Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

venerdì 28 agosto 2020

ESSERE TEMPO E RIVOLUZIONE


Leggo il libro di Barbara nei giorni della quarantena, causata dalla diffusione planetaria del Covid 19. Giorni di sgomento e di paura. Di rabbia e di forzata rassegnazione.

Quotidianità attraversate da dilatazioni e rallenty temporali. Auto percezioni allucinatorie da Pasto Nudo di Burroughs o distopici limbi esistenziali, come nel Mondo Nuovo di Huxley: quello della società fordista e della produzione seriale, per intenderci.

O anche, nella routine appiattita dei nostri pensieri, accelerazioni improvvise e inattese, che sembrano solcare un quadrante storico costruito in base alla meccanica dei quanti e al Principio di indeterminazione di Heisenberg. Riletto dall’ermetismo messianico delle Tesi di filosofia della Storia di Walter Benjamin.

Leggo, e non posso fare a meno di pensare che queste emozioni e sensazioni, questi spettri semantici della realtà –spettri da intendersi nella duplice connotazione di ambiti ed ombre- Barbara sa condensarli in una scrittura vaticinante. Al limite tra l’Apocalisse e la Salvezza.

Perché la sua scrittura -dalle cadenze allegoriche e magiche di L’ho sempre saputo alle istantanee concrete di questa Lettera a mio padre, intarsiate nella materica corporeità legno-gommosa di un albero salgadiano- ci parla del nostro presente e del nostro passato.

Una scrittura in cui risuonano le note di The End dei Doors e di Psyco Killer dei Talking Heads. Dell’amato De Andrè del Ballo Mascherato o di Quello che non ho, passando per La canzone del Maggio.

In cui, le terrificanti immagini pittoriche di un Francis Bacon, di un Hieronymus Bosch, di un Edvard Munch e di un Otto Dix, si alternano a quelle di un Diego Rivera, di un Jean-Michel Basquiat, di una Kara Walker o di un Banksy.

Quella di Barbara è una parola impastata di carne e di inconscio. Che lascia tuonare, tra gli spazi bianchi dei sintagmi, le voci di passate società, di organizzazioni sociali pre-capitaliste, di un’ umanità dall’intelligenza creativa e dalle mani sapienti. Gli echi simbolici di un’orda d’oro primitiva che, riunita intorno al pasto totemico, uccide il padre cibandosi del suo corpo. A imperitura memoria delle catene spezzate e a riscatto della libertà conquistata. Finalmente, in assenza del senso di colpa. E nell’aspirazione di una società di eguali e senza classi, dove la messa in comune dei beni non trova l’ostacolo del privilegio. Sia esso di censo, di casta, di razza o di genere.

Una parola che, pur sprofondata nella realtà fin dentro i condotti nasali, corrosi dalla mefitica aria irrespirabile, esalata dai gas di scarico e dai liquami dell’industria 4.0, quella stessa realtà è capace di reinterpretarla e reinventarla, svelandone le potenzialità rivoluzionarie. Nascoste tra le feritoie di una Storia mai convenzionalmente lineare o hegelianamente progressiva, ma sulla cui strada scoscesa si verificano impreviste e imprevedibili inversioni ad U.

Tra i corridoi di questo Tempo/Storia, impensabile secondo una rappresentazione monodimensionale e deterministica, ci si può imbattere in porte che si aprono su spazi liberati dai vincoli legali delle ore, segnate sull’orologio esclusivo dei padroni dell’esistenza.

Sulla superficie levigata di una natura oramai artificiosa, si può sprofondare in pur minuscoli crateri, all’interno dei quali scorre l’incandescente magma, ancora inesploso, di una generazione di vinti e di dannati, che si agita tra le viscere della terra.

Una scrittura e una parola profetiche, si diceva dunque, quelle di Barbara. Perché capaci di rivelare l’infezione letale di un virus che, prima ancora di prendere l’esotico nome di Corona, ha da sempre assunto quello funesto di Capitale. Oggi declinato nella sua lugubre e ancor più micidiale versione di neoliberismo.

Una messa a nudo di un sistema e dei suoi re, che hanno depredato risorse e desertificato terre, arroccati in fortezze che rischiano però di poggiare su macerie da loro stessi edificate.

Guerre, colonialismo, cementificazioni, grandi opere, trivellazioni, produzione high tech, sono le bocche fameliche del mercato borsistico e finanziario. Capace di fagocitare fette di terra sempre più grandi, di succhiare e insozzare fondali marini vergini, di triturare ossa e digerire carne umana alla velocità di una lugubre luce, rifratta dai grafici di un consiglio di amministrazione fino alla più lurida discarica della più remota megalopoli latinoamerica o africana.

Una scrittura e una parola che colpiscono, come i proiettili che fischiarono quel giorno in Via Fani, il corpo flaccido del capitale morente, e perciò stesso mai tanto avido di merce.

Ma anche una lingua teologicamente marxista e marxianamente teologica. Quasi ad inverare in sé e a far agire per sé l’eresia messianica di Benjamin e la filosofia della praxis dell’imprescindibile Marx. Seppur riconsiderato alla luce delle mutate condizioni storiche.

Una lingua quasi perduta, sottratta al dominio dei vincitori di ogni epoca, e di cui, come degli archeologi alla Jean François Champollion, siamo chiamati a decifrare i crittogrammi: comunismo comunitario, innocenza di un sapere condiviso, gli oppressi e la loro storia, sabotaggio, lotta, rivoluzione.

Crittogrammi che vanno ad insinuarsi sotto la pelle ingiallita –al pari delle pagine dei libri- dei compagni addormentati nel sonno di un conformismo ortodosso. O soffocati dalla talassica liquidità del presente, tra le cui increspature il pensiero debole del postmodernismo ha ridotto le idee/forza di un tempo a puerili rivendicazioni utopiche. Un sonno sul cui fondo, quelle parole infuocate riposano come dei sogni. Incapaci di tramutarsi nell’incubo reale dei padroni del mondo.

Non c’è più tempo ci dice Barbara. Nell’incedere vorticoso del progresso e della produzione purché sia, il tempo umano sembra sfuggirle e sfuggirci tra le dita. E il Tempo, insieme alla figura del papà perduto anni prima, sembra essere il protagonista di questo settimo sigillo della Balzerani. Di questa partita a scacchi tra Barbara/Odradek e la Morte.

Di questa elegia in forma di epistola al padre, che Barbara ha scritto intingendo la penna nel sangue raggrumato delle sue antiche ferite e strappando brandelli di carne e memoria alla sostanza cupa di un’anima vissuta a lungo nella cattività del sogno rivoluzionario, strappatole con la violenza di uno stupro padronale.

Nel procedere bipolare di queste pagine, che dalle feritoie aperte nelle tenebre tecnocratiche della realtà contemporanea lasciano filtrare lancinanti squarci di luce, provenienti dal passato e riverberati dai più remoti recessi del mondo, il Tempo e la Morte si fronteggiano e si sfidano. Si sfidano e si fronteggiano le generazioni dei dominatori e quelle degli oppressi. Si fronteggiano e si sfidano, con la tenerezza dell’amore filiale e la durezza dialettica di Antigone di fronte a Creonte, una figlia ed un padre. La coscienza ribelle di una giovane donna e la morale patriarcale che nulla può concedere al gesto sovversivo. Si sfidano e si fronteggiano la narrazione magica e quasi fiabesca di un mondo che si pretenderebbe immutabile, e la trama cocciuta di una realtà dura e in rapido, esplosivo divenire.

Per questo oserei dire che, in un ribaltamento delle categorie del pensiero heideggeriano, qui l’Esser-ci non è un esser-ci per la morte. Bensì è un Esser-ci per la Libertà. Un Essere per la Rivoluzione. Rivoluzionare il Tempo, lo Spazio, la Storia, il Passato. Solo così si potrà agire, fino alle estreme conseguenze rigeneratrici, la rivoluzione nella società contemporanea del «tempo veloce».

Lasciamo parlare Walter Benjamin, le cui Tesi di Filosofia della Storia intridono tutto il libro di Barbara: «la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la storia. Lo storicismo postula un’immagine eterna del passato, il materialista storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie energie con la meretrice “C'era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».

E Barbara, come Benjamin, ci dice di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare agli orologi. Di interrompere l’accumulo progressivo di futuro tramutatosi in accumulo sviluppista di produzione al presente. Altro che sviluppo delle forze produttive! Siamo ormai giunti nel regno dell’ombra di Mordor. Dominato da un bifronte Sauron-Rolex, Signore degli orologi. Il cui volto vorace assomiglia a quello di un Amministratore Delegato. Una Mordor neoliberista, dove macchine/orchi di odierni Talo hanno divorato la creatività umana del lavoro, trasformando gli stessi individui in alienati profili avatar, deprivati di spazio vitale. Macerie di corpi su macerie di corpi, nel segno dell’ideologia tempestosa del progresso. Solo nuovi angeli o nuovi barbari rivoluzionari potranno redimere il passato e riscattare le generazioni oppresse della Storia. è Marx stesso a dircelo, dopotutto.

E ancora, Tesi 11: «Il programma di Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come “la fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura". Allarmato, Marx ribatte “che l'uomo non possiede altra proprietà” che la sua forza-lavoro, "non puo' non essere lo schiavo degli altri uomini che si sono resi... proprietari". Ciononostante la confusione continua a diffondersi, e poco dopo Josef Dietzgen proclama: “Il lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel... miglioramento... del lavoro... consiste la ricchezza, che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto”. Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo. Fra cui c’è anche un concetto di natura che si allontana funestamente da quello delle utopie socialiste anteriori al ‘48. Il lavoro, come è ormai concepito, si risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto -con ingenuo compiacimento- a quello del proletariato».

A suo padre, che dei padroni e della fabbrica ha voluto fare a meno per tutta la vita, credendosi e sentendosi libero del suo tempo, Barbara rimprovera l’ingenua illusione di una fede nel progresso e nel lavoro che, malgrado tutto, avrebbe dovuto riscattare una povertà dignitosa ma fredda. Il costo sovrastimato dell’illusione portava però con sé una maggiorazione irricevibile per quella ragazza dai capelli lunghi e la gonna troppo corta. Il prezzo era una libertà non negoziabile. Per questo, in quegli anni, lei e tanti come lei hanno preso le armi. Per non negoziare la propria libertà. Una scelta che il papà non ha mai potuto comprendere. Ferendo la fanciullesca tenerezza di quei racconti favolosi che ipnotizzavano sua figlia. Unica vera evasione da un’ infanzia di stenti.

Ma oggi, dopo quarant’anni, non è solo l’operaio-massa ad aver ceduto la propria dignità al ricatto padronale. è la natura stessa -come scrive d’altronde Benjamin- a soccombere al ritmo martellante di una depredazione di risorse, come mai prima nella vicenda dei rapporti tra l’uomo e il suo habitat.

Il Capitale, quale unica teologia praticabile, ha squarciato il ventre della terra, ne ha mangiato il cuore, accecato gli occhi e avvelenato il sangue. Ha schiacciato culture e calpestato storie. Divorando ogni giorno sesso di neonato, in periferie dai paesaggi post atomici, situate ai margini di megalopoli abitate dagli zombie del neoliberismo imperante. Sorveglia, Punisci, Produci, Consuma, Muori. Imperativi assoluti di un mercato asettico e distante come il dio della Legge kafkiana. E' già Marx a parlarne ne Il Capitale ( Libro III), quando affronta, con la sua vaticinante lungimiranza, la questione della irreparabile frattura metabolica determinata dal Modello di Produzione Capitalistico.

E a me, mentre leggo senza respiro le parole di Barbara, non può non venirmi in mente, quasi fosse un rigurgito della memoria, la deflagrante poesia allucinatoria di “Quattro Zoas”, il poema in cui William Blake prefigurava tutti gli orrori di cui si sarebbe macchiata la mano dell’uomo, compresa la distruzione della Bellezza che le fabbriche -e quindi l’incipiente tecnologia- avrebbero generato. La portata profetica di quelle parole/immagini è sconcertante: «E tutte le arti della vita mutarono in arti di morte[…]Furono inventate ruote complicate. Ruota senza ruota per sconcertare la gioventù, per legare a fatiche di giorno e di notte le folle in eterno[…]chi deve spendere i giorni di saggezza in miseria contristata per ottenere uno scarso pasto[…]I palazzi nitidi si ammantano di orrore scuro e silenzioso, nascondendo i loro libri e i loro quadri nei covi sottoterra. Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà[…]I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue?[…]La tigre feroce deride la forma umana, il leone dileggia e vuol sangue. Gridano: O ragno spargi la tua tela![…]E pieno di carne sii esaltato![…]Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più». Parole tanto più crudeli e angosciose quanto più attuale si rivela la loro tragica verità. Una verità alla quale, oramai, tutti o quasi passivamente soggiacciamo, nell’indifferenza e nel silenzio colpevole. Una verità che il Covid 19 sembra volerci gridare ancora più forte.

Lettera a mio padre è, dunque, un finale di partita. Un finale di partita tra una figlia e un padre che vive nel suo ricordo e nella sua dolente nostalgia. Un finale di partita che si gioca tra una generazione rivoluzionaria e una generazione apparentemente rassegnata. Tra gli sconfitti di una rivoluzione mancata e il potere vittorioso e vindice di quello stato “democratico”, che li vorrebbe silenti o pentiti. Un finale di partita tra il passato e il futuro. Per la possibile intermediazione di un presente che potrebbe finalmente precipitare sul piano inclinato della Storia.

In Finale di Partita, a circa metà testo, Samuel Beckett, nel corso dell’apparentemente insensato ma emotivamente spietato e angoscioso dialogo tra i due protagonisti, (Hamm e Clov) scolpisce uno dei passaggi più inquietanti e pessimistici della drammaturgia del ‘900: «Clov (con angoscia, grattandosi): Ho una pulce. Hamm: Una pulce? Ci sono ancora delle pulci? Clov (grattandosi): A meno che non sia una piattola. Hamm (molto preoccupato): Ma a partire di lì l'umanità potrebbe ricostituirsi! Per amor del cielo, acchiappala!» E poco più avanti: «Clov: Non c'è più natura» .

Sembra il monito terrificante che sale come un urlo dalle pagine inquiete di questa Lettera a mio padre. Di tempo, del resto, ne è rimasto davvero poco. E, come scrive Barbara: «Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di un’altra storia, interamente umana».

Il tempo di prendere nelle nostre mani –noi oppressi, noi dannati, noi lavoratori, noi ultimi- il nostro destino, senza delegarlo a chicchessia. Riusciremo mai ad autogestirci in forme di comunismo realizzato?

Dopo quest’incubo, la sfida che ci dovremmo porre è questa. Nulla di meno. è il tempo di gettare un cacciavite nell’ingranaggio per incepparlo. Senza attendere altre pandemie o altri virus. A debito delle nostre vite lucrano il capitale e la morte. La rivoluzione è un atto d’amore. Siamo attesi!

Vincenzo Morvillo

lunedì 2 marzo 2020

ROLEX: LO STATUS-SIMBOL DELLA MORTE!





Sabato notte. Napoli è teatro dell'ennesimo, annichilente, folle episodio di violenza.

Violenza criminale, anche. Ma soprattutto, violenza figlia della distorsione umana ai tempi del dominio neoliberista.

Una distorsione che subordina la vita alla roba. L'esistere all'avere. La difesa della proprietà privata all'umanesimo della condivisione sociale.

Sabato notte, un ragazzino di 16 anni, Ugo Russo, che provava, armato di pistola giocattolo, a rubare un Rolex dal polso di un cittadino, è stato da questi freddato con una pistola vera.

Il cittadino in questione, si scopre, era un Carabiniere in borghese.

Questi, i fatti. Tra cui, chiaramente, si affollano inquietanti interrogativi e riflessioni.

La prima domanda che mi viene in mente è, come diamine faccia un Carabiniere, un proletario di pasoliniana memoria, con quello che guadagna, a comprarsi un Rolex? Considerando che il meno costoso, in acciaio, ha un prezzo non infetiore ai 1000€. Qui, però, pare che si tratti di un Rolex d'oro: prezzo di mercato ben superiore!

Ma potrebbe essere un regalo. E poi, non è certo questo il nodo della questione.

Devo confessare che è stato un primo impulso, dettato dalla mai celata, personale antipatia verso le divise, nei confronti della cui deontologia nutro anche un certo scetticismo, a suggerire e ad insinuare questo dubbio maligno.

Ma quel primo impulso, un po'superficiale, lascia immediatamente il posto a considerazioni di carattere più ampio e profondo. Vediamo.

Innanzitutto, il carabiniere -che ha dichiarato al Magistrato di essersi qualificato come tale- perché spara tre colpi ad altezza d'uomo? Perché ha in dosso una pistola se è fuori servizio?

L'ordinanza emanata nel 2017, dall'ineffabile corifeo della repressione sinistrese, il democratico Marco Minniti, che obbligherebbe le Forze dell'Ordine a girare armate anche fuori servizio, infatti, era da circoscrivere all'imminenza del pericolo terroristico, seguito al panico innescatosi dopo che, come si ricorderà, un camioncino bianco, il 17 agosto di tre anni fa (estate 2017), massacrò 15 persone, zigzagando nella folla lungo le Ramblas, a Barcellona.

Ma soprattutto, quello che lascia fin troppo perplessi, è la dichiarazione del ventitreenne rappresentante della Benemerita, che afferma di essersi spaventato perché il ragazzino gli puntava una pistola alla tempia, di cui aveva anche udito lo scarrellamento. Chiunque conosca un minimo le armi deduce, quindi, che il rapinatore aveva messo il colpo in canna. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: dove ha trovato, il Carabiniere, il coraggio leonino -neanche fosse Trinità- di estrarre la sua arma e di fare fuoco, con una canna puntata al viso?

Al giovane criminale sarebbe bastato toccare il grilletto per ucciderlo. Qualcosa, come al solito, in questi casi, nella dinamica degli eventi, non torna. Anzi, sfiora il grottesco!

E d'altra parte, comincia a farsi largo l'ipotesi che a colpire Ugo Russo alla testa, sia stato un proiettile penetrato da dietro la nuca. Se così fosse, dunque, ci troveremmo di fronte all'ennesimo omicidio a sangue freddo, commesso da un rappresentante delle forze dell'ordine.

Gli interrogativi e le riflessioni però, non si fermano alla dinamica dei tragici eventi. Per assumere un carattere più generale e segnatamente socio-economico.

Se il modello di società che si è costruito, infatti, è quello dello status-simbol e del denaro, che ne consente l'acquisto, e attraverso cui compensiamo un vuoto esistenziale indotto dalla logica di un'esistenza mercantile, dunque illudendoci di esistere perché indossiamo un orologio costoso al polso, beh non ci si può meravigliare di quello che è successo l'altra notte a Napoli.

Non ci si può meravigliare se un ragazzino di 16 anni, figlio del sottoproletariato metropolitano, prova a rubare un Rolex, pistola falsa in pugno, nell'illusione che quel Rolex gli attribuisca un ben definito valore umano.

E non ci si può meravigliare, altrettanto, se un figlio della piccola-borghesia italica, notoriamente vendicativa, meschina nel suo attaccamento alla roba, avida nella sua scalata sociale, ansiosa di gestire sia pure il più minimo potere, spara a quel ragazzino, uccidendolo.

Non per salvare la vita, sia ben chiaro. Non ci facciano ridere i soloni borghesi, che in queste ore si stanno accadendo sulla genetica criminale di Ugo, pur di difendere il malcapitato esponente dell'Arma. Ma per non cedere il suo Rolex!

Quello che fa incazzare, invece, e che non consente attenuanti, è che quel figlio della piccola-borghesia sia, appunto, un Carabiniere. Uno sbirro.

E voglio chiamarlo sbirro perché la sua è psicologia da sbirro. La psicologia di un Maurizio Merli qualunque.

Violento perché ritenuto e auto proclamatosi al di sopra della Legge. Addirittura, incarnazione della Legge stessa.

Quella psicologia tipica del giustizialismo vindice, peloso e moralista, che affonda le radici nella bieca cultura torquemadista da Congregazione del Santo Uffizio.

Cultura che plasma di sé, da secoli, l'intera società occidentale. Fondata su due concetti basilari. Colpa e punizione. Sorvegliare e punire.

Una società repressiva e classista, nella quale il potere, specie quello del denaro, l'avere, fa la differenza tra il diritto di vivere e il non diritto all'esistenza.

Una società, per di più, i cui cani da guardia in divisa, vengono quotidianamente nutriti da dosi massicce di violenza. Al solo e funzionale scopo di legittimarne l'uso arbitrario contro i ceti subalterni e i dannati della terra. In difesa di quelle stesse élites che li hanno resi schiavi e assassini, affinché ne difendano la proprietà, ne proteggano l'esistenza parassitaria e ne pepetuino il Potere.

Fa incazzare e fa schifo che uno sbirro, un professionista della "violenza", che nel suo caso dovrebbe essere esercitata con discernimento e in relazione ai contesti, un esperto di armi, perda completamente la ragione e ritenga di poter agire di istinto, senza neanche rendersi conto che la pistola impugnata dal ragazzino di 16 anni, fosse giocattolo. Adducendo, come inaccettabile giustificazione, la paura e il rischio di perdere la vita, laddove questo rischio non esisteva.

Vorrei rammentare, tra l'altro, che le forze dell'ordine vengono pagate per assumersi tali rischi.

Pagate poco, certo. Non tanto, quindi, da poter acquistare oggetti di lusso!

Ed è sinceramente disgustoso leggere i commenti di chi, sui social, festeggia per la morte del giovane criminale.

Come, altrettanto nauseante, risulta l'accanimento della stampa contro Ugo Russo, che si sta registrando in queste ore.

Una canea dai toni lombrosiani, malthusiani e fascisteggianti, che è il riflesso di una "civiltà" orrendamente giunta ai confini della disumanizzazione.

Quella morte, dunque, è stata sentenziata, ancor prima che dal proiettile che ne ha stroncato la vita, da una società impastata con l'odio.

Odio di classe, di censo, di status-simbol, di appartenenza, di razza. Un consesso "umano" in cui solo chi possiede, anche poco, chi vive nella regola dettata da leggi che promanano da quelle stesse istituzioni che riducono l'esistenza ad una merce di scambio, ad oggetto di squallida compravendita, ha diritto di respirare.

Una società che non vuole diversi. Gelosa della propria insignificante uniformità. Della sua volgare opulenza. Del suo conformismo neghittoso. Del suo patto sociale stipulato tra uguali.

E da cui i dannati della terra vengono esclusi all'origine. Insieme a chi contesta questo barbaro regime di classe.

Possibilmente, chiudendoli in galere o manicomi. Ancor meglio, ammazzandoli.

Come venne ucciso, dall'ennesimo sbirro giustiziere, Davide Bifulco. Sparato alle spalle!

Scriveva Claudio Lolli nel 1972, in quella che è diventata il manifesto di una generazione che contestava i costumi della borghesia reazionaria:

«Vecchia piccola borghesia/per piccina che tu sia/non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia/Sei contenta se un ladro muore/se si arresta una puttana/se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana/Sei soddisfatta dei danni altrui/ti tieni stretti i denari tuoi/assillata dal gran tormento/che un giorno se li riprenda il vento».

Mentre Artaud, con sommo disprezzo verso questo mondo popolato da zombie e baldracche del potere, scriveva, ad inizio secolo, da par suo:

«In un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com'è all'uscita dal sesso materno. E questa non è un'immagine, ma un fatto abbondantemente e quotidianamente ripetuto e coltivato sulla terra intera. Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica».

Ecco perché noi, pur condannando il gesto criminale del ragazzino, ci sentiamo dalla sua parte.

Non certo da quella del difensore di una Legge che, prima ancora che sociale e materiale, è legge dettata dalla morale e dall'ideologia delle classi dominanti.

Una legge che consente di uccidere solo a chi veste una divisa o è parte del consesso civile.

Una legge criminogena, nella sua assenza di intelligenza sociale. Nella sua assenza di umanità.

Una legge che rinuncia a chiedersi il motivo del gesto criminale di un ragazzino di 16 anni, assumendo i connotati di legge divina.

Una Legge che non è più, se mai lo è stata, Diritto.

Contro questa deriva legalitaria e megalomane della Giustizia e della Legge, continueremo a batterci.

Perché, come scriveva Montesquieu, padre del diritto liberale, non certo un marxista trinariciuto:

«Non c'è tirannia peggiore di quella esercitata all'ombra della legge e sotto il calore della giustizia».

Vincenzo Morvillo



venerdì 8 marzo 2019

PIL E SOCIALISMO. IL NUOVO CORSO KEYNESIANO DELLA CINA

Leggendo, nei giorni scorsi, due articoli, uno pubblicato da La Stampa: "L’Italia si prepara ad aderire alla grande rete infrastrutturale cinese" e l'altro, invece, pubblicato su Contropiano, a firma di Pasquale Cicalese: "La Cina, dopo 40 anni, proietta la sua potenza sul mercato interno" -come tanti altri che leggo sul cosiddetto miracolo cinese, attualmente seconda economia mondiale, proiettata verso un inarrestabile primato- ho, per l'ennesima volta, fatto la stessa identica considerazione. La Cina compete sul mercato mondiale, nell'epoca della globalizzazione -cioè da circa trent'anni- con tutte le armi tipiche del finanzcapitalismo -per usare la significante locuzione coniata dal sociologo Luciano Gallino- accreditandosi come il più agguerrito antagonista dell'impero statunitense e il suo più legittimo successore, nella guerra interimperialista in atto sullo scacchiere internazionale. Una guerra innescata a partire dagli anni '70, da quella che il prof. Luciano Vasapollo indica come crisi sistemica del capitalismo mondiale, all'interno di una civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario, finora soprattutto a guida occidentale. Ne viene, di conseguenza, la seconda, più sofferta e perplessa considerazione. Perché molti compagni guardino alla Cina post maoista e di ispirazione denghista (arricchirsi è glorioso, compagni, disse Deng Xiaoping nel 1979. Sic!) come ad un modello, seppur spurio, di paese socialista, sinceramente mi è oscuro. In chiave geopolitica e geostrategica, di contrasto al dominio imperiale a stelle e strice? Posso pure comprenderlo. Ma basta? Francamente, non credo!
La Cina ha innestato, negli ultimi trent'anni, la marcia del neoliberismo più spinto. Il paradigma produttivo è quello sviluppista, tipico dei paesi a Capitalismo avanzato. Il Pil è cresciuto a due zeri. E ora, in fase di leggera ma pur sempre indiscutibile flessione dell'export (che ha assicurato al paese proprio quella crescita esponenziale) sta correndo ai ripari. E, ovviamente, lo fa sul piano del sostegno alla domanda interna. Nella più tipica tradizione keynesiana, insomma; benché lo si potrebbe definire -con una formula più congeniale a quella che Loretta Napoleoni definiva, con un sincretismo neologistico, Maonomics- capitalismo keynesiano 4.0. Non vedo come altro si potrebbe denominare, infatti, quello applicato dal Governo della Repubblica Popolare Cinese, in questa delicata fase di altalenante sconquasso che si trovano ad attraversare i mercati e le borse di mezzo mondo.
Keynesismo, dunque, cui si affianca, però, pur sempre, una spietata logica produttivistica, efficientista e concorrenziale, che porta la Cina ancora ad adottare orari di lavoro e dispositivi di controllo che non dovrebbero appartenere, almeno in teoria, ad una Democrazia Popolare o ad un sistema che voglia considerarsi, non dico comunista, ma appena socialista. Un sistema che dovrebbe condurre l'uomo alla liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato e non al suo vassallaggio dentro la gabbia delle ragioni del profitto.
Guardie armate fuori le fabbriche; diritto di sciopero mal tollerato; rappresentanza sindacale praticamente inesistente, se non nel senso di cinghia di trasmissione statale-padronale; sorveglianza sociale e nuovo giro di vite repressivo -attuato dal governo di Li Keqiang, sotto l'egida del Presidente a vita Xi Jinping- sulle lotte operaie e sulla recrudescente, negli ultimi tempi, Lotta di Classe, sono variabili proprie degli stati capitalisti e dei governi improntati alle regole del liberismo. Fattori e condizioni segnalati da siti e giornali online, quali La Voce delle Lotte, Rivoluzione (sito del movimento comunista Sinistra Classe Rivoluzione) il sito del Partito Comunista Internazionale: nessuno di essi, com'è facile intuire, di tendenza borghese; Internazionale, decisamente più liberal; e Contropiano, su cui si può leggere un interessante articolo di qualche tempo fa "Per una definizione del regime cinese" , che potete trovare nella sezione del giornale Fattore K.
E ancora, cicli lavorativi anche di 10/12h; ferie spesso non pagate; fine settimana non garantiti; salari in molti casi legati ai tempi e alle ore effettive di fatica: quindi classificabili come cottimo, ampiamente inteso e diffuso. In tutti questi casi si tratta, invece, di dati elaborati dagli scienziati dell'Accademia delle scienze sociali di Pechino e riportati anche da L'Antidiplomatico.
Naturalmente, le cose vanno meglio nelle aziende statali delle zone sviluppate, come quelle di Shangai e della capitale. Con salari che, soprattutto nell'area orientale e più sviluppata, crescono anche del 10-15% annuo. Una gran bella differenza, rispetto alla riduzione del potere d'acquisto che, invece, ci troviamo a registrare, ad esempio, all'interno di molti paesi dell'Eurozona.
Nonostante ciò, comunque, un aspetto certamente non sottovalutabile, e anzi fondamentale, viste le tragiche condizioni in cui versa l'ecosistema globale, a causa dell'azione predatoria delle risorse e del modello iper sviluppista e freneticamente consumistico, portati avanti dal capitalismo ad impronta liberal-liberista, soprattutto nel corso degli ultimi 60 anni (e a cui, piaccia o no, si è piegata anche la Cina post maoista) è l'adozione della cosiddetta economia circolare. In pratica, un cambiamento radicale del modello produttivo -ancorché concepito in base all'economia di mercato e alle logiche del capitale e del profitto- che prevede la concentrazione del ciclo di produzione sul riutilizzo, la riparazione, il rinnovo e il riciclaggio dei materiali e dei prodotti esistenti. Quello precedentemente considerato "rifiuto" può essere, in poche parole, convertito in materia prima. Un mutamento di prospettiva non da poco, a ben considerare, in cui il paese del fu Impero Celeste è decisamente all'avanguardia.
Poco incline, invece, risulta il governo al rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cosiddetti "diritti civili" che, ovviamente, in quanto marxisti, subordiniamo, imprescindibilmente e giustamente, a quelli sociali. Il problema, però, è che in Cina, a quanto pare, vengono entrambi posti in secondo piano, rispetto all'interesse del Leviatano statale.
In tal senso, si è già detto del mal digerito diritto di sciopero, dell'azione repressiva del governo e dell'inesistenza di una vera e strutturata rappresentanza sindacale. Una pallida rappresentanza, paragonabile, nell'attuale contesto di competizione interimperialistica -volta dunque al più feroce sfruttamento di una manodopera a basso costo- a quella propria del sindacalismo giallo statunitense; o a quella sempre più concertativo-compatibilista delle tre sigle italiane Cgil-Cisl-Uil, oramai irrimediabilmente supine alle esigenze, alle logiche e alle direttive padronali.
La Cina, dunque, rappresenta, almeno secondo chi scrive, un chiaro esempio -solo l'ultimo in ordine di tempo- di turbocapitalismo a genesi e conduzione partitica. O, se si preferisce, di social-imperialismo, per usare una locuzione cara ai movimenti rivoluzionari degli anni '70 (specie alle Brigate Rosse, ndr) con cui s' identificava la degenerazione fordista e burocratica avvenuta all'interno delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Oppure, per rinviare alla dizione ufficiale, potremmo ancora definire quel modello come “socialismo di mercato alla cinese”. Poco cambia, a dire il vero.
Perché qui da noi, a partire dalla ristrutturazione capitalistica e dalla controffensiva padronale degli anni '60 e '70, seguite al grande boom economico -con annessa redistribuzione della ricchezza- si insorse in armi, malgrado le politiche keynesiane mirassero a compensare gli effetti sociali di tale ristrutturazione, con l'intento, esclusivamente, di depotenziare il conflitto in atto e di stabilizzare il sistema. Attualmente, una situazione simile comincia a verificarsi in Cina, dopo gli exploit commerciali e il vertiginoso aumento del Pil, dovuto, come si diceva, soprattutto all'export. Il Pcc sembra muoversi, in un simile contesto, come il Partito Comunista Italiano di quegli anni. Qualche concessione, sul piano economico, ma rigido controllo statalista sul versante delle lotte -si badi bene, ci si riferisce alle lotte operaie e del proletariato periferico, non a quelle inscenate da attivisti al soldo della borghesia occidentale- per assicurare una più o meno accettata pax sociale, che consenta allo status quo di sopravvivere senza troppi sussulti. Il tutto, a vantaggio della nomenclatura oligarchica all'interno del partito, che tira le leve economiche e dello stato; di una piccola fetta di ricchezza privata; e di un più ampio ceto medio, di cui si è provveduto, nel corso del tempo, ad allargare la base.
Noi comunisti, di fronte alla violazione dei diritti dei lavoratori e alla cancellazione progressiva delle conquiste operaie; di fronte alle devastanti politiche repressive e di controllo sociale; di fronte pure ai balbettamenti di natura riformista, qui, nel nostro Occidente neoliberista, nella nostra Europa dominata dal pensiero e dalla pratica Ordoliberista, alziamo la bandiera rossa della Lotta di Classe. Di fronte alla cultura sviluppista e alle feroci ragioni del profitto, della concorrenza e del mercato, opponiamo -o meglio sarebbe dire, dovremmo opporre, accertato che l'etica lavorista a troppi compagni non fa difetto, ahimé- una cultura del lavoro e una dimensione esistenziale ispirate ad una visione del mondo e della vita più umana, meno frenetica, non certamente scandita dai soverchianti, pervasivi, asfittici meccanismi del profitto, del consumo e del tempo veloce, imposti dalla sovrastruttura del Potere. Borghese, Statale, Partitico, non importa.
E invece, troppo spesso e con troppa nostalgia guardiamo alla Cina post Mao e convertita alle dinamiche, flessibili e laceranti leggi del mercato, come ad un paese socialista, un modello cui ispirarsi. Sol perché ancora sopravvive un Partito Comunista Cinese, che altro non è se non il simulacro del grande partito rivoluzionario fondato da Mao e che condusse alla vittoria il proletariato, la clase operaia e i contadini, nella Cina di Chiang Kai-shek? Non credo sia la giusta visione se si vuole sovvertire il modello di produzione capitalistico vigente. La Cina, come detto, mira a rafforzare il suo ruolo nella competizione interimperialistica. E a diventare egemone!
Basti considerare gli investimenti cinesi in Africa (Gibuti, Sudan, Algeria, Zimbabwe), come anche il progetto della Nuova Via della Seta, maxi-programma di investimenti infrastrutturali ideato da Pechino per collegare il paese con decine di paesi in Asia, Africa ed Europa e verso cui anche l'Italia parrebbe mostrare interesse. Investimenti certo -specie quelli compiuti nel continente africano- fatti con un intelligente criterio di stimoli infrastrutturali e non secondo il modello predatorio tipico dell'imperialismo Usa ed europeo .Ma pur sempre di logica affaristica si tratta. Seppur informata ai principi di un social-imperialismo soft e più equo.
Mi preme sottolineare, a questo punto, che sono, le mie, valutazioni opinabilissime, non certo di un docente di economia, ma dettate, comunque, da una rigorosa ancorché non ortodossa concezione marxista della politica economica e da un'altrettanto spassionata visione del mondo, poco incline ai tatticismi geopoliticisti.
Ciò chiarito, ribadisco e chiarisco quanto scritto all'inizio, in merito alle politiche keynesiane adottate dal governo cinese sul versante nazionale. Sostegno della domanda interna, defiscalizzazione a favore delle imprese per reggere l'impatto della concorrenza, maggioranza azionaria concessa agli investitori esteri, abbattimento dell'Iva per sostene gli operatori nazionali, fiscalizzazione degli oneri del debito per favorire le imprese private, banche pubbliche che potranno aumentare del 30% i prestiti concessi ai privati, grandi opere infrastrutturali e Alta Velocità (se le fa la Cina, con il Pcc è cosa buona?), una politica che non si discosta dalla regola del Pil, allargamento del ceto medio, altro non rappresentano che l'adozione di politiche keynesiane, varate per sostenere la domanda aggregata ed assicurare alla Cina, al socialismo di mercato e al governo che ne detta le regole, la sua stabilità e il suo ruolo, anche e soprattutto in campo internazionale.
Perciò, per quanto mi sforzi, personalmente vedo solo un modello di sviluppo ad altissima trazione capitalistica al quale si coniuga lo schema della pianificazione centralizzata. Un modello misto, quindi; o -per usare ancora le parole e la categoria certamente più precisa, del professor Vasapollo- si può parlare di "modello duale flessibile". Insomma, in parole povere: Pianificazione + Mercato. Da un lato, allocazione delle risorse (di Mercato), dall'altro rapporti sociali di produzione e sistema di proprietà delle unità produttive (in mano Pubblica). Schematizzando: Socialismo e pianificazione quinquennale cui si associano le leggi di mercato dell'oscillazione della domanda e dei prezzi, compresa la politica monetaria. Pertanto, volendo semplificare al massimo: Capitalismo + Socialismo. Il tutto, in salsa
un po' meno neoliberista e un po' più keynesiana. Ma tracce di socialismo davvero ridotte ai minimi termini.
La Cina, insomma, non è il Venezuela. I due paesi non hanno lo stesso peso, sullo scacchiere mondiale. Da comunista, credo ci si possa sentire vicini al secondo -che lotta per l'affermazione del bolivarismo, per un effettivo riscatto, in termini socialisti, del proletariato meticcio  e per sottrarsi al giogo dell'imperialismo Usa- decisamente meno alla prima, che una politica imperialista, seppur declinata in forme diverse, la sta attuando. Basta leggere i cinque punti del concetto di imperialismo concepiti da Lenin -in una prospettiva statale e non privata- per rendersene conto.
E mi chiedo, in conclusione: se la classe media è arrivata a600 milioni di persone, l'altro miliardo e più come vive? Facile, troppo facile immaginarlo. In Cina, invece di procedere sulla strada del Comunismo, si è tornati indietro. Ad un' economia di mercato e di stampo capitalistico, seppur, appunto, flessibile.
Si è liberi di illudersi quanto si vuole. Ma tant'è. Non si può sostituire la Lotta di Classe con la geopolitica!
Vincenzo Morvillo

lunedì 7 maggio 2018

PRIMO MAGGIO E NUOVE RESISTENZE

A margine del Primo Maggio trascorso, ed anche in considerazione dei fatti di Parigi,  credo che vada necessariamente detta una cosa. La distruzione dei simboli del capitalismo -tra cui l'icona McDonald's- dovrebbe essere un imperativo etico di qualunque forza comunista, anticapitalista, rivoluzionaria. Possiamo, poi, discutere del metodo, dell'opportunità strategica del contesto e di tecniche di guerriglia. Ma l'abbattimento di quei simboli è fuori discussione.

Pertanto, sentir  parlare -all'indomani degli scontri nella capitale francese- il leader di La France Insoumisse, Jean-Luc Melenchon, di infiltrazioni fasciste nel corteo di Parigi -solo perché quelli che, nella narrazione inquinante del potere mainstream, vengono identificati come violenti Black Block, hanno esattamente messo in atto una piccola guerriglia urbana, rompendo vetrine ed incendiando qualche negozio, simbolo del Capitale- è la sintesi paradigmatica dell'ambigua filosofia dell'ordine pubblico e dell'idea di pace sociale, che ispirano la sinistra istituzionale, compatibilista e concertativa europea. Dagli anni '70, se non prima. D'altronde, qui in Italia, quando, terminata la seconda guerra mondiale, alcuni gruppi di partigiani comunisti, contrariamente a quanto ordinato dal Pci, si rifiutarono di deporre le armi e giustiziarono i fascisti amnistiati dal decreto Togliatti -fascisti che avevano commesso, dal settembre '43, ogni sorta di crimine e di porcata contro la popolazione  resistente dell'Italia settentrionale-  l'organo del partito comunista italiano, L'Unità, tacciò di trotskismo e parlò, vigliaccamente, di sinistrismo come "maschera della Gestapo" (Pietro Secchia ndr),  riferendosi a quegli stessi partigiani, insofferenti al ripristino dell'ordine borghese. I fatti di Schio ne costituiscono un esempio eclatante.

Or dunque, oggi come allora, quello stesso ordinamento, che trova la sua compiuta realizzazione ed il suo assetto formale nello Stato liberale e nei comitati d'affare sovranazionali e ultra liberisti -l'Unione Europea e la sua gabbia di soffocanti trattati, tanto per intenderci-  non si scardina, non si rompe con la mediazione di classe, la pacificazione sociale o qualche manifestazione attenta a non turbare il tranquillo andamento della vita cittadina. I rapporti di forza non si sovvertono senza forzare i limiti, sempre più restrittivi, imposti da pseudo regolamenti questurini. Il sistema di produzione capitalistico ed il suo processo di accumulazione, ormai sempre più irreale, visionario, cinico e violento, non si muta sfilando in cortei improntati alla ragionevolezza e al buon senso civico.  La repressione, spesso cruenta, delle forze dell'ordine, non si combatte senza un ricorso alla "violenza di classe".  La Rivoluzione non si fa senza alzare ed inasprire il livello del conflitto in atto nelle piazze, nelle scuole, nelle università ma, soprattutto, in quei luoghi di lavoro dove si assiste, quotidianamente, alla cancellazione dei diritti, alla mortificazione della dignità, all'espropriazione del corpo e dell'intelligenza, fino all'usurpazione della stessa vita del lavoratore, spesso messa a rischio di morte. È triste dirlo, ma bisogna cominciare a prendere atto di questa insopprimibile e cupa realtà. Prima che le elite finanziarie, gli Stati, il Capitale non ci lascino più scampo.  Come diceva Edmund Burke «Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione». E, per essere chiari, qui il Male sono il capitalismo, la sua deriva neoliberista, il mercato. E quel simulacro chiamato, ormai, democrazia liberale o socialdemocrazia!

Vincenzo Morvillo

mercoledì 10 gennaio 2018

BENE...BRAVI...NO AL 41BIS

Dall'art.90 al 41bis, la vocazione repressiva dello Stato liberal-borghese -comprendente arresti indiscriminati, carceri speciali, tortura, fino alle forme detentive restrittive, che violano i diritti umani- ha sempre trovato il sostegno della sinistra manettara. A partire da quel P.C.I. -autoproclamatosi difensore assoluto della classe operaia- che, nel nome della governabilità, di un simulacro di "democrazia" sempre più elitaria, e dell'accesso secondario al banchetto di Montecitorio, cui avrebbe partecipato anche in livrea, ha contribuito non soltanto a mandare in galera centinaia di compagni, non solo a distruggere il più grande movimento rivoluzionario all'interno di quell'Occidente capitalista, che proprio la classe operaia e lavoratrice, con il proletariato, ha massacrato e continua a massacrare, ma all'affermazione di un giustizialismo sempre più forcaiolo, peronista e di destra. Quel giustizialismo di cui, oggi, in Italia, si fa corifeo culturale, tanto per intenderci, il Movimento 5 Stelle che, giusto a sinistra, sembra aver riempito vuoti ideali e politici incolmabili.
Dunque, nulla di nuovo se l'ex parlamentare Manuela Palermi, il neo nascente PCI dalle ceneri del vecchio Pdci del ministro della giustizia Oliviero Diliberto -colui che nel 1999 istituì il GOM (Gruppo Operativo Mobile), reparto di polizia penitenziaria addetto al controllo dei detenuti in regime di 41bis e alla repressione dei disordini carcerari, della  cui violenza hanno fatto e fanno le spese molti compagni ancora in galera- e ex rifondaroli si scagliano contro il punto programmatico di Potere al Popolo, che prevede l'abolizione del 41bis. 
Ho già espresso, senza pregiudizi e argomentazioni speciose, ma puntualmente motivandoli, i miei dubbi sulla lista. Dico però ancora che, se Potere al Popolo vuole effettivamente segnare uno spartiacque con i vecchi tatticismi politici di quella sinistra compatibilista fino al punto di divenire la più fervente sacerdotessa della statolatria borghese o la più servile vassalla del pensiero neo liberale -si pensi alla linea della fermezza tenuta dal Partito Comunista durante il rapimento Moro o alle attuali derive coercitive, con uso indiscriminato di manganelli e fermo di polizia, in materia di controllo sociale e immigrazione, adottate dal Pd - e porsi come embrione di qualcosa di veramente rivoluzionario, allora deve necessariamente liberarsi della zavorra rappresentata dai vecchi "professionisti della politica" -mi si passi la locuzione à la page- ancorché  compagni, e fare chiarezza su questioni dirimenti. La battaglia contro il 41bis, come quella per l'introduzione di un reato di tortura che non sia un capolavoro di incongruenza -specie in un momento in cui il Decreto Minniti e la repressione delle forze antagoniste costituiscono l'agenda politica di un governo impegnato attivamente nella cancellazione del dissenso: che si tratti di dicasteri in mano al Pd o al centro destra poco importa- rappresenta una battaglia culturale imprescindibile per il movimento comunista. Una battaglia su cui non è concesso trattare. E non sono concessi neppure sofismi o astruserie giuridiche, come i cinque anni di detenzione attenzionata per i boss della criminalità organizzata. Sappiamo, infatti, fin troppo bene, per esperienza, che simili provvedimenti, una volta emanati, vengono, alla lunga, estesi anche ad altre fattispecie e, quindi, a pagarne il prezzo sarebbero, in futuro, anche altri detenuti, specie i politici. La mafia infatti, se la si vuol sconfiggere, va combattuta sui territori, attraverso lotte e interventi di carattere sociale, politico, economico e, appunto, culturale.Non certo con il ricorso al 41bis o a secoli di galera, che servono più a ripulire la coscienza di un apparato statale spesso complice, che non ad eliminare un fenomeno incistato in una struttura sociale che nessuno, a quanto pare, vuol modificare.
Per questo, accanto ai No all'Unione Europea, all'Euro, alla Nato e al pagamento del Debito, è per me irrinunciabile il No al 41bis: tra l'altro, sovente, divenuto vile strumento di ricatto per costringere il detenuto a delazioni fittizie, quando non totalmente false, sull'onda emotiva della paura o sulla base di un calcolo puramente utilitaristico e personale.. Come il No all'ergastolo. E il superamento dell'istituto punitivo della pena, pensato come unico strumento di deterrenza del crimine o, peggio, come metodo rieducativo. In tal senso, le galere hanno fallito. E falliscono ancor di più le teorie che producono svolte restrittive e autoritarie. 
D'altronde, come ho già scritto altrove, non dimentichiamo che  secondo il filosofo e psicologo francese, Michel Foucault, tra la nascita del capitalismo e l’instaurazione del potere disciplinare esiste una causalità irriducibile e biunivoca: ciascuno dei due fenomeni ha alimentato l’altro e nessuno dei due avrebbe potuto mai assumere le proporzioni che ha assunto se non si fosse potuto poggiare sulle acquisizioni e sugli effetti dell’altro.
Scrive in pratica Foucault, in "Sorvegliare e Punire": «L’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere, che si chiama “la disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione». Stando, dunque, a quanto dice Foucault, il potere produce innanzitutto sovrastrutture, morali e culturali, codici di comportamento, simboli, linguaggio e, di conseguenza, senso. Ecco, il potere produce senso e quindi, com’è facile comprendere, determina la differenza –storica e culturale- tra il Bene e il Male, tra ciò che è legale e ciò che non lo è, tra lecito e illecito, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In una parola, stabilisce e precisa l’ethos all’interno di una società e di un particolare momento storico. Ne deriva che una delle principali peculiarità e finalità del potere –e specifichiamo che, quando Foucault parla del potere, si riferisce a quello dello stato borghese e liberale- risiede in ciò che egli definisce governamentalità, concetto che racchiude in sé quelli di sovranità e disciplina, affermatosi in Occidente proprio con la nascita del liberalismo e che, inequivocabilmente, conduce ad una gestione analitica, economica e disciplinare appunto delle masse. Con l’avvento dello stato liberale, insomma, siamo entrati nell’era della biopolitica e del biopotere. E, come approfondiranno, poi, in senso più squisitamente marxiano Cesarano e Agamben, attraverso la biopolitica, il Capitale ha avuto accesso al più completo e complesso dominio del reale, giungendo a sottomettere tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione e restringendo, così, le possibilità di resistenza e opposizione al sistema, attraverso quella che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han definisce, ormai, una vera e propria "psicopolitica". Categoria orwelliana decisamente inquietante, per mezzo della quale, afferma Han, il potere non disciplina più i corpi ma plasma le menti, non costringe ma seduce, sicché non incontra resistenza perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema. Non certo il desiderio rivoluzionario, per parafrasare Deleuze.
Se si vuole continuare a definirsi marxisti e comunisti, quindi, è necessario rompere con questi paradigmi del pensiero borghese e cominciare a declinarne di nuovi. Ampliando gli orizzonti e spaziando liberi in essi.



VINCENZO MORVILLO

giovedì 28 dicembre 2017

POTERE AL POPOLO COME MOMENTUM DI CORBYN: UN'EQUAZIONE DA RIGETTARE

Due giorni or sono, a firma di Rosa Gilbert, è uscito, sul britannico The Indipendent, un pezzo in cui si afferma che l'unica sinistra, in Italia, è rappresentata da Potere al popolo, procedendo poi in un paragone, quello con Momentum di Jeremy Corbyn, non certo lusinghiero per un movimento che voglia fare della lotta radicale, al Capitale e alle sue molteplici e velenose ramificazioni, il perno cardine della sua stessa esistenza politica. Capisco, allora, che possa far piacere leggere su un Tabloid come The Indipendent -in un articolo che, sicuramente, fa impallidire i nostri media mainstream per obiettività e analisi della situazione sul campo in Italia- di Potere al Popolo, di Je so' pazzo e dell'ex Opg, dell'Usb e dei centri sociali, e nello specifico di Napoli, quale epicentro da cui nasce quest'innovativa proposta politica; pur tuttavia, non penso ci sia da rallegrarsi se lo stesso The Indipendent propone un'equazione, seppur procedendo per sommi capi, tra Potere al Popolo e Momentum di Corbyn. E tanto meno c'è da gioire se quell'equivalenza pone, come ulteriori termini di paragone, il Podemos spagnolo di Iglesias -la battaglia per l'indipendentismo catalano ne ha evidenziato tutte le fragilità sul piano dell'auspicabile rottura con l'Ue e lo Stato monarchico-franchista castigliano- o Insoumise di Melenchon, in Francia. 
Non va dimenticato, infatti, che, se tanto il movimento spagnolo quanto quello francese risultano compatibilisti rispetto alla cultura produttiva e borsistico-mercantile del capitalismo dominante, anche Momentum e la cosiddetta Corbynomics non sono da meno. Accusata, in Inghilterra, di proporre ricette di estrema sinistra e di stampo marxiano, l'economia corbiniana è, invece, nulla di più di un pacchetto di proposte "riformiste"- come sostenuto dallo stesso Corbyn- seppur orientate nel senso di quella socialdemocrazia, conciliatrice degli opposti interessi di classe, che, oramai, è essa stessa divenuta un miraggio nel panorama oscurato dalla dittatura del pensiero neoliberista. Un riformismo di matrice socialdemocratica, dunque, il cui perno è una sorta di quantitative easing -sul modello adottato dalla Bce di Mario Draghi- ma a vantaggio del popolo. Un programma economico rivolto sia a finanziare investimenti in infrastrutture pubbliche sia a cittadini e lavoratori e sostenuto da economisti di sinistra della scuola keynesiana -e qui ravviserei l'intoppo per una forza che si dichiara comunista e radicale- tra cui Steve Keen e David Blanchflower, i quali hanno fatto pubblicare sul Guardian un appello nel quale si afferma che l'«accusa, ampiamente diffusa nei confronti di Jeremy Corbyn e dei suoi simpatizzanti, consiste nell'essersi fatti promotori di una politica economica di estrema sinistra. Ciò non trova però fondamento nelle dichiarazioni e nelle politiche sostenute dal candidato. La sua opposizione rispetto alle politiche di austerità è coerente con quanto il pensiero economico prevalente afferma, e lo è persino con quanto sostenuto dal Fondo Monetario Internazionale». Quello stesso Fondo Monetario Internazionale insomma, che, insieme alla Bce, all'Ue e alla Banca Mondiale compone quella Troika alla quale si devono le misure di austerità che hanno prodotto e stanno producendo la macelleria sociale e il progressivo impoverimento dei paesi europei -ma anche altrove la situazione è la medesima- speculando, con le banche d'affari e le Multinazionali, su quel debito pubblico divenuto ormai un capestro cui impiccare i popoli di mezzo pianeta. Stiamo parlando, in sostanza, di quella cosiddetta "economia del debito" contro cui si ergeva, pagando con la morte il suo dissenso, Thomas Sankarà, allora presidente del Burkina faso. Troika ed economia del debito -Fiscal Compact in testa- che dovrebbero essere i principali obiettivi strategici contro cui scagliarsi da parte di forze anticapitaliste, e contro cui, difatti, i principali ispiratori di Potere al Popolo si sono scagliati da tempo. Ma alle parole di sfida dovranno, come sempre, seguire i fatti. Altrimenti, si rischia di fare la fine di Tsipras e Syriza in Grecia: proclami altisonanti, e poi testa china di fronte al ricatto dei comitati d'affare europei e dei creditori mondiali. In quest'ottica, quindi, mi pare evidente che parallelismi come quelli proposti dall'Indipendent debbano essere rifiutati categoricamente. Marcare la differenza sul versante delle lotte -se si preferisce, più teoricamente, sul versante della Lotta di Classe- dovrebbe essere prioritario, se si vuole scongiurare il rischio, non proprio trascurabile, che la percezione nei blocchi sociali di riferimento si riduca ad una semplice alleanza a scopi elettoralistici, imbevuta di astrazioni concettuali e parole vacue, simboliche e fortemente evocatrici, ma prive di corrispondenze nella realtà.
E proprio questi sono i dubbi -oltre alla precedente esperienza del Brancaccio- che mi assalgono sin dalla creazione di Potere al Popolo e che mi hanno portato alla decisione di non sostenere attivamente la lista, pur guardandola con favore e percependola come un embrione promettente di una politica in discontinuità  rispetto alle fallimentari esperienze del passato. Un embrione che, voglio sinceramente augurarmelo, nel corso del suo processo evolutivo -al di là delle elezioni, che continuo da decenni a considerare, oramai, una roulette truccata, i cui croupier sono, inequivocabilmente, servi dei poteri finanziari- possa spazzare definitivamente le esperienze legate tanto al consociativismo di un centro sinistra lontano milioni di anni luce dalla realtà del paese, quanto alle derive autoreferenziali della sedicente sinistra radicale, incapace, da tempo, di cogliere la tragedia sociale che va consumandosi sulla pelle di coloro che dovrebbero rappresentare, pur nella loro composita conformazione, la classe ed il blocco sociale di riferimento. Un embrione che sia vieppiù capace di tracciare una linea di demarcazione tra fittizi organismi verticistici, costruiti in laboratorio e a freddo, utili esclusivamente al riciclaggio di una classe dirigente prona agli interessi della finanza globale e smaniosa di accumulare una pur minima quantità di potere e denaro per sé stessa, e possibili, speriamo concrete, realizzazioni di forze sul campo, capaci di rompere, finalmente senza alcun compromesso, con quella che si configura, oramai da tempo, come la Dittatura Mondiale Neoliberista. Una versione, insomma, riveduta e corretta in senso peggiorativo, dello Stato Imperialista delle Multinazionali. La priorità rimane infatti, almeno per il sottoscritto, il No all' Unione Europea, il No all' Euro, il No alla Nato. E soprattutto, il No gridato al pagamento del Debito. Senza questa determinazione e questi No, che comportano, mi rendo conto, non pochi rischi in termini di un possibile ed eventuale spargimento di sangue -è bene chiarirlo subito, senza ipocrisie e senza nascondersi la crudele verità, adoperando come paravento la Democrazia e il Pacifismo- non si uscirà mai dalla condanna a morte emessa, nei confronti dei ceti più deboli, delle periferie del mondo e dei popoli del sud, da quelle elite finanziarie che hanno a cuore solo i loro interessi e la cui sentenza viene eseguita, giorno dopo giorno, lentamente ma inesorabilmente, da boia in giacca e cravatta, seduti nei consigli di amministrazione o su poltrone presidenziali o su parlamentari scranni da deputato. Il sangue scorre lo stesso, dilazionato e per procura. E malgrado elezioni libere e democratiche.
Al di là di questi conclusivi accenti pessimistici, faccio però, comunque, i miei migliori auguri a tutte le compagne e i compagni che stanno donando forza, energie, nervi alla lista Potete al Popolo. Sperando di essere smentito con i fatti e non solo con le parole.

lunedì 4 dicembre 2017

DA AMAZON A FIAT: LA LOTTA DI CLASSE È PADRONALE

Jeff Bezos, fondatore e patron di Amazon, vale 92 miliardi di dollari, circa 85 miliardi di euro. Intanto, nei suoi magazzini, operai e lavoranti sono letteralmente carne fresca da macellare:
nove secondi per afferrare e lavorare un articolo da spedire per l’imballaggio. L' l’obiettivo è 300 articoli l’ora, un’ora dopo un’altra, incessantemente. Undici ore di lavoro quotidiane, piegati in due, con turni, a volte, di sette giorni alla settimana, anche la notte. Una sorta di cronometro a controllare tempi ed efficienza, e telecamere a spiare se, per caso, ci si fermi. Tirare il fiato è vietato. Due sole pause di 30 min, per mangiare e, forse, andare in bagno. Ritmi massacranti, per 1.300 € lorde al mese. Una miseria per un lavoro da schiavi ottocenteschi, cui qualcuno non resiste. Non pochi accusano malori e svengono, venendo trasportati in ospedale con l'ambulanza. Ad attenderli, all'uscita, il licenziamento.  
Per venire a casa nostra, l'AD di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne -l'amico di Renzi e del Pd del rilancio economico e industriale, cui gli addetti alla comunicazione fanno sui social tanta propaganda- guadagna all'incirca 60 milioni all'anno, tra stipendio, bonus ed incentivi vari. Con le plusvalenze da stock-options, il "nostro" Marchionne potrebbe arrivare fino a 80 milioni circa. Negli stabilimenti Fiat, nel frattempo, i ritmi di produzione e di impiego della forza lavoro sono anche qui logoranti, al punto che molti operai parlano di veri e propri lager. Anche qui cronometri o chip per controllare la tempistica. Anche qui pause ridotte al minimo. Anche qui efficientismo disumanizzante. È la Fiat del metodo WCM 4.0, implementato dall'AD dei grandi successi. Praticamente, gli stabilimenti del Gruppo FCA adottano il sistema World Class Manufacturing (WCM appunto): una metodologia di produzione strutturata, rigorosa ed integrata che coinvolge l’organizzazione nel suo complesso: dalla sicurezza all’ambiente, dalla manutenzione alla logistica, alla qualità. Obiettivo primario del sistema WCM è migliorare continuamente tutte le performance produttive al fine di garantire l'alta qualità del prodotto e soddisfare le attese del cliente. Il WCM ha come finalità comune una sistematica riduzione delle perdite e degli sprechi, fino ad arrivare al risultato ultimo di zero: infortuni, zero rifiuti, zero guasti e zero giacenze. Il WCM si basa sull’aggressione sistematica di ogni tipo di spreco e perdita, e sul coinvolgimento di tutti (a tutti i livelli gerarchici dell’organizzazione), attraverso l’impiego rigoroso di metodi e standard. Ovviamente, neanche a dirlo, sicurezza, ambiente, manutenzione sono target soltanto nominali. L'obiettivo principale è la massimizzazione dei profitti, anche a danno dei lavoratori. Anzi, soprattutto. E così, via al processo di riduzione dei diritti, fin quasi all'azzeramento: fioccano gli esuberi per ristrutturazione e non si contano i licenziamenti per ragioni politiche e sindacali. I danni fisici, poi, sono la norma.
In altre parole, si sono perfezionati, grazie soprattutto alle moderne tecnologie, i sistemi di sfruttamento della manodopera. Colpa anche dell' incapacità delle forze comuniste di reagire ad una sconfitta, che ha lasciato, ai nuovi padroni del mondo, la possibilità di una ristrutturazione capitalistica di stampo talmente reazionario che, a fronte di essa, impallidiscono tanto la Controriforma post rinascimentale, operata dalla Chiesa, quanto la Restaurazione successiva al Congresso di Vienna, voluta dalle vecchie monarchie e volta a ripristinare l'Ancien Regime, rovesciato dalla Rivoluzione Francese. 
Quello che stupisce, però, è che gente come Bezos e Marchionne guadagni tanto, nonostante la crisi. Una crisi di sistema del Capitale. Una crisi che paghiamo noi, non certo lor signori. Anzi, una crisi che ha consentito loro di affondare i colpi di una Lotta di Classe padronale sanguinaria, realizzando il sogno di qualunque capitalista, sin dai tempi delle prime proteste e dei primi scioperi socialisti: reprimere e cancellare i diritti dei lavoratori. Che si torni allo schiavismo e tacciano i pezzenti. Una deriva impensabile nel corso del '900, all'epoca dell'avanzata delle forze produttive, amaro frutto, caduto dall'albero del XXI secolo, anche a causa dei continui compromessi fatti, a vario titolo, negli anni, dai partiti comunisti occidentali. A cominciare dal nostro PCI. 
La crisi, dunque, la paghiamo noi, non c'è dubbio. Per loro, per questi nuovi monarchi a capo di imperi di carta-moneta, la quantità di denaro e di potere, nel processo di accumulazione capitalistico, sembra non esaurirsi. Magie dei grafici di Borsa e della finanziarizzazione di un'economia sempre meno reale.  
Con tali premesse, appare altresì evidente come il gioco  elettoralistico, su cui dovrebbero poggiare le democrazie, sia ormai falsato. Chi, considerando gli interessi in ballo, affiderebbe esclusivamente al corpo elettorale la  scelta di un governo, il cui unico scopo è quello di varare leggi a tutela dei capitali, dei patrimoni e delle multinazionali? Così, quando accade che, dalle elezioni, esca, per miracolo, un risultato sfavorevole ai comitati d'affari globalizzati, allora questi mettono in atto ricatti tali da far tremare i polsi. Grecia, Catalogna, Venezuela, per fare solo qualche esempio, ne sono una rappresentazione eclatante. Il debito da pagare è l'arma in loro possesso e la usano come dei volgari tagliagole. Pertanto, i ribelli, gli antagonisti, vanno schiacciati perché nulla può essere concepito fuori dall'unico modello possibile e dal pensiero unico dominante. Il Neoliberismo. Selvaggio e criminale. Contro questa dittatura globale, c'è, perciò, una sola risposta da dare. Come sosteneva Thomas Sankara, il debito non si paga. Che vengano pure a massacrarci tutti. Lo stanno già facendo!