Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

martedì 29 ottobre 2013

IL PERICOLO NEGAZIONISTA


Nei giorni scorsi, quelli che hanno seguito la morte del boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, e la questione della sua sepoltura –cui è stato opposto, giustamente ritengo, un veto simbolico- con mio grande rammarico e angoscia, mi è toccato leggere ed ascoltare le più assurde teorie, volte a mettere in discussione la veridicità storica delle camere gas e, più in generale, dell’Olocausto. Non si tratta, lo dico subito, di veri e propri postulati di matrice negazionista –i corifei di questo movimento sono “storici” come David Irving, Robert Faurisson, Ernst Zundel, tutti associati all' Institute for Historical Review, fondato nel 1978 negli Stati Uniti- ma di una sorta di tendenza culturale, riduttiva e pericolosissima, che, alla luce di alcune considerazioni, prendenti le mosse dalla sbriciolata attualità politica, sociale ed economica che ci troviamo a vivere, tende a mettere in discussione qualunque punto di riferimento e certezza, come se fossero diretta emanazione di un Potere occulto, quasi metafisico direi, capace non solo di predeterminare e di indirizzare, teleologicamente e per interessi ben precisi, il futuro e, con esso, l’intimo sentimento delle nostre coscienze, ma addirittura di aver, preventivamente, alterato la realtà storica, scrivendo pagine atroci di orrori, al solo scopo di un’autoassoluzione in prospettiva, qualora quello stesso Potere avesse in seguito, come è poi effettivamente accaduto, compiuto altrettante nefandezze. Ora, soprattutto da comunista, non sarò certo io a negare l’esistenza dei cosiddetti poteri forti o occulti, come non sarò certo io a negare la manipolazione che, del passato, il Potere ha sempre compiuto. Del resto, scriveva Orwell nel vaticinante 1984: «Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato». Qui, però, la questione va ben oltre, mi sembra, ed il rischio, nient’ affatto peregrino, è quello di accettare e sostenere –nel nome di un pur giusto sentimento antagonista nei confronti del pensiero e del sapere dominante- derive culturali di carattere nazista. Quel nazismo –o fascismo- che poi fu, ed è ancora, emanazione diretta proprio di quei poteri occulti, che ad esso hanno fatto e fanno ricorso nei momenti di crisi, cui non sanno dare una risposta se non di tipo autoritario. Insomma, per chiarirci, il mostruoso paradosso potrebbe essere quello di finire col fare letteralmente il gioco di quello stesso Potere che si pretende di avversare, abbracciando la sua faccia più sinistra e feroce. Viviamo in un momento storico di tale caos entropico, informativo e culturale, che un simile pericolo è implicito e per nulla illogico. Ecco perché ci sono alcune questioni che non possono e non devono essere messe in discussione, in primo luogo in quanto appartenenti alla dimensione etica dell’umanità. E negare la tragedia della Shoah, quale aberrante prodotto del nazifascismo, significherebbe aprire una ferita, difficilmente rimarginabile, proprio nella carne viva del nostro sentimento etico. 
Dunque, a chi nega o afferma di dubitare dell’esistenza delle camere a gas -in cui, ricordiamolo, non furono uccisi soltanto ebrei, ma rom, sinti, slavi, negri, omosessuali, persone con handicap, comunisti, cattolici, oppositori in genere: insomma, chiunque non corrispondesse, umanamente e politicamente, al farneticante ideale di società, vagheggiato dal nazionalsocialismo- consiglio di dare una scorsa al Mein Kampf.
In quel libro, un indigesto pot-pourri –com’è noto a chi lo abbia letto- di pensiero filosofico corrotto e decontestualizzato (Nietzsche in primis), razzismo, slogan, pervertimento etico, ribaltamento delle teorie darwiniste -noto come darwinismo sociale o spencerismo- degenerazione radicale della morale luterana e dell’intimo antisemitismo che la plasma –interessante, a tal proposito, la visione del film di Michael Haneke “Il Nastro bianco”- concezioni economiche elaborate su base rigidamente nazionalistica e razziale, falsificazione storica, esoterismo ecc, Hitler gettava le basi di quello che sarebbe stato, poi, il pensiero “politico/filosofico” che avrebbe permeato l’intera vita del III Reich. Un vangelo aberrante, di cui vorrei ricordare solo alcuni illuminanti passaggi: «Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita, dobbiamo distruggere in maniera tecnico-scientifica[…] Gli ebrei non furono mai nomadi, ma sempre e soltanto parassiti[…] I negri sono delle mezze scimmie[…] In creature fornite di un forte istinto di razza, la parte rimasta pura tenderà sempre all’accoppiamento fra eguali, impedendo un’ulteriore mescolanza. E con ciò, gli elementi imbastarditi passano in secondo piano, a meno che essi non si siano così tanto moltiplicati da impedire la riaffermazione della razza pura[…] La Francia, in misura sempre maggiore, integra il suo esercito con gli elementi di colore del suo gigantesco impero e, dal punto di vista della razza, si va così rapidamente “negrizzando”, che in verità si può parlare della nascita di uno stato africano sul suolo europeo. Se questa mescolanza continuasse per altri trecento anni, sparirebbero gli ultimi resti di sangue franco e si formerebbe un compatto stato africano-europeo, che va dal Reno al Congo, popolato da una razza inferiore, figlia di un costante imbastardimento[…] L’ariano rinunciò alla purezza del sangue: e così perse il proprio posto nel paradiso che si era creato […] L’individuo di razza mista diventa incerto e prende decisioni non completamente valide. Già la stessa Natura compie delle selezioni... le razze bastarde sono destinate alla sconfitta». Soltanto una persona in malafede, un indottrinato, un esaltato nazista –qual era, ad esempio, il boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, che fino all’ultimo ha avuto tutto l’interesse a negare i crimini commessi da lui stesso e dai suoi camerati- non ravviserebbe, dunque, in tali proposizioni, il seme ideologico di quanto poi verrà attuato nei campi di sterminio.
Ecco, allora, perché mi ferisce e mi offende, come Uomo prima ancora che come comunista, sentire e leggere intellettuali, Piergiorgio Odifreddi su tutti, o addirittura amici e persone, che si sono dichiarati più volte di “sinistra”, i quali, seppur giustamente confusi, nel caos caratterizzante il nostro presente -dall’informazione, alla politica, all’etica- possano pensare di negare, o anche solo di dubitare delle agghiaccianti atrocità naziste, adducendo la strumentale argomentazione secondo cui la Storia la scrivono i vincitori. Affermazione, questa, senz’altro veritiera, ma alla quale andrebbe applicato, con l’ausilio dell’intelligenza, un giusto criterio di discernimento. O peggio, che dichiarano, con un certo sprezzo del ridicolo aggiungerei, che, non essendo stati testimoni degli eventi, non possono sapere cosa sia accaduto in Europa, a partire dagli anni ’30 e fino al 1945. In pratica, adducendo la stessa vile giustificazione addotta dal popolo tedesco all’epoca: non sapevamo nulla!
Di testimonianze, ne abbiamo ascoltate tante , in questi 70 anni successivi alla II guerra mondiale. E, rimarcherei, non solo di parte ebraica. Questo lo dico perché un’altra delle argomentazioni portate, e che da sempre leggo e ascolto, a sostegno di teorie più o meno negazioniste, sarebbe quella della speculazione, da parte dello stato di Israele, sulla tragedia dell’Olocausto. Una speculazione indiscutibile che, come il professor Norman Finkelstein, ebreo, autore del volume “L’industria dell’Olocausto”, afferma, è divenuta un vero e proprio affare, scadendo addirittura, in taluni casi, nel ridicolo o nel cattivo gusto; nonché, una strumentalizzazione della tragedia della Shoah che, meschinamente, viene brandita –principalmente in chiave sionista e antipalestinese- soprattutto dalla destra israeliana oggi al potere, e fatta pesare, come un indelebile senso di colpa, sulla coscienza, certamente sporca, dell’ Occidente. Quell’ Occidente che, a partire dal Regno Unito e dagli USA, all’epoca si voltò dall’altra parte e fece finta di non accorgersi di quanto stesse accadendo nell’Europa, finita sotto al giogo nazista. Quello stesso Occidente, inoltre, su cui grava il peso della tragedia israelo-palestinese, la cui origine è da rintracciarsi ancor prima della fine della II guerra Mondiale e dell’occupazione della terra palestinese da parte ebraica, e al cui attuale prosieguo sovrintendono, com’è noto, biechi interessi finanziari e petroliferi. 
Quella speculazione e quella strumentalizzazione, però, non possono e non devono giustificare lo scetticismo o la deviante tesi negazionista sulle camere a gas. Questo perché negare valore di autenticità ai testimoni di quegli orrori, vuol dire negarlo a tutti coloro che sono stati e sono ancor oggi –a partire proprio dal popolo palestinese- martiri di crimini di guerra o, allargando questa sconsiderata prospettiva, di qualunque altra brutalità. E, ciò che pare non si voglia mettere in conto, potrebbe voler dire negarlo anche a sé stessi, ove mai, malauguratamente, si dovesse rimanere vittime di eventi simili. Razionalmente e filosoficamente, ricordiamolo, la verità è sempre confutabile: sono le persone e i contesti reali, in cui si verificano i fatti, a darci la prova di una sua eventuale affermazione o negazione.    
Purtroppo però, come dicevo precedentemente, sembra che tutto ciò abbia progressivamente perso valore, mentre si va affermando, di contro, una certa tendenza culturale, frutto di un evidente conformismo populistico e piccolo borghese, equivocamente libertario e contraddittoriamente democratico, che comincia lentamente a sdoganare –dopo aver insozzato la Resistenza ed i suoi caduti con l’irricevibile e offensiva mozione della memoria storica condivisa- anche la più pericolosa tesi negazionista. Una minaccia, a mio modesto avviso, contro cui non si può e non si deve rimanere inerti, e contro la quale è un dovere schierarsi ed essere partigiani, specie in questo delicatissimo passaggio storico. Il rischio di un collettivo smarrimento della memoria storica, e con esso di un isterilimento della nostra umanità, mi sembra troppo evidente e presente, per non suscitare un giustificato allarme, specie in chi ha fatto e fa dell’antifascismo un dovere civile, politico, morale. E allora, chiuderei queste brevi e, dato l’argomento, sicuramente insufficienti considerazioni, con un pensiero di Gramsci, che reputo adatto al contesto:
« Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i “solamente uomini”, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. [...] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».

sabato 19 ottobre 2013

IL MOVIMENTO NO TAV E LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO

Le Forze dell'Ordine tutte, le Istituzioni, i Partiti politici e la stampa, ad essi asservita, si sono organizzati e, da giorni, stanno scaldando i motori per la criminalizzazione della manifestazione che, oggi, si terrà a Roma. Una manifestazione che non vede solo il coinvolgimento del movimento NO TAV, anzi. In piazza ci saranno, infatti, famiglie, Cobas, sindacati di base e movimenti, per protestare contro le politiche recessive del governo liberista Alfetta, contro gli sfratti e a favore del lavoro. Tutto ciò, però, ai gestori dell'ordine borghese e ai servi al soldo del grande del Capitale, non interessa. L'importante è criminalizzare il Movimento NO TAV e da ciò partire per una generale criminalizzazione del dissenso in questo paese, già di per sè narcotizzato e reso inerme.
E' stata messa in atto, infatti, nei giorni che hanno preceduto la manifestazione, un'operazione di terrorismo psicologico, come non si vedeva dai tempi di Genova 2001. Addirittura, sono state approvate, all'interno del decreto contro il femminicidio e a tempo di record, leggi anti NO TAV. Una atto vergognoso e vile, soprattutto perché prende a pretesto un provvedimento contro uno dei più odiosi delitti che si possano commettere -la violenza contro le donne, appunto- per reprimere ogni forma di protesta, che non sia bena accetta ad Istituzioni e Forze dell'Ordine. Sappiamo tutti come finì, in un clima molto simile a quello che si respira in questi giorni, in occasione di quel fatidico G8 di Genova. Una repressione in perfetto stile fascista ed un morto: Carlo Giuliani! Cosa succederà oggi?
Se ne facciano una ragione: a sfilare oggi ci saranno coloro che non si arrendono alla barbara legge del capitalismo finanziario e ad una politica accucciata ai suoi piedi! A manifestare a Roma, oggi, ci saranno coloro che ancora credono che un altro mondo è possibile!
CONTRO OGNI REPRESSIONE, CONTRO OGNI FORMA DI FASCISMO, ORA E SEMPRE RESISTENZA

lunedì 14 ottobre 2013

Il Presidente della Provincia di Salerno, Antonio Iannone, dichiara su FB: «Che Guevara è stato un macellaio peggio di Priebke».

Voglio dirlo chiaro: non mi meraviglia affatto che Iannone abbia espresso questa sua infame e infamante idea. Del resto, l'anticomunismo è stato sempre viscerale nel nostro paese: un paese incapace di rivoluzioni –come diceva il maestro Monicelli- e dominato da una cultura di fondo cattofascista! Se a questo ci aggiungiamo che, da 20 e più anni, dalla stessa "sinistra" arrivano prese di distanza da una storia gloriosa di lotta per la libertà, l'uguaglianza tra gli uomini e la giustizia sociale, che è stata ed è quella del Comunismo, allora, ancor di più, non mi sorprendono quelle dichiarazioni. Iannone non è altro che il simbolo dell'ignoranza e del fascismo che, intimamente, attraversano il nostro paese. Quanti, nel silenzio della loro vile coscienza, avranno pensato che Iannone non ha poi detto una cosa tanto riprovevole? Scommetto che saranno moltissimi! Moderati, benpensanti, borghesi, inutili idioti!
Un a sola cosa, vorrei ricordare a Iannone. Che Guevara, eminentissimo stronzo, lottava per restituire Dignità e Orgoglio ai popoli oppressi; Priebke, per affermare la superiorità di un'elite fanatica e mostruosamente crudele sul resto del mondo. Priebke era permeato dall'odio fine a sè stesso; il Che predicava il sacrosanto "odio di classe" nei confronti di chi, possedendo ricchezze e potere, credeva e crede di poter tiranneggiare lavoratori, uomini singoli, popoli. Un odio che mi auguro possa, prima o poi, colpire anche chi, come Iannone, offende e calpesta la memoria di coloro che -come i morti delle Fosse Ardeatine- sono stati vittime innocenti della brutale follia nazifascista, o di chi, contro quella follia, ha combattuto e versato il suo sangue, per amore di Libertà. Infine, un piccolo dettaglio: Ernesto era un Uomo; Priebke, un insulto per l’umanità!
E mi sembra giusto, a questo punto, concludere proprio con una delle frasi più eloquenti del Che:
«Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia».
ORA E SEMPRE ANTIFASCISMO!

domenica 13 ottobre 2013

AL TEATRO NUVO “NAPOLI 43” DI MOSCATO. LE QUATTRO GIORNATE IN UN CORO TRAGICO, TRA BENJAMIN E VIVIANI.




Scrive Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico, si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall'idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». E ancora, più avanti: «Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. In Marx, essa appare come l'ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente, in cui egli per suo conto scrive storia. Lo storicismo postula un’immagine “eterna” del passato, il materialismo storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice “C’era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».
Ecco, le Tesi succitate definiscono perfettamente l’essenza ideologico/filosofica che permea “Napoli 43”, lo spettacolo -in scena al Teatro Nuovo, scritto diretto ed interpretato da Enzo Moscato- in cui si narrano le vicende e le emozioni che segnarono e percorsero l’anima del popolo napoletano durante quelle Quattro Giornate che, attraverso un’insurrezione che potremmo chiamare spontaneista, condussero alla cacciata dei nazisti dalla città.
Chiarisco. Per Benjamin, in pratica, ogni rappresentazione della Storia secondo concezioni lineari è fuorviante. E’ falso, inoltre, che i traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed esclusivamente collocare nel futuro. Alla redenzione, umana e di conseguenza sociale, si deve essere spinti, invece, dalla visione del passato. Un passato fatto, come egli stesso sottolinea, di “rovine su rovine” e così orrendo da esercitare, in chi sappia voltarsi a guardarlo, una spinta irresistibile verso un futuro diverso. Quel passato, come si diceva, è il «ricordo come esso si presenta al soggetto storico nel momento del pericolo». Ma chi è il soggetto storico in questione? Per Benjamin, marxista sui generis, si tratta, ovviamente, di quelle classi e popoli rivoluzionari che sappiano svolgere il loro compito teorico e pratico, assumendo su di sé una responsabilità epocale: quella di capire e di far capire che viviamo in uno “stato di emergenza” . In buona sostanza Benjamin -rifacendosi alle 11 Tesi su Feuerbach di Marx- non solo conduce una durissima critica nei confronti dello storicismo, che giustifica gli eventi storici assumendo il punto di vista dei vincitori nella storia, ma indica una possibilità di vittoria, per il materialismo storico, solo se questo, recuperando la tradizione messianica, consente di concepire il tempo non come un processo lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari, che frantumino la continuità storica: «La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie, nell'attimo della loro azione», scrive ancora il filosofo tedesco. Ebbene si comprenderà, a questo punto, come Moscato, rievocando le Quattro Giornate, persegua, agendo da materialista storico, proprio il fine di rievocare il passato dell’occupazione nazista e della successiva liberazione, allo scopo di renderlo vivo e attuale, non “museificato” in una sorta di Storia/Mito, inviolabile e dogmatica, dunque preda nelle mani delle classi dominanti. Le Quattro Giornate, sulla scena moscatiana, diventano evento che, dalle tenebre del Tempo fissato nella Storia, ci viene incontro, quasi assalendoci, nel momento di un presente percepito, appunto, come pericolo. Ed eccoci giunti, finalmente, al nucleo di questo spettacolo/evento! Quei quattro giorni, che fecero di Napoli la prima città liberata dal nazifascismo, non vengono semplicemente celebrati –come del resto avviene, oramai, ogni anno- a mo’ di rituale svuotato di senso. Diventano, invece, Storia viva, Presente, cui voltarsi –come l’Angelus Novus di Klee- e da cui trarre ispirazione, orgoglio di classe e di popolo, forza morale in un momento storico, sociale, economico, culturale, che vede sempre più allargarsi il divario tra classi e popoli dominanti e dominati. La nostra attualità, insomma, si configura come quello “stato di eccezione” -di cui ci parla Benjamin- attraversato da un fascismo che, pur non mostrando il volto sanguinario di quello che marciò, sull’Europa e sul mondo, col passo dell’oca, risulta però più sottile e subdolo, quindi altrettanto pericoloso e inumano. Un fascismo nato dal ventre stesso di una democrazia malata e ridotta ormai a mero simulacro perché inginocchiata ad un potere economico-finanziario, il cui credo ultraliberista sta devastando nazioni, popoli, persone. «Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» scrive, come abbiamo visto, Walter Benjamin. Il fascismo –sia esso in camicia nera, doppiopetto o cachemire- va, di conseguenza, sempre combattuto, facendo appello a quelle passioni, a quell’orgoglio di popolo e di “classe”, che possano, in un dato momento, spezzare, attraverso un atto rivoluzionario, il continuum della Storia.
Per la Napoli della rivoluzione fallita del 1799, culturalmente borbonica e votata alla provvidenziale apparizione del Masaniello di turno, quelle Quattro Giornate dell’autunno del ’43 rappresentarono proprio un atto rivoluzionario, carico di valenza messianica e perciò deflagrante sull’asse cartesiano raffigurante la sua storia. Storia di una città consacrata alla sconfitta, al dominio, alla rassegnazione.
Moscato ed i venti attori che popolano la scena di “Napoli 43”, quelle Quattro Giornate, dunque, le ri/evocano, senza retorica, sganciandole dall’enfasi che, in genere, connota la liturgia della commemorazione fine a sé stessa.
“Napoli 43” è un racconto di passioni, che erompono dalle viscere di una terra e di un popolo che ha deciso di combattere la tirannia. Un racconto commosso e lucido, tragico ed ironico; giocoso come una festa di Piedigrotta e dolente come un corteo funebre; tetro e soffocante come un lager, ma invaso da improvvisi scrosci di luce popolare e dialettale.
Dalle grotte oscure del tempo, a parlarci e a raccontare, ecco materializzarsi, evanescenti come ombre platoniche, figure di testimoni e protagonisti di quegli eventi. Ci raccontano fatti, episodi, atti di eroismo e di vigliaccheria; ci parlano di spie e di scugnizzi morti, di collaborazionisti e di puttane. Si susseguono, in un vortice di emozioni, la ferocia nazista e l’innocenza fanciullesca, le deportazioni e la vendetta; come strette nell’indissolubilità della comune origine, si sovrappongono la paura e la tensione morale e civica dei napoletani, stanchi di subire i teutonici soprusi. Il tutto si mescola, su un tappeto cromatico simile ad una tela di Pollock, grazie alla lingua drammaturgica e alla scrittura scenica adottata dalla sapiente regia. I suoni della babelicante phonè moscatiana -intessuta di filastrocche, canzoni, motti, italiano, napoletano, tedesco, greco, cui si aggiungono pezzi di dialoghi tratti dal bellissimo film di Nanni Loy, “Le Quattro Giornate di Napoli” appunto - sono la perfetta metafora di quella rivolta cittadina, dove si rincorrono voci, grida, proclami, rumori, musiche, spari. Un coro tragico tra i vicoli di una città vivianea, che Moscato guida, direttamente sulla scena, come un puntuale direttore d’orchestra.
Lo spettacolo/evento vive di momenti, di attimi di magia, di suggestioni e turbamenti, che emergono grazie alla straordinaria potenza espressiva degli attori, ma anche alla perfetta e stilizzata architettura scenica, costruita ad arte da Mimmo Paladino. Qualche lungaggine nel telaio drammaturgico è, tuttavia, sorvolabile.
Bravi nel complesso i protagonisti, certo. Ma mi sia consentito citare, su tutti, la prova vigorosa di Gino Curcione, di un rigoroso Salvatore Cantalupo, quella intensa e malinconica, seppur spruzzata da accenti di ironia, del bravissimo Benedetto Casillo; e ancora, quella pregevole di una Cristina Donadio capace di regalare, con grande e personale sapienza attoriale, inquietudini e smarrimenti, cesellando un’interpretazione in bilico tra la stereotipia di una bambola/automa, sintesi della disumanità nazifascista, e la biblica crudeltà di Salomè. L’emozione più grande, però, la si vive vedendo in scena una delle colonne portanti del teatro napoletano: Antonio Casagrande. E, difatti, Moscato affida a lui, testimone umano, per questioni anagrafiche, di quegli eventi, ma soprattutto patrimonio di memoria teatrale, un finale dai toni sarcastici e solo apparentemente rassegnati:
« Adesso, ci vorrebbero i Tedeschi. Un’altra volta! […] Ma, oggi, in un paese e in un popolo totalmente istupiditi, indifferenti, egoisti, rassegnati, dovremmo fare il voto a qualche santo che risorgano e ritornino, i Tedeschi, a molestarci, offenderci, ferirci mortalmente, come prima e più di prima! Così, almeno, reagiremmo da cristiani, come facemmo allora».
In conclusione, “Napoli 43” è uno spettacolo che vuole e deve insegnarci qualcosa; che vuole e deve interrogarci sul nostro presente. Moscato, come di consuetudine, parla della sua Napoli e alla sua Napoli, ma –come spesso avviene nel teatro moscatiano- quel microcosmo cittadino può dilatarsi e assurgere a simbolo di ferite universali e umanissime. Del resto, come abbiamo sottolineato sin dall’inizio, la tirannide e il fascismo sono sempre in agguato, nascosti nel buio e pronti a colpire. Oggi poi, più che mai!