Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

venerdì 28 agosto 2020

ESSERE TEMPO E RIVOLUZIONE


Leggo il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.

Quotidianità attraversate da dilatazioni e rallenty temporali. Auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale, per intenderci.

O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri, accelerazioni improvvise e inattese, che sembrano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dall’ermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.

Leggo, e non posso fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà –spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti ed ombre- Barbara sa condensarli in una scrittura vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.

Perché la sua scrittura -dalle cadenze allegoriche e magiche di L’ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano- ci parla del nostro presente e del nostro passato.

Una scrittura in cui risuonano le note di The End dei Doors e di Psyco Killer dei Talking Heads. Dell’amato De Andrè del Ballo Mascherato o di Quello che non ho, passando per La canzone del Maggio.

In cui, le terrificanti immagini pittoriche di un Francis Bacon, di un Hieronymus Bosch, di un Edvard Munch e di un Otto Dix, si alternano a quelle di un Diego Rivera, di un Jean-Michel Basquiat, di una Kara Walker o di un Banksy.

Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare, tra gli spazi bianchi dei sintagmi, le voci di passate società, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un’ umanità dall’intelligenza creativa e dalle mani sapienti. Gli echi simbolici di un’orda d’oro primitiva che, riunita intorno al pasto totemico, uccide il padre cibandosi del suo corpo. A imperitura memoria delle catene spezzate e a riscatto della libertà conquistata. Finalmente, in assenza del senso di colpa. E nell’aspirazione di una società di eguali e senza classi, dove la messa in comune dei beni non trova l’ostacolo del privilegio. Sia esso di censo, di casta, di razza o di genere.

Una parola che, pur sprofondata nella realtà fin dentro i condotti nasali, corrosi dalla mefitica aria irrespirabile, esalata dai gas di scarico e dai liquami dell’industria 4.0, quella stessa realtà è capace di reinterpretarla e reinventarla, svelandone le potenzialità rivoluzionarie. Nascoste tra le feritoie di una Storia mai convenzionalmente lineare o hegelianamente progressiva, ma sulla cui strada scoscesa si verificano impreviste e imprevedibili inversioni ad U.

Tra i corridoi di questo Tempo/Storia, impensabile secondo una rappresentazione monodimensionale e deterministica, ci si può imbattere in porte che si aprono su spazi liberati dai vincoli legali delle ore, segnate sull’orologio esclusivo dei padroni dell’esistenza.

Sulla superficie levigata di una natura oramai artificiosa, si può sprofondare in pur minuscoli crateri, all’interno dei quali scorre l’incandescente magma, ancora inesploso, di una generazione di vinti e di dannati, che si agita tra le viscere della terra.

Una scrittura e una parola profetiche, si diceva dunque, quelle di Barbara. Perché capaci di rivelare l’infezione letale di un virus che, prima ancora di prendere l’esotico nome di Corona, ha da sempre assunto quello funesto di Capitale. Oggi declinato nella sua lugubre e ancor più micidiale versione di neoliberismo.

Una messa a nudo di un sistema e dei suoi re, che hanno depredato risorse e desertificato terre, arroccati in fortezze che rischiano però di poggiare su macerie da loro stessi edificate.

Guerre, colonialismo, cementificazioni, grandi opere, trivellazioni, produzione high tech, sono le bocche fameliche del mercato borsistico e finanziario. Capace di fagocitare fette di terra sempre più grandi, di succhiare e insozzare fondali marini vergini, di triturare ossa e digerire carne umana alla velocità di una lugubre luce, rifratta dai grafici di un consiglio di amministrazione fino alla più lurida discarica della più remota megalopoli latinoamerica o africana.

Una scrittura e una parola che colpiscono, come i proiettili che fischiarono quel giorno in Via Fani, il corpo flaccido del capitale morente, e perciò stesso mai tanto avido di merce.

Ma anche una lingua teologicamente marxista e marxianamente teologica. Quasi ad inverare in sé e a far agire per sé l’eresia messianica di Benjamin e la filosofia della praxis dell’imprescindibile Marx. Seppur riconsiderato alla luce delle mutate condizioni storiche.

Una lingua quasi perduta, sottratta al dominio dei vincitori di ogni epoca, e di cui, come degli archeologi alla Jean François Champollion, siamo chiamati a decifrare i crittogrammi: comunismo comunitario, innocenza di un sapere condiviso, gli oppressi e la loro storia, sabotaggio, lotta, rivoluzione.

Crittogrammi che vanno ad insinuarsi sotto la pelle ingiallita –al pari delle pagine dei libri- dei compagni addormentati nel sonno di un conformismo ortodosso. O soffocati dalla talassica liquidità del presente, tra le cui increspature il pensiero debole del postmodernismo ha ridotto le idee/forza di un tempo a puerili rivendicazioni utopiche. Un sonno sul cui fondo, quelle parole infuocate riposano come dei sogni. Incapaci di tramutarsi nell’incubo reale dei padroni del mondo.

Non c’è più tempo ci dice Barbara. Nell’incedere vorticoso del progresso e della produzione purché sia, il tempo umano sembra sfuggirle e sfuggirci tra le dita. E il Tempo, insieme alla figura del papà perduto anni prima, sembra essere il protagonista di questo settimo sigillo della Balzerani. Di questa partita a scacchi tra Barbara/Odradek e la Morte.

Di questa elegia in forma di epistola al padre, che Barbara ha scritto intingendo la penna nel sangue raggrumato delle sue antiche ferite e strappando brandelli di carne e memoria alla sostanza cupa di un’anima vissuta a lungo nella cattività del sogno rivoluzionario, strappatole con la violenza di uno stupro padronale.

Nel procedere bipolare di queste pagine, che dalle feritoie aperte nelle tenebre tecnocratiche della realtà contemporanea lasciano filtrare lancinanti squarci di luce, provenienti dal passato e riverberati dai più remoti recessi del mondo, il Tempo e la Morte si fronteggiano e si sfidano. Si sfidano e si fronteggiano le generazioni dei dominatori e quelle degli oppressi. Si fronteggiano e si sfidano, con la tenerezza dell’amore filiale e la durezza dialettica di Antigone di fronte a Creonte, una figlia ed un padre. La coscienza ribelle di una giovane donna e la morale patriarcale che nulla può concedere al gesto sovversivo. Si sfidano e si fronteggiano la narrazione magica e quasi fiabesca di un mondo che si pretenderebbe immutabile, e la trama cocciuta di una realtà dura e in rapido, esplosivo divenire.

Per questo oserei dire che, in un ribaltamento delle categorie del pensiero heideggeriano, qui l’Esser-ci non è un esser-ci per la morte. Bensì è un Esser-ci per la Libertà. Un Essere per la Rivoluzione. Rivoluzionare il Tempo, lo Spazio, la Storia, il Passato. Solo così si potrà agire, fino alle estreme conseguenze rigeneratrici, la rivoluzione nella società contemporanea del «tempo veloce».

Lasciamo parlare Walter Benjamin, le cui Tesi di Filosofia della Storia intridono tutto il libro di Barbara: «la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice “C'era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».

E Barbara, come Benjamin, ci dice di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare agli orologi. Di interrompere l’accumulo progressivo di futuro tramutatosi in accumulo sviluppista di produzione al presente. Altro che sviluppo delle forze produttive! Siamo ormai giunti nel regno dell’ombra di Mordor. Dominato da un bifronte Sauron-Rolex, Signore degli orologi. Il cui volto vorace assomiglia a quello di un Amministratore Delegato. Una Mordor neoliberista, dove macchine/orchi di odierni Talo hanno divorato la creatività umana del lavoro, trasformando gli stessi individui in alienati profili avatar, deprivati di spazio vitale. Macerie di corpi su macerie di corpi, nel segno dell’ideologia tempestosa del progresso. Solo nuovi angeli o nuovi barbari rivoluzionari potranno redimere il passato e riscattare le generazioni oppresse della Storia. è Marx stesso a dircelo, dopotutto.

E ancora, Tesi 11: «Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come “la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura". Allarmato, Marx ribatte “che l'uomo non possiede altra proprietà” che la sua forza-lavoro, "non puo' non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi... proprietari". Ciononostante la confusione continua a diffondersi, e poco dopo Josef Dietzgen proclama: “Il lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel... miglioramento... del lavoro... consiste la ricchezza, che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto”. Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo. Fra cui c’è anche un concetto di natura che si allontana funestamente da quello delle utopie socialiste anteriori al ‘48. Il lavoro, come è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto -con ingenuo compiacimento- a quello del proletariato».

A suo padre, che dei padroni e della fabbrica ha voluto fare a meno per tutta la vita, credendosi e sentendosi libero del suo tempo, Barbara rimprovera l’ingenua illusione di una fede nel progresso e nel lavoro che, malgrado tutto, avrebbe dovuto riscattare una povertà dignitosa ma fredda. Il costo sovrastimato dell’illusione portava però con sé una maggiorazione irricevibile per quella ragazza dai capelli lunghi e la gonna troppo corta. Il prezzo era una libertà non negoziabile. Per questo, in quegli anni, lei e tanti come lei hanno preso le armi. Per non negoziare la propria libertà. Una scelta che il papà non ha mai potuto comprendere. Ferendo la fanciullesca tenerezza di quei racconti favolosi che ipnotizzavano sua figlia. Unica vera evasione da un’ infanzia di stenti.

Ma oggi, dopo quarant’anni, non è solo l’operaio-massa ad aver ceduto la propria dignità al ricatto padronale. è la natura stessa -come scrive d’altronde Benjamin- a soccombere al ritmo martellante di una depredazione di risorse, come mai prima nella vicenda dei rapporti tra l’uomo e il suo habitat.

Il Capitale, quale unica teologia praticabile, ha squarciato il ventre della terra, ne ha mangiato il cuore, accecato gli occhi e avvelenato il sangue. Ha schiacciato culture e calpestato storie. Divorando ogni giorno sesso di neonato, in periferie dai paesaggi post atomici, situate ai margini di megalopoli abitate dagli zombie del neoliberismo imperante. Sorveglia, Punisci, Produci, Consuma, Muori. Imperativi assoluti di un mercato asettico e distante come il dio della Legge kafkiana. E' già Marx a parlarne ne Il Capitale ( Libro III), quando affronta, con la sua vaticinante lungimiranza, la questione della irreparabile frattura metabolica determinata dal Modello di Produzione Capitalistico.

E a me, mentre leggo senza respiro le parole di Barbara, non può non venirmi in mente, quasi fosse un rigurgito della memoria, la deflagrante poesia allucinatoria di “Quattro Zoas”, il poema in cui William Blake prefigurava tutti gli orrori di cui si sarebbe macchiata la mano dell’uomo, compresa la distruzione della Bellezza che le fabbriche -e quindi l’incipiente tecnologia- avrebbero generato. La portata profetica di quelle parole/immagini è sconcertante: «E tutte le arti della vita mutarono in arti di morte[…]Furono inventate ruote complicate. Ruota senza ruota per sconcertare la gioventù, per legare a fatiche di giorno e di notte le folle in eterno[…]chi deve spendere i giorni di saggezza in miseria contristata per ottenere uno scarso pasto[…]I palazzi nitidi si ammantano di orrore scuro e silenzioso, nascondendo i loro libri e i loro quadri nei covi sottoterra. Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà[…]I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue?[…]La tigre feroce deride la forma umana, il leone dileggia e vuol sangue. Gridano: O ragno spargi la tua tela![…]E pieno di carne sii esaltato![…]Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più». Parole tanto più crudeli e angosciose quanto più attuale si rivela la loro tragica verità. Una verità alla quale, oramai, tutti o quasi passivamente soggiacciamo, nell’indifferenza e nel silenzio colpevole. Una verità che il Covid 19 sembra volerci gridare ancora più forte.

Lettera a mio padre è, dunque, un finale di partita. Un finale di partita tra una figlia e un padre che vive nel suo ricordo e nella sua dolente nostalgia. Un finale di partita che si gioca tra una generazione rivoluzionaria e una generazione apparentemente rassegnata. Tra gli sconfitti di una rivoluzione mancata e il potere vittorioso e vindice di quello stato “democratico”, che li vorrebbe silenti o pentiti. Un finale di partita tra il passato e il futuro. Per la possibile intermediazione di un presente che potrebbe finalmente precipitare sul piano inclinato della Storia.

In Finale di Partita, a circa metà testo, Samuel Beckett, nel corso dell’apparentemente insensato ma emotivamente spietato e angoscioso dialogo tra i due protagonisti, (Hamm e Clov) scolpisce uno dei passaggi più inquietanti e pessimistici della drammaturgia del ‘900: «Clov (con angoscia, grattandosi): Ho una pulce. Hamm: Una pulce? Ci sono ancora delle pulci? Clov (grattandosi): A meno che non sia una piattola. Hamm (molto preoccupato): Ma a partire di lì l'umanità potrebbe ricostituirsi! Per amor del cielo, acchiappala!» E poco più avanti: «Clov: Non c'è più natura» .

Sembra il monito terrificante che sale come un urlo dalle pagine inquiete di questa Lettera a mio padre. Di tempo, del resto, ne è rimasto davvero poco. E, come scrive Barbara: «Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di un’altra storia, interamente umana».

Il tempo di prendere nelle nostre mani –noi oppressi, noi dannati, noi lavoratori, noi ultimi- il nostro destino, senza delegarlo a chicchessia. Riusciremo mai ad autogestirci in forme di comunismo realizzato?

Dopo quest’incubo, la sfida che ci dovremmo porre è questa. Nulla di meno. è il tempo di gettare un cacciavite nell’ingranaggio per incepparlo. Senza attendere altre pandemie o altri virus. A debito delle nostre vite lucrano il capitale e la morte. La rivoluzione è un atto d’amore. Siamo attesi!

Vincenzo Morvillo

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