Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

venerdì 28 agosto 2020

ESSERE TEMPO E RIVOLUZIONE


Leggo il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.

Quotidianità attraversate da dilatazioni e rallenty temporali. Auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale, per intenderci.

O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri, accelerazioni improvvise e inattese, che sembrano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dall’ermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.

Leggo, e non posso fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà –spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti ed ombre- Barbara sa condensarli in una scrittura vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.

Perché la sua scrittura -dalle cadenze allegoriche e magiche di L’ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano- ci parla del nostro presente e del nostro passato.

Una scrittura in cui risuonano le note di The End dei Doors e di Psyco Killer dei Talking Heads. Dell’amato De Andrè del Ballo Mascherato o di Quello che non ho, passando per La canzone del Maggio.

In cui, le terrificanti immagini pittoriche di un Francis Bacon, di un Hieronymus Bosch, di un Edvard Munch e di un Otto Dix, si alternano a quelle di un Diego Rivera, di un Jean-Michel Basquiat, di una Kara Walker o di un Banksy.

Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare, tra gli spazi bianchi dei sintagmi, le voci di passate società, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un’ umanità dall’intelligenza creativa e dalle mani sapienti. Gli echi simbolici di un’orda d’oro primitiva che, riunita intorno al pasto totemico, uccide il padre cibandosi del suo corpo. A imperitura memoria delle catene spezzate e a riscatto della libertà conquistata. Finalmente, in assenza del senso di colpa. E nell’aspirazione di una società di eguali e senza classi, dove la messa in comune dei beni non trova l’ostacolo del privilegio. Sia esso di censo, di casta, di razza o di genere.

Una parola che, pur sprofondata nella realtà fin dentro i condotti nasali, corrosi dalla mefitica aria irrespirabile, esalata dai gas di scarico e dai liquami dell’industria 4.0, quella stessa realtà è capace di reinterpretarla e reinventarla, svelandone le potenzialità rivoluzionarie. Nascoste tra le feritoie di una Storia mai convenzionalmente lineare o hegelianamente progressiva, ma sulla cui strada scoscesa si verificano impreviste e imprevedibili inversioni ad U.

Tra i corridoi di questo Tempo/Storia, impensabile secondo una rappresentazione monodimensionale e deterministica, ci si può imbattere in porte che si aprono su spazi liberati dai vincoli legali delle ore, segnate sull’orologio esclusivo dei padroni dell’esistenza.

Sulla superficie levigata di una natura oramai artificiosa, si può sprofondare in pur minuscoli crateri, all’interno dei quali scorre l’incandescente magma, ancora inesploso, di una generazione di vinti e di dannati, che si agita tra le viscere della terra.

Una scrittura e una parola profetiche, si diceva dunque, quelle di Barbara. Perché capaci di rivelare l’infezione letale di un virus che, prima ancora di prendere l’esotico nome di Corona, ha da sempre assunto quello funesto di Capitale. Oggi declinato nella sua lugubre e ancor più micidiale versione di neoliberismo.

Una messa a nudo di un sistema e dei suoi re, che hanno depredato risorse e desertificato terre, arroccati in fortezze che rischiano però di poggiare su macerie da loro stessi edificate.

Guerre, colonialismo, cementificazioni, grandi opere, trivellazioni, produzione high tech, sono le bocche fameliche del mercato borsistico e finanziario. Capace di fagocitare fette di terra sempre più grandi, di succhiare e insozzare fondali marini vergini, di triturare ossa e digerire carne umana alla velocità di una lugubre luce, rifratta dai grafici di un consiglio di amministrazione fino alla più lurida discarica della più remota megalopoli latinoamerica o africana.

Una scrittura e una parola che colpiscono, come i proiettili che fischiarono quel giorno in Via Fani, il corpo flaccido del capitale morente, e perciò stesso mai tanto avido di merce.

Ma anche una lingua teologicamente marxista e marxianamente teologica. Quasi ad inverare in sé e a far agire per sé l’eresia messianica di Benjamin e la filosofia della praxis dell’imprescindibile Marx. Seppur riconsiderato alla luce delle mutate condizioni storiche.

Una lingua quasi perduta, sottratta al dominio dei vincitori di ogni epoca, e di cui, come degli archeologi alla Jean François Champollion, siamo chiamati a decifrare i crittogrammi: comunismo comunitario, innocenza di un sapere condiviso, gli oppressi e la loro storia, sabotaggio, lotta, rivoluzione.

Crittogrammi che vanno ad insinuarsi sotto la pelle ingiallita –al pari delle pagine dei libri- dei compagni addormentati nel sonno di un conformismo ortodosso. O soffocati dalla talassica liquidità del presente, tra le cui increspature il pensiero debole del postmodernismo ha ridotto le idee/forza di un tempo a puerili rivendicazioni utopiche. Un sonno sul cui fondo, quelle parole infuocate riposano come dei sogni. Incapaci di tramutarsi nell’incubo reale dei padroni del mondo.

Non c’è più tempo ci dice Barbara. Nell’incedere vorticoso del progresso e della produzione purché sia, il tempo umano sembra sfuggirle e sfuggirci tra le dita. E il Tempo, insieme alla figura del papà perduto anni prima, sembra essere il protagonista di questo settimo sigillo della Balzerani. Di questa partita a scacchi tra Barbara/Odradek e la Morte.

Di questa elegia in forma di epistola al padre, che Barbara ha scritto intingendo la penna nel sangue raggrumato delle sue antiche ferite e strappando brandelli di carne e memoria alla sostanza cupa di un’anima vissuta a lungo nella cattività del sogno rivoluzionario, strappatole con la violenza di uno stupro padronale.

Nel procedere bipolare di queste pagine, che dalle feritoie aperte nelle tenebre tecnocratiche della realtà contemporanea lasciano filtrare lancinanti squarci di luce, provenienti dal passato e riverberati dai più remoti recessi del mondo, il Tempo e la Morte si fronteggiano e si sfidano. Si sfidano e si fronteggiano le generazioni dei dominatori e quelle degli oppressi. Si fronteggiano e si sfidano, con la tenerezza dell’amore filiale e la durezza dialettica di Antigone di fronte a Creonte, una figlia ed un padre. La coscienza ribelle di una giovane donna e la morale patriarcale che nulla può concedere al gesto sovversivo. Si sfidano e si fronteggiano la narrazione magica e quasi fiabesca di un mondo che si pretenderebbe immutabile, e la trama cocciuta di una realtà dura e in rapido, esplosivo divenire.

Per questo oserei dire che, in un ribaltamento delle categorie del pensiero heideggeriano, qui l’Esser-ci non è un esser-ci per la morte. Bensì è un Esser-ci per la Libertà. Un Essere per la Rivoluzione. Rivoluzionare il Tempo, lo Spazio, la Storia, il Passato. Solo così si potrà agire, fino alle estreme conseguenze rigeneratrici, la rivoluzione nella società contemporanea del «tempo veloce».

Lasciamo parlare Walter Benjamin, le cui Tesi di Filosofia della Storia intridono tutto il libro di Barbara: «la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice “C'era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».

E Barbara, come Benjamin, ci dice di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare agli orologi. Di interrompere l’accumulo progressivo di futuro tramutatosi in accumulo sviluppista di produzione al presente. Altro che sviluppo delle forze produttive! Siamo ormai giunti nel regno dell’ombra di Mordor. Dominato da un bifronte Sauron-Rolex, Signore degli orologi. Il cui volto vorace assomiglia a quello di un Amministratore Delegato. Una Mordor neoliberista, dove macchine/orchi di odierni Talo hanno divorato la creatività umana del lavoro, trasformando gli stessi individui in alienati profili avatar, deprivati di spazio vitale. Macerie di corpi su macerie di corpi, nel segno dell’ideologia tempestosa del progresso. Solo nuovi angeli o nuovi barbari rivoluzionari potranno redimere il passato e riscattare le generazioni oppresse della Storia. è Marx stesso a dircelo, dopotutto.

E ancora, Tesi 11: «Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come “la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura". Allarmato, Marx ribatte “che l'uomo non possiede altra proprietà” che la sua forza-lavoro, "non puo' non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi... proprietari". Ciononostante la confusione continua a diffondersi, e poco dopo Josef Dietzgen proclama: “Il lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel... miglioramento... del lavoro... consiste la ricchezza, che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto”. Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo. Fra cui c’è anche un concetto di natura che si allontana funestamente da quello delle utopie socialiste anteriori al ‘48. Il lavoro, come è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto -con ingenuo compiacimento- a quello del proletariato».

A suo padre, che dei padroni e della fabbrica ha voluto fare a meno per tutta la vita, credendosi e sentendosi libero del suo tempo, Barbara rimprovera l’ingenua illusione di una fede nel progresso e nel lavoro che, malgrado tutto, avrebbe dovuto riscattare una povertà dignitosa ma fredda. Il costo sovrastimato dell’illusione portava però con sé una maggiorazione irricevibile per quella ragazza dai capelli lunghi e la gonna troppo corta. Il prezzo era una libertà non negoziabile. Per questo, in quegli anni, lei e tanti come lei hanno preso le armi. Per non negoziare la propria libertà. Una scelta che il papà non ha mai potuto comprendere. Ferendo la fanciullesca tenerezza di quei racconti favolosi che ipnotizzavano sua figlia. Unica vera evasione da un’ infanzia di stenti.

Ma oggi, dopo quarant’anni, non è solo l’operaio-massa ad aver ceduto la propria dignità al ricatto padronale. è la natura stessa -come scrive d’altronde Benjamin- a soccombere al ritmo martellante di una depredazione di risorse, come mai prima nella vicenda dei rapporti tra l’uomo e il suo habitat.

Il Capitale, quale unica teologia praticabile, ha squarciato il ventre della terra, ne ha mangiato il cuore, accecato gli occhi e avvelenato il sangue. Ha schiacciato culture e calpestato storie. Divorando ogni giorno sesso di neonato, in periferie dai paesaggi post atomici, situate ai margini di megalopoli abitate dagli zombie del neoliberismo imperante. Sorveglia, Punisci, Produci, Consuma, Muori. Imperativi assoluti di un mercato asettico e distante come il dio della Legge kafkiana. E' già Marx a parlarne ne Il Capitale ( Libro III), quando affronta, con la sua vaticinante lungimiranza, la questione della irreparabile frattura metabolica determinata dal Modello di Produzione Capitalistico.

E a me, mentre leggo senza respiro le parole di Barbara, non può non venirmi in mente, quasi fosse un rigurgito della memoria, la deflagrante poesia allucinatoria di “Quattro Zoas”, il poema in cui William Blake prefigurava tutti gli orrori di cui si sarebbe macchiata la mano dell’uomo, compresa la distruzione della Bellezza che le fabbriche -e quindi l’incipiente tecnologia- avrebbero generato. La portata profetica di quelle parole/immagini è sconcertante: «E tutte le arti della vita mutarono in arti di morte[…]Furono inventate ruote complicate. Ruota senza ruota per sconcertare la gioventù, per legare a fatiche di giorno e di notte le folle in eterno[…]chi deve spendere i giorni di saggezza in miseria contristata per ottenere uno scarso pasto[…]I palazzi nitidi si ammantano di orrore scuro e silenzioso, nascondendo i loro libri e i loro quadri nei covi sottoterra. Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà[…]I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue?[…]La tigre feroce deride la forma umana, il leone dileggia e vuol sangue. Gridano: O ragno spargi la tua tela![…]E pieno di carne sii esaltato![…]Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più». Parole tanto più crudeli e angosciose quanto più attuale si rivela la loro tragica verità. Una verità alla quale, oramai, tutti o quasi passivamente soggiacciamo, nell’indifferenza e nel silenzio colpevole. Una verità che il Covid 19 sembra volerci gridare ancora più forte.

Lettera a mio padre è, dunque, un finale di partita. Un finale di partita tra una figlia e un padre che vive nel suo ricordo e nella sua dolente nostalgia. Un finale di partita che si gioca tra una generazione rivoluzionaria e una generazione apparentemente rassegnata. Tra gli sconfitti di una rivoluzione mancata e il potere vittorioso e vindice di quello stato “democratico”, che li vorrebbe silenti o pentiti. Un finale di partita tra il passato e il futuro. Per la possibile intermediazione di un presente che potrebbe finalmente precipitare sul piano inclinato della Storia.

In Finale di Partita, a circa metà testo, Samuel Beckett, nel corso dell’apparentemente insensato ma emotivamente spietato e angoscioso dialogo tra i due protagonisti, (Hamm e Clov) scolpisce uno dei passaggi più inquietanti e pessimistici della drammaturgia del ‘900: «Clov (con angoscia, grattandosi): Ho una pulce. Hamm: Una pulce? Ci sono ancora delle pulci? Clov (grattandosi): A meno che non sia una piattola. Hamm (molto preoccupato): Ma a partire di lì l'umanità potrebbe ricostituirsi! Per amor del cielo, acchiappala!» E poco più avanti: «Clov: Non c'è più natura» .

Sembra il monito terrificante che sale come un urlo dalle pagine inquiete di questa Lettera a mio padre. Di tempo, del resto, ne è rimasto davvero poco. E, come scrive Barbara: «Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di un’altra storia, interamente umana».

Il tempo di prendere nelle nostre mani –noi oppressi, noi dannati, noi lavoratori, noi ultimi- il nostro destino, senza delegarlo a chicchessia. Riusciremo mai ad autogestirci in forme di comunismo realizzato?

Dopo quest’incubo, la sfida che ci dovremmo porre è questa. Nulla di meno. è il tempo di gettare un cacciavite nell’ingranaggio per incepparlo. Senza attendere altre pandemie o altri virus. A debito delle nostre vite lucrano il capitale e la morte. La rivoluzione è un atto d’amore. Siamo attesi!

Vincenzo Morvillo

lunedì 2 marzo 2020

ROLEX: LO STATUS-SIMBOL DELLA MORTE!





Sabato notte. Napoli è teatro dell'ennesimo, annichilente, folle episodio di violenza.

Violenza criminale, anche. Ma soprattutto, violenza figlia della distorsione umana ai tempi del dominio neoliberista.

Una distorsione che subordina la vita alla roba. L'esistere all'avere. La difesa della proprietà privata all'umanesimo della condivisione sociale.

Sabato notte, un ragazzino di 16 anni, Ugo Russo, che provava, armato di pistola giocattolo, a rubare un Rolex dal polso di un cittadino, è stato da questi freddato con una pistola vera.

Il cittadino in questione, si scopre, era un Carabiniere in borghese.

Questi, i fatti. Tra cui, chiaramente, si affollano inquietanti interrogativi e riflessioni.

La prima domanda che mi viene in mente è, come diamine faccia un Carabiniere, un proletario di pasoliniana memoria, con quello che guadagna, a comprarsi un Rolex? Considerando che il meno costoso, in acciaio, ha un prezzo non infetiore ai 1000€. Qui, però, pare che si tratti di un Rolex d'oro: prezzo di mercato ben superiore!

Ma potrebbe essere un regalo. E poi, non è certo questo il nodo della questione.

Devo confessare che è stato un primo impulso, dettato dalla mai celata, personale antipatia verso le divise, nei confronti della cui deontologia nutro anche un certo scetticismo, a suggerire e ad insinuare questo dubbio maligno.

Ma quel primo impulso, un po'superficiale, lascia immediatamente il posto a considerazioni di carattere più ampio e profondo. Vediamo.

Innanzitutto, il carabiniere -che ha dichiarato al Magistrato di essersi qualificato come tale- perché spara tre colpi ad altezza d'uomo? Perché ha in dosso una pistola se è fuori servizio?

L'ordinanza emanata nel 2017, dall'ineffabile corifeo della repressione sinistrese, il democratico Marco Minniti, che obbligherebbe le Forze dell'Ordine a girare armate anche fuori servizio, infatti, era da circoscrivere all'imminenza del pericolo terroristico, seguito al panico innescatosi dopo che, come si ricorderà, un camioncino bianco, il 17 agosto di tre anni fa (estate 2017), massacrò 15 persone, zigzagando nella folla lungo le Ramblas, a Barcellona.

Ma soprattutto, quello che lascia fin troppo perplessi, è la dichiarazione del ventitreenne rappresentante della Benemerita, che afferma di essersi spaventato perché il ragazzino gli puntava una pistola alla tempia, di cui aveva anche udito lo scarrellamento. Chiunque conosca un minimo le armi deduce, quindi, che il rapinatore aveva messo il colpo in canna. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: dove ha trovato, il Carabiniere, il coraggio leonino -neanche fosse Trinità- di estrarre la sua arma e di fare fuoco, con una canna puntata al viso?

Al giovane criminale sarebbe bastato toccare il grilletto per ucciderlo. Qualcosa, come al solito, in questi casi, nella dinamica degli eventi, non torna. Anzi, sfiora il grottesco!

E d'altra parte, comincia a farsi largo l'ipotesi che a colpire Ugo Russo alla testa, sia stato un proiettile penetrato da dietro la nuca. Se così fosse, dunque, ci troveremmo di fronte all'ennesimo omicidio a sangue freddo, commesso da un rappresentante delle forze dell'ordine.

Gli interrogativi e le riflessioni però, non si fermano alla dinamica dei tragici eventi. Per assumere un carattere più generale e segnatamente socio-economico.

Se il modello di società che si è costruito, infatti, è quello dello status-simbol e del denaro, che ne consente l'acquisto, e attraverso cui compensiamo un vuoto esistenziale indotto dalla logica di un'esistenza mercantile, dunque illudendoci di esistere perché indossiamo un orologio costoso al polso, beh non ci si può meravigliare di quello che è successo l'altra notte a Napoli.

Non ci si può meravigliare se un ragazzino di 16 anni, figlio del sottoproletariato metropolitano, prova a rubare un Rolex, pistola falsa in pugno, nell'illusione che quel Rolex gli attribuisca un ben definito valore umano.

E non ci si può meravigliare, altrettanto, se un figlio della piccola-borghesia italica, notoriamente vendicativa, meschina nel suo attaccamento alla roba, avida nella sua scalata sociale, ansiosa di gestire sia pure il più minimo potere, spara a quel ragazzino, uccidendolo.

Non per salvare la vita, sia ben chiaro. Non ci facciano ridere i soloni borghesi, che in queste ore si stanno accadendo sulla genetica criminale di Ugo, pur di difendere il malcapitato esponente dell'Arma. Ma per non cedere il suo Rolex!

Quello che fa incazzare, invece, e che non consente attenuanti, è che quel figlio della piccola-borghesia sia, appunto, un Carabiniere. Uno sbirro.

E voglio chiamarlo sbirro perché la sua è psicologia da sbirro. La psicologia di un Maurizio Merli qualunque.

Violento perché ritenuto e auto proclamatosi al di sopra della Legge. Addirittura, incarnazione della Legge stessa.

Quella psicologia tipica del giustizialismo vindice, peloso e moralista, che affonda le radici nella bieca cultura torquemadista da Congregazione del Santo Uffizio.

Cultura che plasma di sé, da secoli, l'intera società occidentale. Fondata su due concetti basilari. Colpa e punizione. Sorvegliare e punire.

Una società repressiva e classista, nella quale il potere, specie quello del denaro, l'avere, fa la differenza tra il diritto di vivere e il non diritto all'esistenza.

Una società, per di più, i cui cani da guardia in divisa, vengono quotidianamente nutriti da dosi massicce di violenza. Al solo e funzionale scopo di legittimarne l'uso arbitrario contro i ceti subalterni e i dannati della terra. In difesa di quelle stesse élites che li hanno resi schiavi e assassini, affinché ne difendano la proprietà, ne proteggano l'esistenza parassitaria e ne pepetuino il Potere.

Fa incazzare e fa schifo che uno sbirro, un professionista della "violenza", che nel suo caso dovrebbe essere esercitata con discernimento e in relazione ai contesti, un esperto di armi, perda completamente la ragione e ritenga di poter agire di istinto, senza neanche rendersi conto che la pistola impugnata dal ragazzino di 16 anni, fosse giocattolo. Adducendo, come inaccettabile giustificazione, la paura e il rischio di perdere la vita, laddove questo rischio non esisteva.

Vorrei rammentare, tra l'altro, che le forze dell'ordine vengono pagate per assumersi tali rischi.

Pagate poco, certo. Non tanto, quindi, da poter acquistare oggetti di lusso!

Ed è sinceramente disgustoso leggere i commenti di chi, sui social, festeggia per la morte del giovane criminale.

Come, altrettanto nauseante, risulta l'accanimento della stampa contro Ugo Russo, che si sta registrando in queste ore.

Una canea dai toni lombrosiani, malthusiani e fascisteggianti, che è il riflesso di una "civiltà" orrendamente giunta ai confini della disumanizzazione.

Quella morte, dunque, è stata sentenziata, ancor prima che dal proiettile che ne ha stroncato la vita, da una società impastata con l'odio.

Odio di classe, di censo, di status-simbol, di appartenenza, di razza. Un consesso "umano" in cui solo chi possiede, anche poco, chi vive nella regola dettata da leggi che promanano da quelle stesse istituzioni che riducono l'esistenza ad una merce di scambio, ad oggetto di squallida compravendita, ha diritto di respirare.

Una società che non vuole diversi. Gelosa della propria insignificante uniformità. Della sua volgare opulenza. Del suo conformismo neghittoso. Del suo patto sociale stipulato tra uguali.

E da cui i dannati della terra vengono esclusi all'origine. Insieme a chi contesta questo barbaro regime di classe.

Possibilmente, chiudendoli in galere o manicomi. Ancor meglio, ammazzandoli.

Come venne ucciso, dall'ennesimo sbirro giustiziere, Davide Bifulco. Sparato alle spalle!

Scriveva Claudio Lolli nel 1972, in quella che è diventata il manifesto di una generazione che contestava i costumi della borghesia reazionaria:

«Vecchia piccola borghesia/per piccina che tu sia/non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia/Sei contenta se un ladro muore/se si arresta una puttana/se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana/Sei soddisfatta dei danni altrui/ti tieni stretti i denari tuoi/assillata dal gran tormento/che un giorno se li riprenda il vento».

Mentre Artaud, con sommo disprezzo verso questo mondo popolato da zombie e baldracche del potere, scriveva, ad inizio secolo, da par suo:

«In un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com'è all'uscita dal sesso materno. E questa non è un'immagine, ma un fatto abbondantemente e quotidianamente ripetuto e coltivato sulla terra intera. Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica».

Ecco perché noi, pur condannando il gesto criminale del ragazzino, ci sentiamo dalla sua parte.

Non certo da quella del difensore di una Legge che, prima ancora che sociale e materiale, è legge dettata dalla morale e dall'ideologia delle classi dominanti.

Una legge che consente di uccidere solo a chi veste una divisa o è parte del consesso civile.

Una legge criminogena, nella sua assenza di intelligenza sociale. Nella sua assenza di umanità.

Una legge che rinuncia a chiedersi il motivo del gesto criminale di un ragazzino di 16 anni, assumendo i connotati di legge divina.

Una Legge che non è più, se mai lo è stata, Diritto.

Contro questa deriva legalitaria e megalomane della Giustizia e della Legge, continueremo a batterci.

Perché, come scriveva Montesquieu, padre del diritto liberale, non certo un marxista trinariciuto:

«Non c'è tirannia peggiore di quella esercitata all'ombra della legge e sotto il calore della giustizia».

Vincenzo Morvillo