

Quotidianità attraversate da dilatazioni e rallenty temporali. Auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale, per intenderci.

O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri, accelerazioni improvvise e inattese, che sembrano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dall’ermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.

Leggo, e non posso fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà –spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti ed ombre- Barbara sa condensarli in una scrittura vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.

Perché la sua scrittura -dalle cadenze allegoriche e magiche di L’ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano- ci parla del nostro presente e del nostro passato.

Una scrittura in cui risuonano le note di The End dei Doors e di Psyco Killer dei Talking Heads. Dell’amato De Andrè del Ballo Mascherato o di Quello che non ho, passando per La canzone del Maggio.

In cui, le terrificanti immagini pittoriche di un Francis Bacon, di un Hieronymus Bosch, di un Edvard Munch e di un Otto Dix, si alternano a quelle di un Diego Rivera, di un Jean-Michel Basquiat, di una Kara Walker o di un Banksy.

Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare, tra gli spazi bianchi dei sintagmi, le voci di passate società, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un’ umanità dall’intelligenza creativa e dalle mani sapienti. Gli echi simbolici di un’orda d’oro primitiva che, riunita intorno al pasto totemico, uccide il padre cibandosi del suo corpo. A imperitura memoria delle catene spezzate e a riscatto della libertà conquistata. Finalmente, in assenza del senso di colpa. E nell’aspirazione di una società di eguali e senza classi, dove la messa in comune dei beni non trova l’ostacolo del privilegio. Sia esso di censo, di casta, di razza o di genere.

Una parola che, pur sprofondata nella realtà fin dentro i condotti nasali, corrosi dalla mefitica aria irrespirabile, esalata dai gas di scarico e dai liquami dell’industria 4.0, quella stessa realtà è capace di reinterpretarla e reinventarla, svelandone le potenzialità rivoluzionarie. Nascoste tra le feritoie di una Storia mai convenzionalmente lineare o hegelianamente progressiva, ma sulla cui strada scoscesa si verificano impreviste e imprevedibili inversioni ad U.

Tra i corridoi di questo Tempo/Storia, impensabile secondo una rappresentazione monodimensionale e deterministica, ci si può imbattere in porte che si aprono su spazi liberati dai vincoli legali delle ore, segnate sull’orologio esclusivo dei padroni dell’esistenza.

Sulla superficie levigata di una natura oramai artificiosa, si può sprofondare in pur minuscoli crateri, all’interno dei quali scorre l’incandescente magma, ancora inesploso, di una generazione di vinti e di dannati, che si agita tra le viscere della terra.

Una scrittura e una parola profetiche, si diceva dunque, quelle di Barbara. Perché capaci di rivelare l’infezione letale di un virus che, prima ancora di prendere l’esotico nome di Corona, ha da sempre assunto quello funesto di Capitale. Oggi declinato nella sua lugubre e ancor più micidiale versione di neoliberismo.

Una messa a nudo di un sistema e dei suoi re, che hanno depredato risorse e desertificato terre, arroccati in fortezze che rischiano però di poggiare su macerie da loro stessi edificate.

Guerre, colonialismo, cementificazioni, grandi opere, trivellazioni, produzione high tech, sono le bocche fameliche del mercato borsistico e finanziario. Capace di fagocitare fette di terra sempre più grandi, di succhiare e insozzare fondali marini vergini, di triturare ossa e digerire carne umana alla velocità di una lugubre luce, rifratta dai grafici di un consiglio di amministrazione fino alla più lurida discarica della più remota megalopoli latinoamerica o africana.

Una scrittura e una parola che colpiscono, come i proiettili che fischiarono quel giorno in Via Fani, il corpo flaccido del capitale morente, e perciò stesso mai tanto avido di merce.

Ma anche una lingua teologicamente marxista e marxianamente teologica. Quasi ad inverare in sé e a far agire per sé l’eresia messianica di Benjamin e la filosofia della praxis dell’imprescindibile Marx. Seppur riconsiderato alla luce delle mutate condizioni storiche.

Una lingua quasi perduta, sottratta al dominio dei vincitori di ogni epoca, e di cui, come degli archeologi alla Jean François Champollion, siamo chiamati a decifrare i crittogrammi: comunismo comunitario, innocenza di un sapere condiviso, gli oppressi e la loro storia, sabotaggio, lotta, rivoluzione.

Crittogrammi che vanno ad insinuarsi sotto la pelle ingiallita –al pari delle pagine dei libri- dei compagni addormentati nel sonno di un conformismo ortodosso. O soffocati dalla talassica liquidità del presente, tra le cui increspature il pensiero debole del postmodernismo ha ridotto le idee/forza di un tempo a puerili rivendicazioni utopiche. Un sonno sul cui fondo, quelle parole infuocate riposano come dei sogni. Incapaci di tramutarsi nell’incubo reale dei padroni del mondo.

Non c’è più tempo ci dice Barbara. Nell’incedere vorticoso del progresso e della produzione purché sia, il tempo umano sembra sfuggirle e sfuggirci tra le dita. E il Tempo, insieme alla figura del papà perduto anni prima, sembra essere il protagonista di questo settimo sigillo della Balzerani. Di questa partita a scacchi tra Barbara/Odradek e la Morte.

Di questa elegia in forma di epistola al padre, che Barbara ha scritto intingendo la penna nel sangue raggrumato delle sue antiche ferite e strappando brandelli di carne e memoria alla sostanza cupa di un’anima vissuta a lungo nella cattività del sogno rivoluzionario, strappatole con la violenza di uno stupro padronale.

Nel procedere bipolare di queste pagine, che dalle feritoie aperte nelle tenebre tecnocratiche della realtà contemporanea lasciano filtrare lancinanti squarci di luce, provenienti dal passato e riverberati dai più remoti recessi del mondo, il Tempo e la Morte si fronteggiano e si sfidano. Si sfidano e si fronteggiano le generazioni dei dominatori e quelle degli oppressi. Si fronteggiano e si sfidano, con la tenerezza dell’amore filiale e la durezza dialettica di Antigone di fronte a Creonte, una figlia ed un padre. La coscienza ribelle di una giovane donna e la morale patriarcale che nulla può concedere al gesto sovversivo. Si sfidano e si fronteggiano la narrazione magica e quasi fiabesca di un mondo che si pretenderebbe immutabile, e la trama cocciuta di una realtà dura e in rapido, esplosivo divenire.

Per questo oserei dire che, in un ribaltamento delle categorie del pensiero heideggeriano, qui l’Esser-ci non è un esser-ci per la morte. Bensì è un Esser-ci per la Libertà. Un Essere per la Rivoluzione. Rivoluzionare il Tempo, lo Spazio, la Storia, il Passato. Solo così si potrà agire, fino alle estreme conseguenze rigeneratrici, la rivoluzione nella società contemporanea del «tempo veloce».

Lasciamo parlare Walter Benjamin, le cui Tesi di Filosofia della Storia intridono tutto il libro di Barbara: «la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice “C'era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».

E Barbara, come Benjamin, ci dice di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare agli orologi. Di interrompere l’accumulo progressivo di futuro tramutatosi in accumulo sviluppista di produzione al presente. Altro che sviluppo delle forze produttive! Siamo ormai giunti nel regno dell’ombra di Mordor. Dominato da un bifronte Sauron-Rolex, Signore degli orologi. Il cui volto vorace assomiglia a quello di un Amministratore Delegato. Una Mordor neoliberista, dove macchine/orchi di odierni Talo hanno divorato la creatività umana del lavoro, trasformando gli stessi individui in alienati profili avatar, deprivati di spazio vitale. Macerie di corpi su macerie di corpi, nel segno dell’ideologia tempestosa del progresso. Solo nuovi angeli o nuovi barbari rivoluzionari potranno redimere il passato e riscattare le generazioni oppresse della Storia. è Marx stesso a dircelo, dopotutto.

E ancora, Tesi 11: «Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come “la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura". Allarmato, Marx ribatte “che l'uomo non possiede altra proprietà” che la sua forza-lavoro, "non puo' non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi... proprietari". Ciononostante la confusione continua a diffondersi, e poco dopo Josef Dietzgen proclama: “Il lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel... miglioramento... del lavoro... consiste la ricchezza, che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto”. Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo. Fra cui c’è anche un concetto di natura che si allontana funestamente da quello delle utopie socialiste anteriori al ‘48. Il lavoro, come è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto -con ingenuo compiacimento- a quello del proletariato».

A suo padre, che dei padroni e della fabbrica ha voluto fare a meno per tutta la vita, credendosi e sentendosi libero del suo tempo, Barbara rimprovera l’ingenua illusione di una fede nel progresso e nel lavoro che, malgrado tutto, avrebbe dovuto riscattare una povertà dignitosa ma fredda. Il costo sovrastimato dell’illusione portava però con sé una maggiorazione irricevibile per quella ragazza dai capelli lunghi e la gonna troppo corta. Il prezzo era una libertà non negoziabile. Per questo, in quegli anni, lei e tanti come lei hanno preso le armi. Per non negoziare la propria libertà. Una scelta che il papà non ha mai potuto comprendere. Ferendo la fanciullesca tenerezza di quei racconti favolosi che ipnotizzavano sua figlia. Unica vera evasione da un’ infanzia di stenti.

Ma oggi, dopo quarant’anni, non è solo l’operaio-massa ad aver ceduto la propria dignità al ricatto padronale. è la natura stessa -come scrive d’altronde Benjamin- a soccombere al ritmo martellante di una depredazione di risorse, come mai prima nella vicenda dei rapporti tra l’uomo e il suo habitat.

Il Capitale, quale unica teologia praticabile, ha squarciato il ventre della terra, ne ha mangiato il cuore, accecato gli occhi e avvelenato il sangue. Ha schiacciato culture e calpestato storie. Divorando ogni giorno sesso di neonato, in periferie dai paesaggi post atomici, situate ai margini di megalopoli abitate dagli zombie del neoliberismo imperante. Sorveglia, Punisci, Produci, Consuma, Muori. Imperativi assoluti di un mercato asettico e distante come il dio della Legge kafkiana. E' già Marx a parlarne ne Il Capitale ( Libro III), quando affronta, con la sua vaticinante lungimiranza, la questione della irreparabile frattura metabolica determinata dal Modello di Produzione Capitalistico.

E a me, mentre leggo senza respiro le parole di Barbara, non può non venirmi in mente, quasi fosse un rigurgito della memoria, la deflagrante poesia allucinatoria di “Quattro Zoas”, il poema in cui William Blake prefigurava tutti gli orrori di cui si sarebbe macchiata la mano dell’uomo, compresa la distruzione della Bellezza che le fabbriche -e quindi l’incipiente tecnologia- avrebbero generato. La portata profetica di quelle parole/immagini è sconcertante: «E tutte le arti della vita mutarono in arti di morte[…]Furono inventate ruote complicate. Ruota senza ruota per sconcertare la gioventù, per legare a fatiche di giorno e di notte le folle in eterno[…]chi deve spendere i giorni di saggezza in miseria contristata per ottenere uno scarso pasto[…]I palazzi nitidi si ammantano di orrore scuro e silenzioso, nascondendo i loro libri e i loro quadri nei covi sottoterra. Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà[…]I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue?[…]La tigre feroce deride la forma umana, il leone dileggia e vuol sangue. Gridano: O ragno spargi la tua tela![…]E pieno di carne sii esaltato![…]Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più». Parole tanto più crudeli e angosciose quanto più attuale si rivela la loro tragica verità. Una verità alla quale, oramai, tutti o quasi passivamente soggiacciamo, nell’indifferenza e nel silenzio colpevole. Una verità che il Covid 19 sembra volerci gridare ancora più forte.

Lettera a mio padre è, dunque, un finale di partita. Un finale di partita tra una figlia e un padre che vive nel suo ricordo e nella sua dolente nostalgia. Un finale di partita che si gioca tra una generazione rivoluzionaria e una generazione apparentemente rassegnata. Tra gli sconfitti di una rivoluzione mancata e il potere vittorioso e vindice di quello stato “democratico”, che li vorrebbe silenti o pentiti. Un finale di partita tra il passato e il futuro. Per la possibile intermediazione di un presente che potrebbe finalmente precipitare sul piano inclinato della Storia.

In Finale di Partita, a circa metà testo, Samuel Beckett, nel corso dell’apparentemente insensato ma emotivamente spietato e angoscioso dialogo tra i due protagonisti, (Hamm e Clov) scolpisce uno dei passaggi più inquietanti e pessimistici della drammaturgia del ‘900: «Clov (con angoscia, grattandosi): Ho una pulce. Hamm: Una pulce? Ci sono ancora delle pulci? Clov (grattandosi): A meno che non sia una piattola. Hamm (molto preoccupato): Ma a partire di lì l'umanità potrebbe ricostituirsi! Per amor del cielo, acchiappala!» E poco più avanti: «Clov: Non c'è più natura» .

Sembra il monito terrificante che sale come un urlo dalle pagine inquiete di questa Lettera a mio padre. Di tempo, del resto, ne è rimasto davvero poco. E, come scrive Barbara: «Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di un’altra storia, interamente umana».

Il tempo di prendere nelle nostre mani –noi oppressi, noi dannati, noi lavoratori, noi ultimi- il nostro destino, senza delegarlo a chicchessia. Riusciremo mai ad autogestirci in forme di comunismo realizzato?

Dopo quest’incubo, la sfida che ci dovremmo porre è questa. Nulla di meno. è il tempo di gettare un cacciavite nell’ingranaggio per incepparlo. Senza attendere altre pandemie o altri virus. A debito delle nostre vite lucrano il capitale e la morte. La rivoluzione è un atto d’amore. Siamo attesi!

Vincenzo Morvillo

lunedì 2 marzo 2020

ROLEX: LO STATUS-SIMBOL DELLA MORTE!





Sabato notte. Napoli è teatro dell'ennesimo, annichilente, folle episodio di violenza.

Violenza criminale, anche. Ma soprattutto, violenza figlia della distorsione umana ai tempi del dominio neoliberista.

Una distorsione che subordina la vita alla roba. L'esistere all'avere. La difesa della proprietà privata all'umanesimo della condivisione sociale.

Sabato notte, un ragazzino di 16 anni, Ugo Russo, che provava, armato di pistola giocattolo, a rubare un Rolex dal polso di un cittadino, è stato da questi freddato con una pistola vera.

Il cittadino in questione, si scopre, era un Carabiniere in borghese.

Questi, i fatti. Tra cui, chiaramente, si affollano inquietanti interrogativi e riflessioni.

La prima domanda che mi viene in mente è, come diamine faccia un Carabiniere, un proletario di pasoliniana memoria, con quello che guadagna, a comprarsi un Rolex? Considerando che il meno costoso, in acciaio, ha un prezzo non infetiore ai 1000€. Qui, però, pare che si tratti di un Rolex d'oro: prezzo di mercato ben superiore!

Ma potrebbe essere un regalo. E poi, non è certo questo il nodo della questione.

Devo confessare che è stato un primo impulso, dettato dalla mai celata, personale antipatia verso le divise, nei confronti della cui deontologia nutro anche un certo scetticismo, a suggerire e ad insinuare questo dubbio maligno.

Ma quel primo impulso, un po'superficiale, lascia immediatamente il posto a considerazioni di carattere più ampio e profondo. Vediamo.

Innanzitutto, il carabiniere -che ha dichiarato al Magistrato di essersi qualificato come tale- perché spara tre colpi ad altezza d'uomo? Perché ha in dosso una pistola se è fuori servizio?

L'ordinanza emanata nel 2017, dall'ineffabile corifeo della repressione sinistrese, il democratico Marco Minniti, che obbligherebbe le Forze dell'Ordine a girare armate anche fuori servizio, infatti, era da circoscrivere all'imminenza del pericolo terroristico, seguito al panico innescatosi dopo che, come si ricorderà, un camioncino bianco, il 17 agosto di tre anni fa (estate 2017), massacrò 15 persone, zigzagando nella folla lungo le Ramblas, a Barcellona.

Ma soprattutto, quello che lascia fin troppo perplessi, è la dichiarazione del ventitreenne rappresentante della Benemerita, che afferma di essersi spaventato perché il ragazzino gli puntava una pistola alla tempia, di cui aveva anche udito lo scarrellamento. Chiunque conosca un minimo le armi deduce, quindi, che il rapinatore aveva messo il colpo in canna. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: dove ha trovato, il Carabiniere, il coraggio leonino -neanche fosse Trinità- di estrarre la sua arma e di fare fuoco, con una canna puntata al viso?

Al giovane criminale sarebbe bastato toccare il grilletto per ucciderlo. Qualcosa, come al solito, in questi casi, nella dinamica degli eventi, non torna. Anzi, sfiora il grottesco!

E d'altra parte, comincia a farsi largo l'ipotesi che a colpire Ugo Russo alla testa, sia stato un proiettile penetrato da dietro la nuca. Se così fosse, dunque, ci troveremmo di fronte all'ennesimo omicidio a sangue freddo, commesso da un rappresentante delle forze dell'ordine.

Gli interrogativi e le riflessioni però, non si fermano alla dinamica dei tragici eventi. Per assumere un carattere più generale e segnatamente socio-economico.

Se il modello di società che si è costruito, infatti, è quello dello status-simbol e del denaro, che ne consente l'acquisto, e attraverso cui compensiamo un vuoto esistenziale indotto dalla logica di un'esistenza mercantile, dunque illudendoci di esistere perché indossiamo un orologio costoso al polso, beh non ci si può meravigliare di quello che è successo l'altra notte a Napoli.

Non ci si può meravigliare se un ragazzino di 16 anni, figlio del sottoproletariato metropolitano, prova a rubare un Rolex, pistola falsa in pugno, nell'illusione che quel Rolex gli attribuisca un ben definito valore umano.

E non ci si può meravigliare, altrettanto, se un figlio della piccola-borghesia italica, notoriamente vendicativa, meschina nel suo attaccamento alla roba, avida nella sua scalata sociale, ansiosa di gestire sia pure il più minimo potere, spara a quel ragazzino, uccidendolo.

Non per salvare la vita, sia ben chiaro. Non ci facciano ridere i soloni borghesi, che in queste ore si stanno accadendo sulla genetica criminale di Ugo, pur di difendere il malcapitato esponente dell'Arma. Ma per non cedere il suo Rolex!

Quello che fa incazzare, invece, e che non consente attenuanti, è che quel figlio della piccola-borghesia sia, appunto, un Carabiniere. Uno sbirro.

E voglio chiamarlo sbirro perché la sua è psicologia da sbirro. La psicologia di un Maurizio Merli qualunque.

Violento perché ritenuto e auto proclamatosi al di sopra della Legge. Addirittura, incarnazione della Legge stessa.

Quella psicologia tipica del giustizialismo vindice, peloso e moralista, che affonda le radici nella bieca cultura torquemadista da Congregazione del Santo Uffizio.

Cultura che plasma di sé, da secoli, l'intera società occidentale. Fondata su due concetti basilari. Colpa e punizione. Sorvegliare e punire.

Una società repressiva e classista, nella quale il potere, specie quello del denaro, l'avere, fa la differenza tra il diritto di vivere e il non diritto all'esistenza.

Una società, per di più, i cui cani da guardia in divisa, vengono quotidianamente nutriti da dosi massicce di violenza. Al solo e funzionale scopo di legittimarne l'uso arbitrario contro i ceti subalterni e i dannati della terra. In difesa di quelle stesse élites che li hanno resi schiavi e assassini, affinché ne difendano la proprietà, ne proteggano l'esistenza parassitaria e ne pepetuino il Potere.

Fa incazzare e fa schifo che uno sbirro, un professionista della "violenza", che nel suo caso dovrebbe essere esercitata con discernimento e in relazione ai contesti, un esperto di armi, perda completamente la ragione e ritenga di poter agire di istinto, senza neanche rendersi conto che la pistola impugnata dal ragazzino di 16 anni, fosse giocattolo. Adducendo, come inaccettabile giustificazione, la paura e il rischio di perdere la vita, laddove questo rischio non esisteva.

Vorrei rammentare, tra l'altro, che le forze dell'ordine vengono pagate per assumersi tali rischi.

Pagate poco, certo. Non tanto, quindi, da poter acquistare oggetti di lusso!

Ed è sinceramente disgustoso leggere i commenti di chi, sui social, festeggia per la morte del giovane criminale.

Come, altrettanto nauseante, risulta l'accanimento della stampa contro Ugo Russo, che si sta registrando in queste ore.

Una canea dai toni lombrosiani, malthusiani e fascisteggianti, che è il riflesso di una "civiltà" orrendamente giunta ai confini della disumanizzazione.

Quella morte, dunque, è stata sentenziata, ancor prima che dal proiettile che ne ha stroncato la vita, da una società impastata con l'odio.

Odio di classe, di censo, di status-simbol, di appartenenza, di razza. Un consesso "umano" in cui solo chi possiede, anche poco, chi vive nella regola dettata da leggi che promanano da quelle stesse istituzioni che riducono l'esistenza ad una merce di scambio, ad oggetto di squallida compravendita, ha diritto di respirare.

Una società che non vuole diversi. Gelosa della propria insignificante uniformità. Della sua volgare opulenza. Del suo conformismo neghittoso. Del suo patto sociale stipulato tra uguali.

E da cui i dannati della terra vengono esclusi all'origine. Insieme a chi contesta questo barbaro regime di classe.

Possibilmente, chiudendoli in galere o manicomi. Ancor meglio, ammazzandoli.

Come venne ucciso, dall'ennesimo sbirro giustiziere, Davide Bifulco. Sparato alle spalle!

Scriveva Claudio Lolli nel 1972, in quella che è diventata il manifesto di una generazione che contestava i costumi della borghesia reazionaria:

«Vecchia piccola borghesia/per piccina che tu sia/non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia/Sei contenta se un ladro muore/se si arresta una puttana/se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana/Sei soddisfatta dei danni altrui/ti tieni stretti i denari tuoi/assillata dal gran tormento/che un giorno se li riprenda il vento».

Mentre Artaud, con sommo disprezzo verso questo mondo popolato da zombie e baldracche del potere, scriveva, ad inizio secolo, da par suo:

«In un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com'è all'uscita dal sesso materno. E questa non è un'immagine, ma un fatto abbondantemente e quotidianamente ripetuto e coltivato sulla terra intera. Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica».

Ecco perché noi, pur condannando il gesto criminale del ragazzino, ci sentiamo dalla sua parte.

Non certo da quella del difensore di una Legge che, prima ancora che sociale e materiale, è legge dettata dalla morale e dall'ideologia delle classi dominanti.

Una legge che consente di uccidere solo a chi veste una divisa o è parte del consesso civile.

Una legge criminogena, nella sua assenza di intelligenza sociale. Nella sua assenza di umanità.

Una legge che rinuncia a chiedersi il motivo del gesto criminale di un ragazzino di 16 anni, assumendo i connotati di legge divina.

Una Legge che non è più, se mai lo è stata, Diritto.

Contro questa deriva legalitaria e megalomane della Giustizia e della Legge, continueremo a batterci.

Perché, come scriveva Montesquieu, padre del diritto liberale, non certo un marxista trinariciuto:

«Non c'è tirannia peggiore di quella esercitata all'ombra della legge e sotto il calore della giustizia».

Vincenzo Morvillo



venerdì 8 marzo 2019

PIL E SOCIALISMO. IL NUOVO CORSO KEYNESIANO DELLA CINA

Leggendo, nei giorni scorsi, due articoli, uno pubblicato da La Stampa: "L’Italia si prepara ad aderire alla grande rete infrastrutturale cinese" e l'altro, invece, pubblicato su Contropiano, a firma di Pasquale Cicalese: "La Cina, dopo 40 anni, proietta la sua potenza sul mercato interno" -come tanti altri che leggo sul cosiddetto miracolo cinese, attualmente seconda economia mondiale, proiettata verso un inarrestabile primato- ho, per l'ennesima volta, fatto la stessa identica considerazione. La Cina compete sul mercato mondiale, nell'epoca della globalizzazione -cioè da circa trent'anni- con tutte le armi tipiche del finanzcapitalismo -per usare la significante locuzione coniata dal sociologo Luciano Gallino- accreditandosi come il più agguerrito antagonista dell'impero statunitense e il suo più legittimo successore, nella guerra interimperialista in atto sullo scacchiere internazionale. Una guerra innescata a partire dagli anni '70, da quella che il prof. Luciano Vasapollo indica come crisi sistemica del capitalismo mondiale, all'interno di una civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario, finora soprattutto a guida occidentale. Ne viene, di conseguenza, la seconda, più sofferta e perplessa considerazione. Perché molti compagni guardino alla Cina post maoista e di ispirazione denghista (arricchirsi è glorioso, compagni, disse Deng Xiaoping nel 1979. Sic!) come ad un modello, seppur spurio, di paese socialista, sinceramente mi è oscuro. In chiave geopolitica e geostrategica, di contrasto al dominio imperiale a stelle e strice? Posso pure comprenderlo. Ma basta? Francamente, non credo!
La Cina ha innestato, negli ultimi trent'anni, la marcia del neoliberismo più spinto. Il paradigma produttivo è quello sviluppista, tipico dei paesi a Capitalismo avanzato. Il Pil è cresciuto a due zeri. E ora, in fase di leggera ma pur sempre indiscutibile flessione dell'export (che ha assicurato al paese proprio quella crescita esponenziale) sta correndo ai ripari. E, ovviamente, lo fa sul piano del sostegno alla domanda interna. Nella più tipica tradizione keynesiana, insomma; benché lo si potrebbe definire -con una formula più congeniale a quella che Loretta Napoleoni definiva, con un sincretismo neologistico, Maonomics- capitalismo keynesiano 4.0. Non vedo come altro si potrebbe denominare, infatti, quello applicato dal Governo della Repubblica Popolare Cinese, in questa delicata fase di altalenante sconquasso che si trovano ad attraversare i mercati e le borse di mezzo mondo.
Keynesismo, dunque, cui si affianca, però, pur sempre, una spietata logica produttivistica, efficientista e concorrenziale, che porta la Cina ancora ad adottare orari di lavoro e dispositivi di controllo che non dovrebbero appartenere, almeno in teoria, ad una Democrazia Popolare o ad un sistema che voglia considerarsi, non dico comunista, ma appena socialista. Un sistema che dovrebbe condurre l'uomo alla liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato e non al suo vassallaggio dentro la gabbia delle ragioni del profitto.
Guardie armate fuori le fabbriche; diritto di sciopero mal tollerato; rappresentanza sindacale praticamente inesistente, se non nel senso di cinghia di trasmissione statale-padronale; sorveglianza sociale e nuovo giro di vite repressivo -attuato dal governo di Li Keqiang, sotto l'egida del Presidente a vita Xi Jinping- sulle lotte operaie e sulla recrudescente, negli ultimi tempi, Lotta di Classe, sono variabili proprie degli stati capitalisti e dei governi improntati alle regole del liberismo. Fattori e condizioni segnalati da siti e giornali online, quali La Voce delle Lotte, Rivoluzione (sito del movimento comunista Sinistra Classe Rivoluzione) il sito del Partito Comunista Internazionale: nessuno di essi, com'è facile intuire, di tendenza borghese; Internazionale, decisamente più liberal; e Contropiano, su cui si può leggere un interessante articolo di qualche tempo fa "Per una definizione del regime cinese" , che potete trovare nella sezione del giornale Fattore K.
E ancora, cicli lavorativi anche di 10/12h; ferie spesso non pagate; fine settimana non garantiti; salari in molti casi legati ai tempi e alle ore effettive di fatica: quindi classificabili come cottimo, ampiamente inteso e diffuso. In tutti questi casi si tratta, invece, di dati elaborati dagli scienziati dell'Accademia delle scienze sociali di Pechino e riportati anche da L'Antidiplomatico.
Naturalmente, le cose vanno meglio nelle aziende statali delle zone sviluppate, come quelle di Shangai e della capitale. Con salari che, soprattutto nell'area orientale e più sviluppata, crescono anche del 10-15% annuo. Una gran bella differenza, rispetto alla riduzione del potere d'acquisto che, invece, ci troviamo a registrare, ad esempio, all'interno di molti paesi dell'Eurozona.
Nonostante ciò, comunque, un aspetto certamente non sottovalutabile, e anzi fondamentale, viste le tragiche condizioni in cui versa l'ecosistema globale, a causa dell'azione predatoria delle risorse e del modello iper sviluppista e freneticamente consumistico, portati avanti dal capitalismo ad impronta liberal-liberista, soprattutto nel corso degli ultimi 60 anni (e a cui, piaccia o no, si è piegata anche la Cina post maoista) è l'adozione della cosiddetta economia circolare. In pratica, un cambiamento radicale del modello produttivo -ancorché concepito in base all'economia di mercato e alle logiche del capitale e del profitto- che prevede la concentrazione del ciclo di produzione sul riutilizzo, la riparazione, il rinnovo e il riciclaggio dei materiali e dei prodotti esistenti. Quello precedentemente considerato "rifiuto" può essere, in poche parole, convertito in materia prima. Un mutamento di prospettiva non da poco, a ben considerare, in cui il paese del fu Impero Celeste è decisamente all'avanguardia.
Poco incline, invece, risulta il governo al rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cosiddetti "diritti civili" che, ovviamente, in quanto marxisti, subordiniamo, imprescindibilmente e giustamente, a quelli sociali. Il problema, però, è che in Cina, a quanto pare, vengono entrambi posti in secondo piano, rispetto all'interesse del Leviatano statale.
In tal senso, si è già detto del mal digerito diritto di sciopero, dell'azione repressiva del governo e dell'inesistenza di una vera e strutturata rappresentanza sindacale. Una pallida rappresentanza, paragonabile, nell'attuale contesto di competizione interimperialistica -volta dunque al più feroce sfruttamento di una manodopera a basso costo- a quella propria del sindacalismo giallo statunitense; o a quella sempre più concertativo-compatibilista delle tre sigle italiane Cgil-Cisl-Uil, oramai irrimediabilmente supine alle esigenze, alle logiche e alle direttive padronali.
La Cina, dunque, rappresenta, almeno secondo chi scrive, un chiaro esempio -solo l'ultimo in ordine di tempo- di turbocapitalismo a genesi e conduzione partitica. O, se si preferisce, di social-imperialismo, per usare una locuzione cara ai movimenti rivoluzionari degli anni '70 (specie alle Brigate Rosse, ndr) con cui s' identificava la degenerazione fordista e burocratica avvenuta all'interno delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Oppure, per rinviare alla dizione ufficiale, potremmo ancora definire quel modello come “socialismo di mercato alla cinese”. Poco cambia, a dire il vero.
Perché qui da noi, a partire dalla ristrutturazione capitalistica e dalla controffensiva padronale degli anni '60 e '70, seguite al grande boom economico -con annessa redistribuzione della ricchezza- si insorse in armi, malgrado le politiche keynesiane mirassero a compensare gli effetti sociali di tale ristrutturazione, con l'intento, esclusivamente, di depotenziare il conflitto in atto e di stabilizzare il sistema. Attualmente, una situazione simile comincia a verificarsi in Cina, dopo gli exploit commerciali e il vertiginoso aumento del Pil, dovuto, come si diceva, soprattutto all'export. Il Pcc sembra muoversi, in un simile contesto, come il Partito Comunista Italiano di quegli anni. Qualche concessione, sul piano economico, ma rigido controllo statalista sul versante delle lotte -si badi bene, ci si riferisce alle lotte operaie e del proletariato periferico, non a quelle inscenate da attivisti al soldo della borghesia occidentale- per assicurare una più o meno accettata pax sociale, che consenta allo status quo di sopravvivere senza troppi sussulti. Il tutto, a vantaggio della nomenclatura oligarchica all'interno del partito, che tira le leve economiche e dello stato; di una piccola fetta di ricchezza privata; e di un più ampio ceto medio, di cui si è provveduto, nel corso del tempo, ad allargare la base.
Noi comunisti, di fronte alla violazione dei diritti dei lavoratori e alla cancellazione progressiva delle conquiste operaie; di fronte alle devastanti politiche repressive e di controllo sociale; di fronte pure ai balbettamenti di natura riformista, qui, nel nostro Occidente neoliberista, nella nostra Europa dominata dal pensiero e dalla pratica Ordoliberista, alziamo la bandiera rossa della Lotta di Classe. Di fronte alla cultura sviluppista e alle feroci ragioni del profitto, della concorrenza e del mercato, opponiamo -o meglio sarebbe dire, dovremmo opporre, accertato che l'etica lavorista a troppi compagni non fa difetto, ahimé- una cultura del lavoro e una dimensione esistenziale ispirate ad una visione del mondo e della vita più umana, meno frenetica, non certamente scandita dai soverchianti, pervasivi, asfittici meccanismi del profitto, del consumo e del tempo veloce, imposti dalla sovrastruttura del Potere. Borghese, Statale, Partitico, non importa.
E invece, troppo spesso e con troppa nostalgia guardiamo alla Cina post Mao e convertita alle dinamiche, flessibili e laceranti leggi del mercato, come ad un paese socialista, un modello cui ispirarsi. Sol perché ancora sopravvive un Partito Comunista Cinese, che altro non è se non il simulacro del grande partito rivoluzionario fondato da Mao e che condusse alla vittoria il proletariato, la clase operaia e i contadini, nella Cina di Chiang Kai-shek? Non credo sia la giusta visione se si vuole sovvertire il modello di produzione capitalistico vigente. La Cina, come detto, mira a rafforzare il suo ruolo nella competizione interimperialistica. E a diventare egemone!
Basti considerare gli investimenti cinesi in Africa (Gibuti, Sudan, Algeria, Zimbabwe), come anche il progetto della Nuova Via della Seta, maxi-programma di investimenti infrastrutturali ideato da Pechino per collegare il paese con decine di paesi in Asia, Africa ed Europa e verso cui anche l'Italia parrebbe mostrare interesse. Investimenti certo -specie quelli compiuti nel continente africano- fatti con un intelligente criterio di stimoli infrastrutturali e non secondo il modello predatorio tipico dell'imperialismo Usa ed europeo .Ma pur sempre di logica affaristica si tratta. Seppur informata ai principi di un social-imperialismo soft e più equo.
Mi preme sottolineare, a questo punto, che sono, le mie, valutazioni opinabilissime, non certo di un docente di economia, ma dettate, comunque, da una rigorosa ancorché non ortodossa concezione marxista della politica economica e da un'altrettanto spassionata visione del mondo, poco incline ai tatticismi geopoliticisti.
Ciò chiarito, ribadisco e chiarisco quanto scritto all'inizio, in merito alle politiche keynesiane adottate dal governo cinese sul versante nazionale. Sostegno della domanda interna, defiscalizzazione a favore delle imprese per reggere l'impatto della concorrenza, maggioranza azionaria concessa agli investitori esteri, abbattimento dell'Iva per sostene gli operatori nazionali, fiscalizzazione degli oneri del debito per favorire le imprese private, banche pubbliche che potranno aumentare del 30% i prestiti concessi ai privati, grandi opere infrastrutturali e Alta Velocità (se le fa la Cina, con il Pcc è cosa buona?), una politica che non si discosta dalla regola del Pil, allargamento del ceto medio, altro non rappresentano che l'adozione di politiche keynesiane, varate per sostenere la domanda aggregata ed assicurare alla Cina, al socialismo di mercato e al governo che ne detta le regole, la sua stabilità e il suo ruolo, anche e soprattutto in campo internazionale.
Perciò, per quanto mi sforzi, personalmente vedo solo un modello di sviluppo ad altissima trazione capitalistica al quale si coniuga lo schema della pianificazione centralizzata. Un modello misto, quindi; o -per usare ancora le parole e la categoria certamente più precisa, del professor Vasapollo- si può parlare di "modello duale flessibile". Insomma, in parole povere: Pianificazione + Mercato. Da un lato, allocazione delle risorse (di Mercato), dall'altro rapporti sociali di produzione e sistema di proprietà delle unità produttive (in mano Pubblica). Schematizzando: Socialismo e pianificazione quinquennale cui si associano le leggi di mercato dell'oscillazione della domanda e dei prezzi, compresa la politica monetaria. Pertanto, volendo semplificare al massimo: Capitalismo + Socialismo. Il tutto, in salsa
un po' meno neoliberista e un po' più keynesiana. Ma tracce di socialismo davvero ridotte ai minimi termini.
La Cina, insomma, non è il Venezuela. I due paesi non hanno lo stesso peso, sullo scacchiere mondiale. Da comunista, credo ci si possa sentire vicini al secondo -che lotta per l'affermazione del bolivarismo, per un effettivo riscatto, in termini socialisti, del proletariato meticcio  e per sottrarsi al giogo dell'imperialismo Usa- decisamente meno alla prima, che una politica imperialista, seppur declinata in forme diverse, la sta attuando. Basta leggere i cinque punti del concetto di imperialismo concepiti da Lenin -in una prospettiva statale e non privata- per rendersene conto.
E mi chiedo, in conclusione: se la classe media è arrivata a600 milioni di persone, l'altro miliardo e più come vive? Facile, troppo facile immaginarlo. In Cina, invece di procedere sulla strada del Comunismo, si è tornati indietro. Ad un' economia di mercato e di stampo capitalistico, seppur, appunto, flessibile.
Si è liberi di illudersi quanto si vuole. Ma tant'è. Non si può sostituire la Lotta di Classe con la geopolitica!
Vincenzo Morvillo

lunedì 7 maggio 2018

PRIMO MAGGIO E NUOVE RESISTENZE

A margine del Primo Maggio trascorso, ed anche in considerazione dei fatti di Parigi,  credo che vada necessariamente detta una cosa. La distruzione dei simboli del capitalismo -tra cui l'icona McDonald's- dovrebbe essere un imperativo etico di qualunque forza comunista, anticapitalista, rivoluzionaria. Possiamo, poi, discutere del metodo, dell'opportunità strategica del contesto e di tecniche di guerriglia. Ma l'abbattimento di quei simboli è fuori discussione.

Pertanto, sentir  parlare -all'indomani degli scontri nella capitale francese- il leader di La France Insoumisse, Jean-Luc Melenchon, di infiltrazioni fasciste nel corteo di Parigi -solo perché quelli che, nella narrazione inquinante del potere mainstream, vengono identificati come violenti Black Block, hanno esattamente messo in atto una piccola guerriglia urbana, rompendo vetrine ed incendiando qualche negozio, simbolo del Capitale- è la sintesi paradigmatica dell'ambigua filosofia dell'ordine pubblico e dell'idea di pace sociale, che ispirano la sinistra istituzionale, compatibilista e concertativa europea. Dagli anni '70, se non prima. D'altronde, qui in Italia, quando, terminata la seconda guerra mondiale, alcuni gruppi di partigiani comunisti, contrariamente a quanto ordinato dal Pci, si rifiutarono di deporre le armi e giustiziarono i fascisti amnistiati dal decreto Togliatti -fascisti che avevano commesso, dal settembre '43, ogni sorta di crimine e di porcata contro la popolazione  resistente dell'Italia settentrionale-  l'organo del partito comunista italiano, L'Unità, tacciò di trotskismo e parlò, vigliaccamente, di sinistrismo come "maschera della Gestapo" (Pietro Secchia ndr),  riferendosi a quegli stessi partigiani, insofferenti al ripristino dell'ordine borghese. I fatti di Schio ne costituiscono un esempio eclatante.

Or dunque, oggi come allora, quello stesso ordinamento, che trova la sua compiuta realizzazione ed il suo assetto formale nello Stato liberale e nei comitati d'affare sovranazionali e ultra liberisti -l'Unione Europea e la sua gabbia di soffocanti trattati, tanto per intenderci-  non si scardina, non si rompe con la mediazione di classe, la pacificazione sociale o qualche manifestazione attenta a non turbare il tranquillo andamento della vita cittadina. I rapporti di forza non si sovvertono senza forzare i limiti, sempre più restrittivi, imposti da pseudo regolamenti questurini. Il sistema di produzione capitalistico ed il suo processo di accumulazione, ormai sempre più irreale, visionario, cinico e violento, non si muta sfilando in cortei improntati alla ragionevolezza e al buon senso civico.  La repressione, spesso cruenta, delle forze dell'ordine, non si combatte senza un ricorso alla "violenza di classe".  La Rivoluzione non si fa senza alzare ed inasprire il livello del conflitto in atto nelle piazze, nelle scuole, nelle università ma, soprattutto, in quei luoghi di lavoro dove si assiste, quotidianamente, alla cancellazione dei diritti, alla mortificazione della dignità, all'espropriazione del corpo e dell'intelligenza, fino all'usurpazione della stessa vita del lavoratore, spesso messa a rischio di morte. È triste dirlo, ma bisogna cominciare a prendere atto di questa insopprimibile e cupa realtà. Prima che le elite finanziarie, gli Stati, il Capitale non ci lascino più scampo.  Come diceva Edmund Burke «Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione». E, per essere chiari, qui il Male sono il capitalismo, la sua deriva neoliberista, il mercato. E quel simulacro chiamato, ormai, democrazia liberale o socialdemocrazia!

Vincenzo Morvillo

mercoledì 10 gennaio 2018

BENE...BRAVI...NO AL 41BIS

Dall'art.90 al 41bis, la vocazione repressiva dello Stato liberal-borghese -comprendente arresti indiscriminati, carceri speciali, tortura, fino alle forme detentive restrittive, che violano i diritti umani- ha sempre trovato il sostegno della sinistra manettara. A partire da quel P.C.I. -autoproclamatosi difensore assoluto della classe operaia- che, nel nome della governabilità, di un simulacro di "democrazia" sempre più elitaria, e dell'accesso secondario al banchetto di Montecitorio, cui avrebbe partecipato anche in livrea, ha contribuito non soltanto a mandare in galera centinaia di compagni, non solo a distruggere il più grande movimento rivoluzionario all'interno di quell'Occidente capitalista, che proprio la classe operaia e lavoratrice, con il proletariato, ha massacrato e continua a massacrare, ma all'affermazione di un giustizialismo sempre più forcaiolo, peronista e di destra. Quel giustizialismo di cui, oggi, in Italia, si fa corifeo culturale, tanto per intenderci, il Movimento 5 Stelle che, giusto a sinistra, sembra aver riempito vuoti ideali e politici incolmabili.
Dunque, nulla di nuovo se l'ex parlamentare Manuela Palermi, il neo nascente PCI dalle ceneri del vecchio Pdci del ministro della giustizia Oliviero Diliberto -colui che nel 1999 istituì il GOM (Gruppo Operativo Mobile), reparto di polizia penitenziaria addetto al controllo dei detenuti in regime di 41bis e alla repressione dei disordini carcerari, della  cui violenza hanno fatto e fanno le spese molti compagni ancora in galera- e ex rifondaroli si scagliano contro il punto programmatico di Potere al Popolo, che prevede l'abolizione del 41bis. 
Ho già espresso, senza pregiudizi e argomentazioni speciose, ma puntualmente motivandoli, i miei dubbi sulla lista. Dico però ancora che, se Potere al Popolo vuole effettivamente segnare uno spartiacque con i vecchi tatticismi politici di quella sinistra compatibilista fino al punto di divenire la più fervente sacerdotessa della statolatria borghese o la più servile vassalla del pensiero neo liberale -si pensi alla linea della fermezza tenuta dal Partito Comunista durante il rapimento Moro o alle attuali derive coercitive, con uso indiscriminato di manganelli e fermo di polizia, in materia di controllo sociale e immigrazione, adottate dal Pd - e porsi come embrione di qualcosa di veramente rivoluzionario, allora deve necessariamente liberarsi della zavorra rappresentata dai vecchi "professionisti della politica" -mi si passi la locuzione à la page- ancorché  compagni, e fare chiarezza su questioni dirimenti. La battaglia contro il 41bis, come quella per l'introduzione di un reato di tortura che non sia un capolavoro di incongruenza -specie in un momento in cui il Decreto Minniti e la repressione delle forze antagoniste costituiscono l'agenda politica di un governo impegnato attivamente nella cancellazione del dissenso: che si tratti di dicasteri in mano al Pd o al centro destra poco importa- rappresenta una battaglia culturale imprescindibile per il movimento comunista. Una battaglia su cui non è concesso trattare. E non sono concessi neppure sofismi o astruserie giuridiche, come i cinque anni di detenzione attenzionata per i boss della criminalità organizzata. Sappiamo, infatti, fin troppo bene, per esperienza, che simili provvedimenti, una volta emanati, vengono, alla lunga, estesi anche ad altre fattispecie e, quindi, a pagarne il prezzo sarebbero, in futuro, anche altri detenuti, specie i politici. La mafia infatti, se la si vuol sconfiggere, va combattuta sui territori, attraverso lotte e interventi di carattere sociale, politico, economico e, appunto, culturale.Non certo con il ricorso al 41bis o a secoli di galera, che servono più a ripulire la coscienza di un apparato statale spesso complice, che non ad eliminare un fenomeno incistato in una struttura sociale che nessuno, a quanto pare, vuol modificare.
Per questo, accanto ai No all'Unione Europea, all'Euro, alla Nato e al pagamento del Debito, è per me irrinunciabile il No al 41bis: tra l'altro, sovente, divenuto vile strumento di ricatto per costringere il detenuto a delazioni fittizie, quando non totalmente false, sull'onda emotiva della paura o sulla base di un calcolo puramente utilitaristico e personale.. Come il No all'ergastolo. E il superamento dell'istituto punitivo della pena, pensato come unico strumento di deterrenza del crimine o, peggio, come metodo rieducativo. In tal senso, le galere hanno fallito. E falliscono ancor di più le teorie che producono svolte restrittive e autoritarie. 
D'altronde, come ho già scritto altrove, non dimentichiamo che  secondo il filosofo e psicologo francese, Michel Foucault, tra la nascita del capitalismo e l’instaurazione del potere disciplinare esiste una causalità irriducibile e biunivoca: ciascuno dei due fenomeni ha alimentato l’altro e nessuno dei due avrebbe potuto mai assumere le proporzioni che ha assunto se non si fosse potuto poggiare sulle acquisizioni e sugli effetti dell’altro.
Scrive in pratica Foucault, in "Sorvegliare e Punire": «L’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere, che si chiama “la disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione». Stando, dunque, a quanto dice Foucault, il potere produce innanzitutto sovrastrutture, morali e culturali, codici di comportamento, simboli, linguaggio e, di conseguenza, senso. Ecco, il potere produce senso e quindi, com’è facile comprendere, determina la differenza –storica e culturale- tra il Bene e il Male, tra ciò che è legale e ciò che non lo è, tra lecito e illecito, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In una parola, stabilisce e precisa l’ethos all’interno di una società e di un particolare momento storico. Ne deriva che una delle principali peculiarità e finalità del potere –e specifichiamo che, quando Foucault parla del potere, si riferisce a quello dello stato borghese e liberale- risiede in ciò che egli definisce governamentalità, concetto che racchiude in sé quelli di sovranità e disciplina, affermatosi in Occidente proprio con la nascita del liberalismo e che, inequivocabilmente, conduce ad una gestione analitica, economica e disciplinare appunto delle masse. Con l’avvento dello stato liberale, insomma, siamo entrati nell’era della biopolitica e del biopotere. E, come approfondiranno, poi, in senso più squisitamente marxiano Cesarano e Agamben, attraverso la biopolitica, il Capitale ha avuto accesso al più completo e complesso dominio del reale, giungendo a sottomettere tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione e restringendo, così, le possibilità di resistenza e opposizione al sistema, attraverso quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han definisce, ormai, una vera e propria "psicopolitica". Categoria orwelliana decisamente inquietante, per mezzo della quale, afferma Han, il potere non disciplina più i corpi ma plasma le menti, non costringe ma seduce, sicché non incontra resistenza perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema. Non certo il desiderio rivoluzionario, per parafrasare Deleuze.
Se si vuole continuare a definirsi marxisti e comunisti, quindi, è necessario rompere con questi paradigmi del pensiero borghese e cominciare a declinarne di nuovi. Ampliando gli orizzonti e spaziando liberi in essi.



VINCENZO MORVILLO