Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

martedì 14 gennaio 2014

LA FARSA REFERENDARIA DI UN MOVIMENTO AUTOCRATICO E DALLE PREOCCUPANTI TENDENZE XENOFOBE




Con ventiquattromila voti, felici passano le Leggi. Mi verrebbe da dire, parafrasando Celentano. L’ironia, però, poco mi sembra attagliarsi ad una vicenda seria, come quella che riguarda l’infame reato d’immigrazione clandestina e le ignominiose modalità, con cui la sua eventuale abrogazione è stata gestita dal movimento penta stellato.
Molti di quelli che conosco, simpatizzanti, elettori, attivisti del movimento, oggi diranno, ipocritamente aggiungo, che la democrazia in rete ha trionfato. Quale democrazia, mi domando? Una democrazia-farsa, mi sia consentito dirlo, se un partito da 8 milioni di voti decide di risolvere una questione –l’abolizione del vergognoso reato di clandestinità, appunto- tanto spinosa e angosciante dal punto di vista sociale, economico, politico, culturale e principalmente umano, con una consultazione organizzata a sorpresa e senza un briciolo di discussione interna. Ha ragione da vendere il senatore Campanella, convinto che il web venga ormai usato come «un’arma per gestire la vita di più di 150 parlamentari» e chiudendo con un invito tassativo: «Togliamo quella pistola a Casaleggio!». D’altronde Grillo, al termine della consultazione, si è subito affrettato a dichiarare: «Con l’abrogazione si mantiene comunque il procedimento amministrativo di espulsione, che sanziona coloro che violano le norme sull’ingresso e il soggiorno nello Stato». Come dire: chi se ne frega dei 366 morti di Lampedusa, del 3 ottobre; chi se ne frega delle angosce, delle violenze, delle vessazioni che queste persone –e già, perché di persone si tratta- sono costrette a patire in patria, durante il viaggio e una volta giunti –se e quando ci riescono- sulle nostre coste, accolti in quelle infami strutture-lager che sono i CIE. E chi se ne frega anche della compassione e dell’umano sentimento di solidarietà, che anima coloro i quali, quei naufraghi, in genere aiutano e raccolgono, rischiando di venire accusati di complicità e di finire addirittura in galera. Voi votate, ma tanto le decisioni reali si prendono altrove. E stiamo pur certi che, di quel processo decisionale, Grillo e Casaleggio faranno e fanno parte. Comunque, la maggioranza ha, per il momento, votato per l’abrogazione della Bossi-Fini e quindi i 5S, in aula, dovrebbero, a meno di sorprese, esprimersi in tal senso. Staremo a vedere gli sviluppi.
Veniamo ora, però, al merito della questione, che riguarda la consultazione indetta da Grillo sul suo blog. Le considerazioni da fare sono, a questo punto, tre. La prima: la modalità a sorpresa con cui il Gatto e la Volpe hanno promosso questo pseudo referendum è indicativa di come, a dispetto della tanto sbandierata democrazia diretta, affidata alla rete, Grillo e Casaleggio, in buona sostanza, pilotino e guidino, d’imperio, il movimento. La loro speranza, infatti, era proprio che votasse un numero esiguo di cittadini e rappresentanti istituzionali: sembra che alcuni deputati e senatori non abbiano neanche ricevuto l’avviso della votazione, organizzata in fretta e furia e con molta approssimazione. Al tandem, questa volta, è andata male, ma quello che è accaduto ed il risultato conseguito sono, comunque, la rappresentazione plastica della poca democrazia che connota il movimento. La seconda, diretta conseguenza della prima: pochi hanno il coraggio di andare contro le decisioni e l’impostazione ideologica, populista e tendenzialmente di destra, data da Casaleggio e Grillo. La causa del fatto che abbia votato appena il 25% degli aventi diritto, infatti, oltre a dipendere dalla voluta disorganizzazione che ha caratterizzato il referendum, credo vada ricercata proprio nel timore di esprimersi contro quell’impostazione. Infine, la terza: come ho più volte sottolineato, il Movimento 5 stelle è attraversato, in buona parte, da forti pulsioni xenofobe, demagogiche e fascistoidi, che costituiscono, poi, la cultura di fondo con cui è impastato questo nostro misero paese e della quale il grillismo non è altro che l’ennesima, sconfortante incarnazione. D’altra parte, per capire bene lo spirito che anima il Gatto e la Volpe, basterebbe leggere il loro libro “Il grillo canta sempre al tra­monto” nel quale, questi due sinceri democratici, sciorinano una serie di luo­ghi comuni rea­zio­nari, del tutto simili a quelli sbandierati dalla Lega o dalla destra razzista e fascista. Ha ragione Alessandro Dal Lago, stamattina, sul Manifesto: «Nel video Gaia, pro­dotto da Casa­leg­gio e Asso­ciati qual­che anno fa, si pre­vede, tra il serio e il faceto, che tra una tren­tina d’anni saranno indetti refe­ren­dum, su scala glo­bale, su temi come la pena di morte. Ven­gono i bri­vidi a pen­sare come potrebbe andare. Soprat­tutto per­ché, nella visione di Casa­leg­gio e Grillo, i refe­ren­dum non hanno biso­gno di quo­rum. Insomma, chi par­te­cipa ha il diritto di deci­dere per tutti…». Questa è la Democrazia del futuro. Venghino siori, venghino!

sabato 11 gennaio 2014

L'IMPERIALISMO DELLE MULTINAZIONALI: SENZA IPOCRISIE, L’ATTUALITÀ DELL’ ANALISI CONTENUTA NELLA RISOLUZIONE STRATEGICA DELLE BRIGATE ROSSE, ELABORATA NEL 1978

Era il 1978. LA RISOLUZIONE DELLA DIREZIONE STRATEGICA
DELLE BRIGATE ROSSE conteneva un’analisi: “L’imperialismo delle multinazionali”, che ripropongo qui sotto.
Quell’analisi, se era corretta e lucida allora, lo è tanto più oggi che, a 36 anni di distanza, il fascismo finanziario sta portando a compimento il suo disegno, egemonico e criminale, di una società antidemocratica, iniqua, ineguale ed elitaria, all’interno della quale gli individui ed i popoli contano solo in quanto consumatori o merce, quando non siano addirittura ridotti in condizioni di vera e propria schiavitù, costretti in un gioco tra mercanti, avvilente e disumanizzante.
Dalla seconda metà degli anni ‘80, infatti, abbiamo assistito alla progressiva finanziarizzazione globale dell’economia capitalistica –la creazione delle banche d’affari assolve appunto a questo preciso compito- ad una sempre più schiacciante supremazia dei monopoli, all’interno degli andamenti del cosiddetto libero mercato, all’arretramento sostanziale, quando non ad un vero e proprio azzeramento –come in Italia- delle forze comuniste sul terreno del conflitto sociale, allo scellerato utilizzo della guerra, come strumento di tutela di interessi neocolonialistici, e ad un crescente, se non definitivo, assoggettamento della politica agli interessi delle lobby finanziarie e della borghesia imperialista. Vassallaggio che sta producendo, come logiche ed inesorabili conseguenze, lo smantellamento graduale del welfare, la cancellazione dei diritti dei lavoratori, la pratica della privatizzazione selvaggia, l’accrescimento delle già consistenti disuguaglianze tra ricchi e poveri e, in ultima istanza, la cessione di una cospicua fetta di sovranità nazionale, da parte degli stati, a favore di organismi di controllo -economico, monetario e politico- sovranazionali: FMI, Banca Mondiale, BCE, UE.
Inoltre, conseguentemente all’espansione del processo di globalizzazione, abbiamo visto estendersi il dominio delle multinazionali, dal più ampio rapporto di classe al più specifico, inquietante, subdolo e devastante rapporto inter e intrasoggettivo, principalmente attraverso la creazione, l’imposizione e la diffusione capillare di un pensiero unico e omologante, di matrice neoliberista e mercatista. Ciò si è reso possibile, con ogni evidenza, grazie ad un uso sapiente e pilotato della stampa e alla creazione di nuove corporation, operanti in settori strategici, come quelli appunto dell’informazione –specie televisiva- della cultura, svilita a ruolo di semplice intrattenimento, e dell’informatica, settore dove, negli ultimi anni, hanno trionfato multinazionali del calibro di Microsoft, IBM, Apple, Google, Yahoo, Facebook, capaci di porre in essere –malgrado i pur non sottovalutabili aspetti positivi dei nuovi strumenti di comunicazione- una vera e propria mutazione antropologica delle dinamiche relazionali, alterandone e deviandone il nucleo emozionale in un senso sempre più autoreferenziale, egoistico e si potrebbe dire spettacolarizzato, fino a sgretolare quella solidarietà, quel patto di mutua assistenza tra i membri di una società che, specie nei momenti di crisi, dovrebbe condurre un popolo ad unirsi contro la comune tirannia, fino all’estremo atto rivoluzionario: personalmente, infatti, credo poco alle rivoluzioni nate sul web. In buona sostanza, dunque, viviamo un’epoca in cui, per dirla con Debord: «Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta, nella sua pienezza, l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale».
Ancora in quel lontano 1978, solo il fragile scudo della rivoluzione separava una generazione dall’integrazione nello spettacolo. Quel feticcio, oggi, sembra invece irrevocabilmente caduto, cancellato dal potere della stessa società spettacolare. La rivoluzione è morta mentre lo spettacolo è diventato l’episteme del nostro tempo ed ha vinto perché è in grado di assorbire qualsiasi forma di opposizione, facendola propria: non possono esserci, in pratica, spettacoli contro.
Molti compagni –beninteso, non solo le B.R.- tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’80, adoperando diverse metodologie di lotta -giuste o sbagliate che fossero, non m’interessa fare qui una simile valutazione perché non m’ interessano, l’ho già detto altre volte, i giudizi ipocriti, moralisti, tipicamente conformisti, da benpensanti pacifisti, borghesi o piccolo borghesi, di destra e di sinistra- e intuendo quale angosciante scenario si preparasse, hanno provato a spezzarle, quelle catene che pretendono di vincolare la vita umana ai soli valori del denaro, del business e, insomma, dello spettacolo. Anche a prezzo della loro stessa vita. Di questo, dovremmo prendere semplicemente atto, oggi che, con ineguagliabile spietatezza, i padroni stanno conducendo un’offensiva di classe senza precedenti, a meno di non riferirsi a parametri ottocenteschi. E dovremmo prenderne atto perché solo a noi è affidato il compito di ridestare, nelle nostre coscienze, la convinzione che una società e un mondo diversi siano possibili, unicamente riappropriandoci del valore della nostra lotta, della nostra Lotta di Classe e, attraverso essa, tentare di scardinare, con ogni mezzo e a qualunque costo, un sistema che punta al nostro annichilimento morale e alla nostra disintegrazione, come soggetti e come comunità.
Diceva Che Guevara: «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati». Un pensiero che, di questi tempi, potrebbe suonare come un appello per qualcuno ed un monito per altri!
VINCENZO MORVILLO

 

L'IMPERIALISMO DELLE MULTINAZIONALI

«Per IMPERIALISMO DELLE MULTINAZIONALI intendiamo la fase dell'imperialismo in cui domina il capitale monopolistico multinazionale.
Il monopolio multiproduttivo-multinazionale, cioè grandi trust, con aziende in vari paesi e investimenti in diversi settori, è ora l'elemento strutturale dominante; e la base fondamentale dei movimenti del capitale non è più, quindi, l'area nazionale, bensì l'area capitalistica nel suo complesso. Se l'elemento costitutivo fondamentale dell'imperialismo è stato, sin dal suo sorgere, il capitale monopolistico, è però solo con la seconda guerra mondiale che si ha il definitivo affermarsi, in tutta l'area capitalistica, del capitale monopolistico multinazionale. I grandi gruppi monopolistici possono ora superare definitivamente i loro confini nazionali per spaziare liberamente su tutta l'area e la struttura multinazionale diviene fattore necessario ed indispensabile per ogni ulteriore sviluppo. E' infatti grazie ad essa che si possono sfruttare pienamente i diversi saggi di profitto presenti nell'area e realizzare così quegli enormi sovraprofitti che sono il dato caratteristico dell'accumulazione nella fase imperialista.
La "multinazionalità" quindi non è semplicemente internazionalizzazione del mercato capitalistico, ma internazionalizzazione del capitale nella sua totalità: strutture produttive, mercato, rapporti di proprietà ecc. Questo processo di internazionalizzazione del capitale determina, all'interno del fronte borghese, la dominanza della BORGHESIA IMPERIALISTA, espressione di classe del capitale monopolistico multinazionale e parallelamente al suo affermarsi vanno consolidandosi anche i suoi strumenti istituzionali di mediazione e di dominio (Trilateral, Stato Imperialista delle Multinazionali, FMI, CEE, ...). Dominanza del capitale multinazionale e della borghesi a imperialista, non significa però che ogni capitale è in questa fase un capitale multinazionale, ma che ogni altra forma capitalistica, sia essa nazionale o non monopolistica, va ora analizzata nei suoi rapporti di dipendenza organica dal capitale multinazionale: sono i movimenti del capitale multinazionale che determinano in ultima istanza i movimenti di tutti gli altri capitali. Non si ha quindi il superamento delle contraddizioni all'interno del fronte borghese, ma il loro riproporsi sotto forme diverse: ora la contraddizione intercapitalistica principale non è più tra capitali nazionali (quindi tra aree nazionali e borghesie nazionali), ma tra grandi gruppi multinazionali (quindi percorrono verticalmente la borghesia imperialista). Con questo non si vuol negare l'esistenza anche di contraddizioni tra le varie "nazioni" capitalistiche o tra capitale monopolistico e capitale non monopolistico, ma pensiamo che queste contraddizioni siano essenzialmente il riflesso di contraddizioni ben più profonde tra gruppi multinazionali. Le varie aree nazionali infatti sopravvivono ora come retroterra delle multinazionali: per ogni multinazionale, l'area nazionale in cui è nata e si è sviluppata diventa il suo "punto di forza", la zona in cui essa gode di un monopolio quasi incontrastato. Quando parliamo di multinazionali infatti sottintendiamo sempre "multinazionali con polo nazionale", e per questo usiamo le espressioni, a prima vista contraddittorie, "multinazionali americane, tedesche, ecc.". Il capitale non monopolistico, dipendendo organicamente da quello monopolistico, vive certamente con esso in unità contraddittoria, ma non può avere ovviamente la possibilità e la forza materiale di dar luogo ad una espressione politica di queste contraddizioni sotto forma di rottura del fronte imperialista. L'imperialismo delle multinazionali si presenta perciò come un sistema di dominio globale in cui i vari "capitalismi nazionali" sono semplicemente sue articolazioni organiche, e le diverse "aree nazionali" sussistono come espressione geografica della divisione internazionale del lavoro da esso determinata. Possiamo quindi trarre una prima considerazione. In ogni area nazionale il proletariato non si trova a fare i conti con la sua "borghesia nazionale" ma con l'articolazione locale della borghesia imperialista. Questo conferisce, anche, nelle metropoli, alla lotta di classe del proletariato il carattere di lotta antimperialista e quindi, più in generale, di GUERRA DI CLASSE RIVOLUZIONARIA. Nelle metropoli è immediatamente anche GUERRA DI LIBERAZIONE ANTIMPERIALISTICA, GUERRA DI LUNGA DURATA.
La catena imperialista resta comunque caratterizzata, come abbiamo visto, dal suo sviluppo ineguale, che si manifesta in ogni suo anello attraverso la specificità della sua formazione economico sociale (rapporto tra capitale multinazionale dominante e capitale multinazionale del "polo", fra capitale monopolistico e non monopolistico, tra borghesia imperialista "interna" e proletariato) per cui la lotta di classe, pur in questa sua omogeneità strategica di contenuto e di prospettiva, si presenta ancora con forme benefiche e tempi propri a seconda delle diverse aree nazionali».

giovedì 19 dicembre 2013

BUON NATALE...





In un paese sempre più povero, con sempre più disoccupati, i cui i giovani, guardando al futuro, sentono il terrore di chi vive senza sogni e senza passione; in un paese i cui operai e la cui classe lavoratrice perdono posti di lavoro e, con essi, la propria dignità; in un paese i cui i vecchi si suicidano perché, al tramonto della vita, le pensioni da fame sono umilianti e non consentono di mettere insieme il pranzo con la cena; in un questo paese, cosa ci sia da festeggiare io non lo capisco. 
In un paese masticato e sputato dalle avide bocche dei padroni, massacrato e preso a calci dallo stato borghese; in un paese mortificato, nella sua umanità, da un razzismo sempre più trionfante e dal sempre crescente disprezzo per le donne, di cui lo stupro, le botte e l’assassinio non sono altro che il frutto marcio di una misoginia culturale, sempre più radicale, e dell’impotente machismo italiota che, invece di scopare, si masturba su youporn e poi, nell’ alienata auto contemplazione e autocelebrazione del suo membro, si vanta di essersi portato a letto mille donne; in questo paese, cosa ci sia da festeggiare, sinceramente non lo capisco.
In un paese che ha svenduto la sua intelligenza e il suo patrimonio d’arte e cultura al mercato delle vacche; in un paese fagocitato dalle fiction sui preti, i carabinieri, la polizia, i nonni e i santi, dagli Xfactor e dai Grandi Fratelli; in un paese narcotizzato dall’entropia dilagante dei talk show politici e inebetito da tette e culi al vento, arrapato dall’accavallo della Brambilla o dal racconto cronachistico delle saffiche avventure, in ambigue vesti monacali, dell’igienista dentale Nicole Minetti: un nome, per i napoletani, che è un dolce presagio; in un paese decerebrato dalle insulse chiacchiere di un comico, la cui unica politica è il vaffanculo tattico, sessualmente affine al qualunquismo strategico, dunque ben lieto di offrire le terga degli italiani al nuovo neofascismo marciante su Roma; in un paese come questo, cosa ci sia da festeggiare continuo a non capirlo.
Nel paese del PD del Caimano del Grillo parlante del neofascista razzista Salvini dell’Asinello e dell’Ulivo, del nipote Letta del nano Brunetta di mortadella Prodi dell’infido D’Alema e dei nauseanti telefonisti alla Vendola, di re Giorgio del Celeste del bimbominchia Renzi della resuscitata DC degli zombie e della mafia, del lungo chiomato e inquietante guru Casaleggio, dei Forconi di Casapound di Forza Nuova...e anche nel paese degli pseudo rivoluzionari comunisti da tastiera, me per primo; insomma, in un paese la cui realtà allucinata sembra sospesa tra una fiaba dei fratelli Grimm, il Teatro dell’Assurdo beckettiano, un racconto di Poe e un film di Cronenberg, il tutto condito da massicce dosi di mescalina, cosa ci sia da festeggiare, non lo capisco e mi rifiuto di capirlo.
Questo paese, il mio paese, il paese nato dalla Resistenza, dalla Lotta Partigiana e Comunista al nazifascismo, il paese in cui furono più accese, dure e commoventi le lotte operaie e studentesche che, tra gli anni ‘60 e l’inizio degli ‘80, fecero tremare i padroni e sognare il proletariato e la classe operaia e lavoratrice; il paese delle avanguardie rosse e rivoluzionarie, giuste o sbagliate non m’ interessa perché non m’ interessano i giudizi manichei su bene e male, giusto o sbagliato, quando ci si sente in guerra con uno stato che ti terrorizza, ti ricatta e ti umilia, sempre schierandosi con i forti e mai con i deboli; questo paese, dunque, il mio paese, apre sempre più le sue vecchie cosce, maleodoranti di incenso clericale, di antiche nostalgie baronali, di ipocrisia piccolo borghese e di patriarcale dominio, al fascismo. Il fascismo fu ed è tensione desiderante mai sopita, nell’Italia della maggioranza silenziosa e moderata, pretesca e benpensante, demagogica e caciarona, che si affida alla Provvidenza e al Così Sia. In un paese in tali condizioni, cosa dovrei dunque festeggiare?
E nel mondo votato all’egolatria, dominato dal puro interesse personale e dalla cultura mercantile del business e del denaro; nel mondo lordato dalle sporche guerre imperialiste, fatte per il petrolio, il gas, lo sfruttamento delle risorse, appartenenti a nazioni e popoli che non possono e non potranno mai usufruirne; nel mondo dove si compra e si vende carne umana; nel mondo dove si commerciano bambini, e c’è chi paga per stuprarli o venderne gli organi al mercato globale e al miglior offerente; nel mondo dove Israele, immemore dei suoi figli massacrati dai nazisti, ripropone, quotidianamente, lo stesso massacro sui figli di Palestina, nel silenzio omertoso di gran parte del pianeta, specie della parte occidentale; in questo mondo dico ancora: cosa festeggiamo, cosa festeggiate?
In un mondo dominato dal Capitale e dal fascismo finanziario delle multinazionali e delle banche; in un mondo omologato e incasellato –l’Americalatina è splendida eccezione- nel trionfo disumanizzante del pensiero neoliberista; in un mondo, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, alla faccia di tutti i Natali colmi di speranza e di bontà, venuti e a venire; in un mondo così, vi chiedo: cosa festeggiate?
Per quel che mi riguarda, in questo paese/mondo infetto e reazionario, volgare e pornografico nella sua avida sete di dominio, sono un disadattato. Peggio: un comunista, con tendenze anarcoidi, che ama ubriacarsi, scrivere e scopare.
E allora mi dite che cazzo dovrei festeggiare, se sono pure ateo?



mercoledì 11 dicembre 2013

A CINQUANTACINQUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE, CUBA È ANCORA UN MODELLO PER I PAESI DELL’AMERICALATINA, IN MARCIA PER LA COSTRUZIONE DEL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO. NONOSTANTE L’EMBARGO OCCIDENTALE E I L TERRORISMO DI MATRICE USA. NON BASTA UNA STRETTA DI MANO, PRESIDENTE OBAMA

Quella notte del 1° gennaio 1959, in cui Fulgencio Batista, il dittatore che governava Cuba con la complicità della mafia italo-americana, fuggì a Santo Domingo con un aereo carico di dollari, nessun politologo o editorialista Usa si azzardò a presagire che il movimento di liberazione di Fidel Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos, che era riuscito a cacciare l’ex sergente sadico e torturatore, avrebbe guidato, per decenni, l’isola dei Caraibi, da sempre la più ambita dagli Stati Uniti. D’altronde, storici e critici di Cuba, di ieri e di oggi, sono stati sempre smentiti dagli eventi: dall’insuccesso patito dai controrivoluzionari, appoggiati dalla Cia, nel tentativo di sbarco nella Baia dei Porci, al collasso del comunismo Est-europeo, che non si portò dietro quello della rivoluzione cubana; dalla drammatica stagione del periodo especial -quando Cuba, negli anni ’90, perse i partner commerciali del mondo comunista, ormai in dissoluzione, e rischiò la fame ma sopravisse- all’infermità di Fidel Castro, che pose l’interrogativo di sempre: che ne sarà della Revolución dopo di lui?
Cuba, dunque, non si è persa. è sempre lì, e festeggerà, tra poco, i 55 anni della Rivoluzione, nonostante i governi di Washington, succedutisi negli anni –non fa eccezione quello di Obama, che pure oggi ha stretto la mano di Raul Castro- continuino a tenere in stato d’assedio politico l’isola più vasta dei Caraibi, colpevole, in definitiva, solo di aver rifiutato, ad un certo momento della propria storia, il credo indiscutibile del capitalismo e del liberismo, e di essere scampata, finora, alle conseguenze di questo azzardo.
Diciamo la verità: è già incredibile che Cuba, autonoma, indipendente e socialista, ancora esista dopo anni di ostilità della più poderosa potenza del mondo, segnati da tentativi incessanti di destabilizzazione politica e da atti terroristici impuniti, preparati in Florida e New Jersey, e compiuti nell’isola, con la copertura della Cia e nel completo disinteresse delle cosiddette democrazie occidentali. È addirittura singolare, poi, che la resistenza di Cuba sia diventata un esempio in America latina, un continente per anni martoriato dal famigerato Piano Condor: un progetto di annientamento di ogni opposizione progressista, voluto dal presidente Nixon e dal segretario di stato Kissinger, negli anni ’70.
La Revolución, quindi, pur non esente da errori, contraddizioni e illiberalità, festeggerà più di mezzo secolo di sopravvivenza. E lo farà potendo vantare la più bassa mortalità infantile dell’intero continente americano, la più alta media di vita del Sudamerica, un sistema sanitario esemplare. Ma questo, ovviamente, i media occidentali si guardano bene dal sottolinearlo. E come potrebbero mai farlo, soprattutto oggi che la Revolución sente anche l’orgoglio di aver influenzato il riscatto e le scelte di progresso, messesi in atto, negli ultimi anni, in America latina? Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Paraguay e Uruguay, guardano a Cuba come un modello da imitare, in quello che è il processo verso la costruzione del Socialismo del XXI secolo.
Circa un anno fa, durante la festa di Liberazione tenuta dal PRC a Napoli, il console venezuelano mi diceva: «Senza la resistenza di Cuba e il sacrificio di tanti Che Guevara, questo vento di autonomia e democrazia non sarebbe ancora soffiato in America latina». In tal senso, fa rabbia vedere gran parte della sinistra italiana, assolutamente incapace di capire cosa stia accadendo in America latina. Come dice Tomas Gutierres Alea, regista cubano di Memorie del sottosviluppo, oltre che di Fragola e cioccolata e Guantanamera: «Cosa ha fatto la sinistra italiana o europea per pretendere di insegnarci quello che dobbiamo fare? Noi la rivoluzione l’abbiamo fatta. E voi?». Come dargli torto? Noi, in Italia, abbiamo Grillo che addirittura vorrebbe cancellarlo, il termine socialismo, e con esso tutto il portato di glorioso passato che rappresenta. Ricorderei, a Grillo e ai suoi, che il Socialismo non va confuso con il craxismo e lo scempio che quella vergognosa pratica politica ha compiuto di quella storia. Ma tant’ è: questa è l’Italietta, con la sua ignoranza e il suo retaggio qualunquista, demagogico, cattofascista, votata all’uomo della provvidenza di turno.
Tornando a Cuba e al terrorismo di matrice statunitense, invece, la realtà è che le notizie che denunciano le strategie imbarazzanti degli Usa in America latina non trovano posto nella comunicazione delle cosiddette democrazie occidentali. Solo nel 2007, per esempio, Washington, per favorire un cambio politico, rapido e drastico nell’isola, ha stanziato, per l’operazione Cuba Libre -un ulteriore progetto di destabilizzazione dell’isola con il lancio di una vera e propria strategia della tensione- 140 milioni di dollari, di cui 60 del Congresso e 80 prelevati dalla disponibilità personale del presidente; e nel 2008, nonostante l’esplosione della crisi finanziaria, i contribuenti nord-americani hanno dovuto sborsare, senza essere consultati, 45 milioni di dollari per lo stesso obiettivo. Un’operazione azzardata, diventata pubblica grazie a una lettera aperta di James D. Cockroft, docente all’università di Stanford e studioso della politica estera e della “storia occulta” degli Stati uniti. Michael Parmly, responsabile dell’ufficio di interessi Usa a L’Avana, aveva facilitato trasferimenti di denaro a Martha Beatriz Roque, fino a poco tempo fa indicata come una leader dei dissidenti cubani. Il denaro, oltretutto, proveniva da una fondazione diretta dal noto terrorista, Santiago Alvarez, attualmente in carcere a Miami, dovendo scontare una condanna perché scoperto in possesso di un enorme arsenale di armi. Quella Santa Barbara – ha sostenuto Alvarez – doveva servire per attacchi contro Cuba. 
Ebbene, com’è stato possibile allora, per la Revolución, durare 55 anni in questo contesto? Bernardo Valli, che in gioventù la visse e la raccontò, affermava tempo fa su La Repubblica che, a questa domanda, molti cubani sorridono, alzano gli occhi al cielo e citano alla rinfusa tanti motivi: il carisma di Fidel, il sostegno dei campesinos emancipati dalla rivoluzione, le rimesse degli esuli cubani negli Usa e i Comitati di difesa della rivoluzione. 
Valli, alla fine, indica però questi ultimi come la vera macchina della sopravvivenza del paese: l’igiene, la sicurezza, la disciplina rivoluzionaria, la lista delle persone segnalate come «asociali», le dispute familiari, la prevenzione degli uragani e perfino la sorveglianza della frequenza scolastica dei minori.
Io penso invece che abbia ragione Alfonso Sastre, il prestigioso drammaturgo spagnolo, quando afferma che Cuba ha resistito, pur con tutte le sue contraddizioni, per aver saputo creare, fra la gente, una coscienza collettiva e solidaristica. Una coscienza che è passata sopra i contrasti e gli errori, e resiste nel tempo. Auguri Cuba. Auguri compagno Fidel!





lunedì 9 dicembre 2013

LA SANTIFICAZIONE BORGHESE DI MANDELA

Nel delirio celebrativo per la santificazione “borghese” di Mandela -rito sacrificale di un corpo e di un’idea, fagocitati dalle voraci mascelle della spettacolarizzazione globalizzata e livellatrice- bisognerebbe ricordarsi un paio di cose fondamentali:
Madiba creò il braccio armato dell'ANC, sostenne fermamente la lotta armata della maggioranza nera contro la minoranza, fascista e tirannica, dei bianchi, e così, en passant, era Comunista! E' da molti soprannominato, infatti, il Che Guevara del continente nero. Tanto che i governi occidentali, a cominciare, ovviamente, da quelli di USA, Inghilterra e Francia, nonché le lobby finanziarie, che avevano forti interessi economici in Sud Africa e nell'Africa in generale -e che, in quegli anni di guerra fredda, sostenevano il governo segregazionista di Pretoria, nel più ampio dispiegamento di una lotta senza frontiere al comunismo- lo accusarono di terrorismo.
Ora, invece, non solo si affannano tutti a commemorarlo -a La Scala, è stato vomitevole vedere la ricca borghesia meneghina, tradizionalmente di destra, che fino a qualche anno fa lo avrebbe visto volentieri morto, alzarsi per il minuto di silenzio- ma, mistificandone la figura di uomo di parte e di combattente, tramite la propaganda portata avanti da stampa e televisioni -che alle lobby suddette sono inginocchiate- vorrebbero proporne un'ipocrita evangelizzazione in salsa pacifista. Una VERGOGNA. Ma queste sono le conseguenze del mondo globalizzato, iconico, spettacolarizzato e interclassista....Tanto per chiarire.
CHE LA TERRA TI SIA LIEVE, COMPAGNO MADIBA

BREVE CONSIDERAZIONE SUL CONGRESSO DEL PRC




Ho seguito il congresso del mio partito, Rifondazione, in streaming e la spaccatura, tra chi sostiene l'assoluta autosufficienza del PRC e chi invece promuove un dialogo con le altre forze di sinistra -che non significa, specifichiamolo, alleantismo o subordinazione: Grassi, Burgio, Steri, su questo sono stati chiari, sostenendo anche la necessità di dialogo con chi sta alla nostra sinistra e con i movimenti, nella misura in cui, certo, si riesca a presentarsi come punto di riferimento, non certo nell'ottica, improponibile in questo momento, di egemonizzazione culturale- è netta. Però, tra i sostenitori del doc 1, senza emendamenti, ci sono stati interventi, come quelli di Maurizio Acerbo, Rosa Rinaldi, Fabio Amato, Dino Greco, che non precludevano, pregiudizialmente, il dialogo; e certo, non sostenevano l'isolamento nell'eburnea torre del purismo assoluto. Dal punto di vista degli interventi, il congresso è stato, diciamolo, interessante e, considerata la fase interlocutoria, per usare un eufemismo, in cui versa il PRC, si è volato, in molti casi, anche molto alto, su questioni inerenti i massimi sistemi. Il problema sta, appunto, in quelle che sono le questioni relative alla bassa cucina politica: personalismi, lotte intestine, alleanze strumentali ecc.
Su partito sociale, fronte antiliberista e anticapitalista, ripresa delle lotte, ruolo dei comunisti e riconsiderazione delle strategie sindacali, pur con i dovuti distinguo -vedi quanto è successo alla fine, con un emendamento proposto da Montalto, mi pare, e rigettato dalla commissione politica come ha spiegato Roberta Fantozzi- siamo tutti, più o meno, sulla stessa lunghezza d’onda. Il problema è che tutto ciò, in teoria, va bene, ma è nella prassi politica che deve trovare applicazione. E se non c'è un segretario, la dirigenza non si rinnova e, quindi, tutto si traduce in attendismo/immobilismo o peggio, in una linea politica confusionaria e pasticciata, dove ognuno fa un po' come cazzo gli pare -negli ultimi anni è stato pressappoco così- beh, non so come pretendiamo di aggregare consenso, specie tra quella che dovrebbe essere la nostra "classe" di riferimento: per inciso, già smarritasi, da tempo, in mille rivoli. Negli ultimi anni, ci sono state colpe di altri e colpe, gravi, di Rifondazione, questo va detto con franchezza. Il segretario uscente, Paolo Ferrero, parla di autosufficienza e poi, però, dall'alto si è calato il cartello elettorale di Rivoluzione Civile e lo si è sostenuto con enfasi. Avverto una schizofrenia politica e di pensiero in questo modus operandi.
Altro punto cardine, molto dibattuto, è stato quello della fusione col Pdci. Siamo tutti d'accordo che Diliberto e compagni abbiano sbagliato nel rendersi più volte disponibili ad un’ alleanza col PD, mentre noi abbiamo, fortunatamente aggiungo, praticato strade diverse. La questione sorge, tuttavia, quando si va a considerare quali siano state queste strade. E, onestamente, non mi pare abbiano prodotto i frutti sperati. Inoltre, sfiora quasi il ridicolo la presenza, in questo paese, non di due, ma di circa dieci partiti comunisti. Forze incapaci di trovare un accordo su quello che li unisce, invece di spaccarsi su differenze, spesso diciamolo, cavillose e di pretestuosa cultura politica. Il problema vero, lo sappiamo tutti e, cosa ancor più grave, lo percepisce il nostro elettorato, effettivo o potenziale, non verte tanto sulle diversità culturali, quanto sulle questioni personali che danno vita a faide interne, tra gruppi dirigenti e tra personalità pregne di un narcisismo, non certo sano per qualcuno che si richiama al comunismo, come idea fondante la propria etica, umana prima ancora che politica. Anche tra i comunisti, infatti, pare che, in questi anni, sia di moda il partito personale. Se si avesse veramente a cuore la classe operaia e lavoratrice, quindi, si troverebbe il modo di lottare insieme, anziché calcolare, manuale Cencelli alla mano, le percentuali all'interno dei comitati politici, nazionali e locali.
In conclusione, dunque, si abbia il coraggio di dirlo: o si fa politica, e la politica è anche confronto tra culture diverse, o si hanno le palle di andare in piazza, come avanguardia rivoluzionaria. Costi quel che costi. Io, su questo, posso anche essere d'accordo. Ma, forse, non è il momento giusto!

giovedì 5 dicembre 2013

GRILLO, LA CANCELLAZIONE DEI SINDACATI E IL SUPERAMENTO DEL SOCIALISMO.




«Voglio uno Stato con le palle. Eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti politici. Non c’è più bisogno dei sindacati. Le aziende devono essere di chi lavora». Questa, la brillante e non nuova idea di Beppe Grillo -una delle tante, sia ben chiaro- per risanare la disastrata condizione economica, politica, istituzionale, in cui versa il nostro paese. Ora, non sarò certo io a proporre una difesa d’ufficio della triplice CGIL-CISL-UIL, colpevole, negli ultimi anni, di vari scempi. Mi chiedo, però, quale sia l’obiettivo finale di Grillo e di buona parte dei suoi adepti che, evidentemente pervasi da un abissale e sconfortante vuoto culturale, gli vanno dietro, rinunciando -loro che sono sempre pronti a giudicare, disapprovare, censurare, stigmatizzare, demolire- a quel sano esercizio critico, che dovrebbe qualificare ogni intelligenza. Mi spiego. Una simile strategia, se attuata, non condurrebbe ad altro che all’affossamento definitivo della tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, nonché allo smembramento conclusivo dell’architrave costituzionale, in nome del quale gli stessi pentastellati pure dicono di battersi, non senza palesare, però, enormi contraddizioni. Non vanno dimenticate, infatti, solo per fare un esempio, le quantomeno ambigue dichiarazioni della portavoce alla camera, Roberta Lombardi, circa il fascismo buono e l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, dalla stessa definito, senza mezzi termini, «un’aberrazione». Lo vadano a dire, Grillo ed i suoi, agli operai con famiglia mono reddito e figli a carico, licenziati senza giusta causa o per strumentali ragioni di profitto! L’aberrazione, invece, credo stia proprio in quelle dichiarazioni, irrispettose delle condizioni offensive dell’umana dignità, in cui la crisi e le politiche recessive ultraliberiste, imposte dalle istituzioni politico-finanziarie, dai mercati e dai padroni, hanno spinto la classe operaia e lavoratrice, di questo paese ma non solo. Altro che storie. I Cinque Stelle, su tali questioni dirimenti, da che parte stanno? Difficile capirlo. Ad ascoltarli o a leggere il loro approssimativo programma, regna, nel movimento, il disorientamento culturale e politico più totale. In pratica, specie in materia di politica economica, industriale e del lavoro, il movimento sembra volere tutto e il contrario di tutto.
Ma non è per puro gusto di polemica che scrivo. Veniamo, quindi, al merito della questione. Personalmente, ritengo che il sindacato, con le sue strategie, vada senz’altro ripensato, non certo dismesso nella sua essenza ideologica, politica, sociale. Cosa intenda invece Grillo, quando afferma: «Le aziende devono essere di chi lavora», anche questo non è dato saperlo. Intende forse eliminare, sbrigativamente, la stessa idea fondante del sindacato: il conflitto Capitale-Lavoro? Ciò, non solo è inaccettabile ma, vorrei rilevarlo, una simile dichiarazione, pronunciata dal capo di un movimento essenzialmente interclassista e demagogico –la distinzione tra popolo e classe è sostanziale- e da uno che sull’immigrazione fa dichiarazioni di matrice squisitamente razzista –ius sanguinis invece dello ius soli- acquista un vago sapore corporativista e dunque, anche se solo confusamente, fascista! Se a questo si aggiunge, poi, la fervente retorica post-ideologica, per cui al termine socialista si attribuisce una connotazione negativa –ricollegandolo forse, esclusivamente chissà, al vergognoso passato craxiano- e si propone di sostituirlo, in un emendamento presentato addirittura in commissione cultura –ahimè, dopo Sgarbi ci mancavano i grillini- con la locuzione “cultura sociale”, senza considerare la valenza storica, filosofica, economica di quello stesso termine, allora il quadro che si viene delineando è sempre più squallido e cupo.
In tal senso, vorrei qui ricordare alcuni proclami di Edmondo Rossoni, nominato nel 1922 Segretario Generale della neonata Confederazione Nazionale delle Corporazioni Sindacali Fasciste, come pure le parole dello stesso Mussolini, che le affermazioni del leader a cinque stelle mi hanno evocato: «Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro e sostituire, al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore, ed all’altro, di padrone, la parola dirigente, che è più alta, più intellettuale, più grande»; «Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei»; «Sia il Capitale sia il Lavoro devono essere disciplinati. L’appetito all’infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista è per la collaborazione»; ed in fine, il duce stesso: «Chi dice lavoro dice borghesia produttiva e classi lavoratrici, della città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della nazione».
Proprio questa concezione armonizzatrice, corporativista appunto, noi la rigettiamo: in nome del conflitto tra padronato e classe operaia e lavoratrice, del conflitto Capitale-Lavoro, in una parola, della Lotta di Classe.
Certo, è vero: specie negli ultimi anni, la CGIL –parlo essenzialmente del sindacato che qui più mi interessa- conducendo la sua linea sull’asse, inaccettabile e disastroso, della concertazione, ha finito col proporre, in più occasioni, una strategia compatibilista con le scelte ultraliberiste dei recenti governi, accodandosi, tra l’altro, a quel PD che più nulla ha di un partito di sinistra. Anni durante i quali, da una parte il sindacato acquisiva potere, mentre dall’altra i lavoratori peggioravano le loro condizioni materiali di vita, fino a giungere ad un presente che vede la riduzione drastica del potere d’acquisto dei salari e, nei casi più drammatici, com’è noto, la cancellazione padronale e arbitraria di posti di lavoro, anche per motivi di appartenenza politico-sindacale. Comportamenti inaccettabili, senza alcun dubbio, che si stanno traducendo in una progressiva e implacabile pietra tombale sui diritti delle classi lavoratrici, conquistati in anni di durissime battaglie, non prive di sangue versato per le strade. Con il padronato, con questo padronato che delocalizza in nome del puro profitto, che affama gli operai e che sta attuando una macelleria sociale, senza confini e globalizzata, non si tratta. Si va, si deve andare allo scontro diretto, alzando il livello del conflitto sociale e riproponendo, con coraggio, la nostra Lotta di Classe.
La soluzione pertanto, a mio modesto avviso, può, anzi deve essere, quella di ripensare le strategie del sindacato, di rifondarne la struttura, riorganizzandola, come dice ad esempio Cremaschi «attorno alla sofferenza delle persone in carne de ossa, riconquistando e comunicando voglia di conflitto, cambiando strategia e pratica dopo più di venti anni di accettazione del liberismo e delle compatibilità». Insomma, la soluzione deve essere il rilancio di un serio sindacato di classe; non può certo essere la dismissione, invocata dal demagogo di turno, di una delle più grandi conquiste democratiche nella storia delle lotte per la difesa dei diritti dei lavoratori: in una parola, delle lotte tra oppressori e oppressi. Lotte e conquiste che, diciamolo a chiare lettere, vanno ascritte principalmente a quel movimento operaio di matrice marxista, socialista prima e comunista poi, la cui storia e memoria, oggi, Grillo vorrebbe superare, se non addirittura cancellare. Allora vorrei ricordare, infine, al buon Beppe e ai suoi militanti e attivisti, sempre troppo solerti, come dicevo prima, nell’accogliere pedissequamente le parole del loro capo carismatico, quelle scritte, sul Popolo d’Italia, da un altro sindacalista fascista, Enrico Corradini, nella speranza che all’interno del M5S –cui hanno aderito e dato voti non pochi compagni- su certi temi si apra un franco dibattito: «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell’opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti [...] Vi è fra socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica [...] Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell’opera socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua». Asserzioni su un ipotetico superamento delle idee socialiste e comuniste che, purtroppo, sento spesso affiorare anche sulla bocca di numerosi grillini, temo digiuni di conoscenza storica e privi di una visione politica prospettica, riguardo ad un simile smantellamento sul piano culturale, ancor prima che su quello politico.
Io da Comunista, e con me tanti altri compagni, a questo scempio post-ideologico, che rischia di mescolare, come già accaduto in un fosco passato, istanze e principi, offendendo la nostra memoria e appropriandosi, per giunta, della nostra cultura e azione politica, diciamo no. La nostra è, lo abbiamo dimostrato in quasi due secoli –a prescindere da quanto si affanni a sostenere oggi la squallida propaganda, al soldo del grande capitale finanziario o della ricca borghesia radical chic- una storia gloriosa di lotte per la Libertà, la Giustizia sociale, la Pace tra i popoli; pur nell’ottica rivoluzionaria di liberazione dalla tirannia e dall’oppressione esercitata dal più forte sul più debole, dal ricco sul povero. Una storia che ha visto il sacrificio di migliaia vite umane, immolatesi per quegli ideali. Una storia che, perciò, siamo decisi a difendere con tutte le nostre forze. Gli altri –nel caso specifico Grillo- invece di evocare, facendo pericolosamente leva sulla rabbia e l’insofferenza della gente, uno «Stato con le palle», dalle vaghe eco fascistizzanti, pensino a costruirsene una di storia, di cui essere, se possibile, altrettanto fieri!