Rothko Chapel

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"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)

sabato 29 novembre 2014

L'ORDINANZA CLASSISTA DEL GENIO DE MAGISTRIS



Il nostro sindaco, Luigi De Magistris, che, a chiacchiere, scavalca a sinistra anche il più fervente marxista-leninista, ma nei fatti, spesso, si è mostrato e si mostra più democristiano di un vecchio doroteo, ha tirato fuori, dal suo cilindro, l'ennesimo bel coniglio bianco. Vogliamo dircelo? Quest'uomo è un genio!
Con un'ordinanza, infatti, viene fatto "divieto a tutti, cittadini italiani, stranieri comunitari ed extracomunitari di rovistare nei contenitori della spazzatura, di asportare e trasportare rifiuti di ogni genere prelevati dai suddetti cassonetti." e si stabilisce che "i trasgressori alla violazione della presente ordinanza, siano puniti mediante l'applicazione della sanzione pecuniaria di euro 500,00. ai sensi dell'art. 7 bis TUEL e dell'art. 16 della legge del 24 novembre 1981 n°689 e s. m. i . e con la distruzione immediata dei rifiuti prelevati dai cassonetti della spazzatura e delle attrezzature utilizzate per il contenimento e trasporto degli stessi."
La ragione di tale provvedimento, risiederebbe nel tentativo di stroncare il mercato illegale dei rifiuti. Peccato che, spesso, chi rovista nei cassonetti, lo faccia per fame o perché, appunto, essendo extracomunitario, non ha altre risorse per sopravvivere, se non quella di raccogliere monnezza. Dunque, un'ordinanza che si configura come classista e, a ben considerare, anche dal vago sapore razzista. Oltre che, evidentemente, attuata con poca logica. Chi mai pagherà le 500 euro, premesso che, il più delle volte, come si diceva, i trasgressori saranno nullatenenti? Mah!
Ci chiediamo, a questo punto, chi abbia suggerito una simile sciocchezza al nostro sindaco. Non vorremmo, infatti, che l'idea venga da un altro genio dell'amministrazione comunale. Quel Tommaso Sodano, vicesindaco con delega ai rifiuti, il quale, invece di concentrarsi sulla raccolta differenziata e sull'eliminazione dei cassonetti -risolvendo, in tal modo, il problema alla radice- ha preferito far fuori non solo Raphael Rossi, ma chi, questa battaglia, l'aveva portata avanti, per anni, da consigliere dell'ASIA. Complimenti davvero! E qualcuno si chiede ancora perché, pur avendo sostenuto De Magistris, contro la vergognosa sentenza, tutta politica, che lo voleva far decadere dalla sua carica, io non sia mai stato in piazza. La piazza è una cosa seria. E' il luogo dove si lotta e si difendono diritti sacrosanti. Non un sindaco che, pur dichiarandosi di sinistra e vicino ai più deboli -sindaco di strada, si è autodefinito- adotta poi, all'occorrenza, provvedimenti dal malcelato stampo reazionario e borghese. Semplicemente, per attrarre consensi da quella parte dell'elettorato.

martedì 4 novembre 2014

CITTADINI CONTRO CITTADINI: LE MISTIFICAZIONI SEMANTICHE DEL BLOG DI GRILLO E IL SUO INCESSANTE ATTACCO ALLA RAPPRESENTANZA DEL MONDO DEL LAVORO

Ieri, sul blog di Grillo, a cura della redazione, è uscita un’intervista ad Igor Gelarda, membro della segreteria nazionale del Consap, sindacato di Polizia, dal titolo insultante e tragicomico: Cittadini contro cittadini. Già nell’adozione di quel titolo, difatti, Grillo ed i suoi discepoli chiariscono il loro pensiero reazionario, evidenziando due fattori: uno d’ignoranza abissale e l’altro di malafede. Il primo, di carattere storico-linguistico, attiene all’uso -o dovremmo dire all’abuso- sconsiderato del termine cittadino, che i penta stellati vanno facendo, evidentemente legandolo alla connotazione che, quel sostantivo, acquisì ai tempi della rivoluzione francese. Nella Francia rivoluzionaria, infatti, il vocabolo veniva usato per affermare l’eguaglianza di tutti i francesi di fronte alle leggi. Una parità che, come risulta oramai evidente, lo stato borghese ha progressivamente annullato, a tutto vantaggio di ricchi, politici, notabili e rappresentanti della legge, al suo servizio, i quali, se anche commettono un reato o un abuso di potere, godono della piena immunità. Il secondo, la malafede, con requisiti politico-sociali, va attribuito, credo, al “proprietario” dello stesso blog, e consiste nel mistificare la realtà, secondo le proprie esigenze strategiche e comunicative. In apertura di intervista, infatti, si dice che: «I sindacalisti che hanno organizzato il corteo non potevano non sapere che la deviazione del corteo non era consentita» e, dunque, i poveri poliziotti sono stati costretti , a malincuore, ad usare i manganelli. Ora -a parte il fatto che non c’è stata nessuna deviazione, come dichiarato da Landini e dagli altri operai presenti in piazza- chiunque abbia partecipato a cortei e manifestazioni -che i borghesotti, pseudo rivoluzionari a 5 Stelle, ovviamente non frequentano- sa con quanta pena nel cuore i reparti antisommossa utilizzino la violenza, quando in piazza c’è la sinistra radicale: sia essa rappresentata da centri sociali, gruppi antagonisti, o operai. Di operai e studenti morti, per mano delle questure, è costellata la storia di questo paese. è quindi vergognoso, sentir parlare, per tutta l’intervista, lo sbirro Gelarda, che cerca di giustificare l’aggressione dei colleghi, a carico dei lavoratori delle acciaierie di Terni; e costituiscono una vera e propria offesa all’intelligenza ed alla dignità umana, parole del tipo: «la polizia, durante le manifestazioni, è messa lì a garanzia dell’ordine pubblico, che significa a garanzia della protezione dei manifestanti, dei cittadini e della città». E certo, la Polizia è una garanzia: come a Genova e a Napoli, nel 2001; alla Diaz e a Bolzaneto; come in Val di Susa o nel corso degli sgomberi delle case. Una garanzia: come nei casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Bifolco. E potrei continuare. Ciò che i servi del sistema garantiscono sono violenze, soprusi o, male che vada, la morte!
Ma le armate dell’odierno Savonarola non demordono, e fanno anche sfoggio di cultura sinistrese. Prendendo in prestito, strumentalmente, lo scritto più ambiguo, sbagliato e con più conseguenze, suo malgrado, di Pasolini, “Il PCI ai giovani”, ovviamente decontestualizzato dal clima sessantottino, parlano di scontro tra proletari. Un vero azzardo semantico, a corollario della loro disonestà intellettuale. Data la situazione attuale,a voler essere filologi, i proletari, in quella piazza, stavano tutti da un lato: quello degli operai. Operai che rischiano di perdere il lavoro e lo stipendio; mentre, dall’altra parte, non soltanto c’era e c’è gente stipendiata, ancorché male, ma soprattutto uomini che, grazie alle divise che indossano, sanno di poter contare sulla protezione dello stato borghese, del governo e dei padroni. Quanto accaduto in questi giorni, col caso Cucchi, ce ne da ampia prova. Sul blog del Beppe nazionale, dunque, si da la parola agli operai, alla classe lavoratrice, a coloro che subiscono, oltre alle violenze della crisi anche l’aggressione delle forze dell’ordine? Certo che no! L’odierno Savonarola, moralizzatore della politica italica, il capopopolo Grillo e la sua pletora di contestatori antisistema, che prediligono le passeggiate sui tetti e le piazze virtuali, alle piazze reali, dove avviene il conflitto, questi nuovi rivoluzionari di stampo conservatore –per chi non lo sapesse, non è un ossimoro: Die konservative Revolution (La Rivoluzione Conservatrice, appunto) fu, nella Germania post prima guerra mondiale, quel movimento che riunì intellettuali di destra, avversi alla Repubblica di Weimar, tra cui Carl Scmitt, Ernst Junger, Hugo Von Hofmannsthal, Oswald Spengler, e che costituì il germe iniziale, da cui prese vita, poi, il nazismo- non intervistano gli operai malmenati dagli sbirri, cioè le vittime; bensì gli aggressori, i carnefici appunto. Perché va dimostrato, ancora una volta, quanto qualunque sindacato, ed il concetto stesso di sindacato, sia eversivo e faccia male al mondo del lavoro e delle imprese. Grillo persegue, come dico da tempo, un’ idea corporativistica della rappresentanza del mondo del lavoro. La conciliazione, cioè, tra gl’interessi di parte. Un’idea, com’è noto, fascista. Per chi ha cultura marxista, dunque, da rigettare in toto. La composizione degli interessi di classe è a vantaggio del padronato, da sempre; mentre, per scardinare l’offensiva reazionaria e controriformista in atto, condotta, senza tregua, dalle elite finanziarie contro il mondo del lavoro ed i diritti da esso acquisito, attraverso le politiche neoliberiste, l’unica strada percorribile è il conflitto. Il conflitto Capitale-Lavoro, da cui Grillo si tiene, opportunisticamente, alla larga,
Grillo ed i 5 Stelle, pertanto, dimostrano, ancora una volta, con quest’intervista, di essere, né più né meno, una delle tante facce che il Capitale assume, per spezzare la possibile e pericolosa, per le borghesie, unità delle classi lavoratrici. Per parafrasare Chossudovsky, ed il suo"La fabbrica del dissenso": sono le stesse elite finanziarie a foraggiare movimenti popolari -come quello penta stellato, per intenderci- apparentemente anticapitalisti ed antiglobalizzazione, che non risultino nocivi per quelle stesse elite. Insomma, null’altro che un modo ingegnoso per controllare rischiose derive marxiste. Oramai, si governa non solo costruendo il consenso, ma anche fabbricando dissenso, tramite soggetti venduti agli interessi del Capitale monopolistico. Grillo è palesemente uno di questi soggetti. Basti considerare le sue alleanze europee; le sue oscillazioni, nel quadro politico, sempre all'insegna dell'ambiguità; le sue dichiarazioni razziste; la sua sollecitazione della rabbia viscerale, immediata, mai indirizzata verso un progetto di società, che non si comprende quale dovrebbe essere. Insomma, Grillo svela, giorno dopo giorno, sempre più la sua vera faccia. Quella di un parafascista, al servizio delle borghesie finanziarie. Con Grillo non si cambia. Si finisce dritti tra i denti aguzzi dei padroni.













domenica 2 novembre 2014

GRILLO E LE TANTE FACCE DEL CAPITALE INTERNAZIONALE


Le ambiguità di Landini le ho sempre riconosciute, questo è noto. Il ricorso all' accordo del 10 gennaio sulla rappresentanza sindacale -per inciso, rigettato dagli iscritti FIOM, tramite referendum- al fine di tenere fuori i sindacati di base dalle fabbriche è, diciamolo chiaro, una contraddizione, che non tiene conto della volontà espressa degli stessi operai. In pratica, significa ricorrere al padrone per garantire privilegi alla FIOM; i suoi ambivalenti rapporti col PD celano equivocità intollerabili; come pure le sue aperture di credito a Renzi e ad alcuni dispositivi del Jobs Act. Detto ciò, che Beppe Grillo attacchi Landini, definendo le sue dichiarazioni, fatte durante le cariche della polizia agli operai di Terni, "patetiche sceneggiate", è semplicemente vergognoso. Un insulto alla classe operaia, prima ancora che al segretario della FIOM. Il capo del M5S, non ha mai alzato la voce, infatti, contro Marchionne –se non forse, all’inizio, in qualche breve post, come fumo negli occhi- ed ha sempre evitato, in seguito, di schierarsi nel conflitto tra Capitale e Lavoro, dichiarando, invece, in più occasioni, la sua avversione ai sindacati. E se a questo si aggiungono le sue strumentali dichiarazioni sul superamento delle ideologie, l'interclassismo proprio del Movimento, il suo feeling con i fascisti, ai quali non manca di fare continui appelli -tanto è vero che molti dei suoi passano nelle fila dei nazifascisti di Forza Nuova- il quadro risulta chiarissimo. Grillo e i 5 Stelle, come ho ripetuto più volte, altro non sono che una delle tante facce che il Capitale assume, per spezzare la possibile e pericolosa, per le borghesie, unità delle classi lavoratrici.
Come nota Chossudovsky, in "La fabbrica del dissenso": sono le stesse elite finanziarie a foraggiare movimenti popolari -come quello pentastellato, per intenderci- apparentemente anticapitalisti ed antiglobalizzazione, che non risultino nocive per sé stesse. Insomma, un modo per controllare rischiose derive marxiste. Oramai, si governa non solo costruendo il consenso, ma anche fabbricando dissenso, tramite soggetti venduti agli interessi del Capitale monopolistico. Grillo è palesemente uno di questi soggetti. Basti considerare le sue alleanze europee, le sue oscillazioni nel quadro politico, sempre all'insegna dell'ambiguità, le sue dichiarazioni razziste, la sua sollecitazione della rabbia viscerale, immediata, mai indirizzata verso un progetto di società, che non si comprende quale dovrebbe essere. Insomma, Grillo è un parafascista, al servizio delle borghesie finanziarie, che si approfitta della buona fede di cittadini, stanchi dell'attuale situazione di crisi, economica, politica, morale, e animati dal sincero desiderio di cambiamento. Il problema è che con Grillo non si cambia. Si finisce dritti tra i denti aguzzi dei padroni.

mercoledì 22 ottobre 2014

IN ITALIA, LA LIBERTÀ DI STAMPA È SEMPRE PIÙ UN’UTOPIA E UN PRIVILEGIO RISERVATO AI SOLI GRUPPI FINANZIARI E AI PADRONI. L’INQUISITORE CASELLI VORREBBE METTERE LA MORSA A CONTROPIANO, CONTRO CUI SI APRONO DUE PROCEDIMENTI GIUDIZIARI. SE VORRANNO PORTARCI IN TRIBUNALE, NOI CI SAREMO



Da un po', ho il privilegio di vedere pubblicato, qualche mio articolo, su Contropiano. Giornale comunista ed indipendente. Ora, a quanto pare, due procure vorrebbero mettere la morsa a questo preziosissimo organo di stampa. Due notifiche di apertura di indagini, a carico del giornale, sono state infatti ratificate, dalle procure di Torino e Napoli, alla direzione del quotidiano online.
L'arcigno inquisitore dei No Tav, Gian Carlo Caselli, lo stesso che, che per processare i compagni della Val di Susa, ha rispolverato il reato di terrorismo, intende querelare Contropiano perché si sarebbe sentito diffamato da un articolo comparso sul quotidiano comunista . Mentre, nel caso di Napoli, non si sa per quale pezzo siano state avviate le indagini. Ora, non posso fare a meno di mettere tali atti in collegamento con la discussione, in corso in parlamento, in questi giorni, sulle pene da comminare in caso di diffamazione a mezzo stampa. Caselli ne ha subito approfittato, evidentemente, fedele alla sua linea di giudice repressivo ed anticomunista. Lo stato liberal-democratico italiano, dunque, mostra, ancora una volta, quanto la libertà di stampa, in questo paese ridicolo, sia solo ad appannaggio dei grandi gruppi finanziari e dei padroni, mentre, con i piccoli giornali indipendenti, svela il suo volto repressivo. Tutto ciò va però inquadrato in quella strategia, di più ampio respiro, ormai in atto, da tempo, e non solo in Italia: stroncare ogni voce che si levi alta per dissentire contro quello che, a tutti gli effetti, possiamo definire il fascismo del XXI secolo. il fascismo finanziario, gestito dal capitale monopolistico, a livello globale. Ovviamente, la repressione diventa feroce se, come in questo caso, a dissentire sono forze e voci di estrema sinistra, marxiste, comuniste. Insomma, quelle stesse voci e quelle stesse forze contro cui si scagliò, qualche settimana fa, Roberto Saviano che, del padronato legato al mondo dell’editoria, è il corteggiato e protetto lacchè. A lui è concesso tutto. Anche offendere un’intera città, la sua per inciso, che applaudiva un corteo contro le politiche di austerità, imposte dalla Troika, e che quella città stanno riducendo alla fame. Due pesi e due misure, come sempre, quando si tratta della giustizia di classe e delle libertà accordate dallo stato borghese. E allora, mi viene in mente che, forse, in quanto cittadini e soggetti politici, anche noi, che scriviamo per Contropiano e che, in quanto comunisti, di quella sinistra radicale facciamo parte e a quel corteo partecipavamo con orgoglio, dovremmo querelare Saviano e L’Espersso, per diffamazione a mezzo stampa. Ciò detto, vorrei dire che, per quanto ci riguarda, Contropiano non si tocca. La sua libertà di opinione è inviolabile. Or dunque, se vorranno portare in tribunale il giornale, sappiano che noi saremo lì. A far valere i nostri diritti e a difendere la nostra fetta di Libertà!

martedì 21 ottobre 2014

AL TEATRO ELICANTROPO, CERCIELLO PORTA IN SCENA SIGNURÌ SIGNURÌ DI MOSCATO. NAPOLI, COME TROIA IN FIAMME. IN UNO SPETTACOLO CUPO ED IPNOTICO, TRAGICO E PAGANO ONIRICO E POETICO.



Due sono le battute che condensano il senso profondo, direi quasi ontologico, di “Signurì, Signurì”, lo spettacolo tratto dall’omonimo testo di Enzo Moscato e messo in scena, al Teatro Elicantropo, dagli allievi del Laboratorio Teatrale Permanente, diretti, come sempre, da Carlo Cerciello: « Oh città! Oh Città!… perché non temi i Greci, anche quando ti portano i doni?» e «Ha da passa’ ‘a nuttata». La prima, l’autore la mutuava dal II libro dell’Eneide di Virgilio e, precisamente, evoca le parole pronunciate da Laocoonte, quando vuol dissuadere i troiani dall'accogliere, dentro le mura di Troia, il cavallo di legno, lasciato sulla spiaggia dagli Achei; la seconda, invece, che chiude testo e spettacolo, Moscato la traeva, come si ricorderà, dall’epilogo di “Napoli milionaria”, di Eduardo, apportando, però, una sostanziale e allegorica variazione: nel dire tali parole, il personaggio che le pronuncia viene colto, alle spalle, da un secondo personaggio, che lo uccide brutalmente, con un colpo alla nuca. E, considerando che l’autore della pièce sia, appunto, Moscato, e che, la vera protagonista dello spettacolo in parola, sia Napoli -topos letterario, artistico, musicale, drammaturgico e, conseguentemente, sociale e politico- il valore simbolico di quelle battute e di quella variante sul tema, si possono, a questo punto, facilmente intuire. La prima, infatti, allude, inevitabilmente, alle tante dominazioni subite da Napoli e dal suo popolo, oramai incapace, dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’avvento degli alleati in poi, di distinguere doni ed inganni. Mentre la seconda, più amara, cupa, drammatica, quasi ineluttabile, ha una doppia valenza: da un lato, quello drammaturgico, una valenza di tipo culturale, riferendosi alla tradizione teatrale ed alla novecentesca “paternità” eduardiana; dall’altro,quello della scrittura scenica, una valenza più prettamente politica. I due registri, ovviamente, si compenetrano. Infatti, se nello scrivere quel testo, Moscato lascia intendere, da subito, come nota, giustamente, Enrico Fiore, ne “Il Rito, l’esilio, e la peste”, quale sia il suo «atteggiamento ribelle, nutrito nei confronti delle troppe paternità, illustri o meno, che soffocano, a Napoli, l’espandersi di una ricerca teatrale autonoma e, in generale, uno sviluppo degno del nome, sul piano culturale, politico e civile»; sul versante del codice spettacolare, e del segno puramente scenico, quella battuta, seguita dalla freddezza dello sparo, va oltre, sfociando in un mare nero di pessimismo. Ad essere barbaramente fatta fuori, infatti, non è solo una tradizione, che pure andrebbe necessariamente superata –tradizione deriva dal latino tradere: consegnare, trasmettere; ma anche tradire- soprattutto, tuttavia, la speranza . Le tenebre, infatti, sembrano sempre più avvolgere e sprofondare Napoli, con tutto il suo retaggio ed il suo lignaggio di capitale culturale, in un abisso senza risalita. Non so quanto Moscato, nel lavorare al testo, abbia voluto sottintendere proprio quest’aspetto ma, nella messinscena fatta da Cerciello, all’Elicantropo, quella sensazione, disperata e disperante, mi ha assalito, con tutta la sua durezza e crudeltà.
D’altronde, ci terrei a ribadire, che la Napoli descritta da Moscato in “Signurì Signurì” –primo testo dell’autore ad essere rappresentato, nel 1982- liberamente ispirandosi a “La Pelle”, di Curzio Malaparte, è una città ancestrale e magica, puerile ed innocente, decadente e corrotta, stupendamente preda e, quindi, depredata dai vari dominatori che, nel corso della Storia, si sono succeduti, e dei quali gli americani, giunti alla fine del II conflitto mondiale, non sono che gli ultimi, in ordine di tempo. Ognuno con i propri ingannevoli cavalli, mascherati da doni, lasciati sulle spiagge partenopee. Napoli, insomma, come una novella Troia: stuprata e saccheggiata. Se per il passato, però, Napoli era riuscita a preservare sé stessa, la sua cultura, la sua tradizione, assimilando e stratificando, nel suo composito corpo-lingua, anarchico e osmotico, le civiltà dei suoi conquistatori, rielaborandole, intimamente, in un sorta di sincretismo filosofico e culturale, artistico e religioso, che sfiorava il paganesimo e l’ebbrezza dionisiaca: «Napoli è la più misteriosa città d'Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli», dice, ad un cero punto, proprio ne “La pelle”, Curzio Malaparte; se era riuscita a sopravvivere, ed a sopravviversi, anche cristallizzandosi, quasi per difesa, esternamente, in una più semplicistica immagine oleografica e folkloristica, i cui tratti distintivi sembravano immutabili: il sole, il mare, il mandolino, la canzone; è solo con l’avvento degli americani, che Partenope comincia a smarrire veramente sé stessa. La prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, prima, e l’occupazione nazista, poi, avevano rappresentato una ferita, meglio, uno strappo, una lacerazione, aperti nel ventre molle della Storia, in generale, e in quella di Napoli, in particolare. Con i due conflitti, susseguitisi nel breve arco di vent’anni, veniva spazzato via un mondo, quello delle monarchie e delle aristocrazie e, di contro, un mondo arcaico e contadino; mentre le borghesie s’ imponevano, definitivamente, con tutto la potenza del loro denaro, dei loro capitali, delle loro industrie. Quel processo, che era cominciato con la prima rivoluzione industriale ed era proseguito per circa un secolo e mezzo, veniva, finalmente, a compimento. Gli equilibri strategici e geopolitici mutavano radicalmente, ed il centro del mondo si spostava, dalla vecchia Europa, agli Stati Uniti d’America. Il concetto di imperialismo, però, restava immutato, e Napoli, come tutti i sud del mondo, era costretta a pagare dazio alla modernità. Un tributo altissimo, che l’ex capitale del Regno delle due Sicilie aveva cominciato a versare sin dall’Unità d’Italia, realizzatasi sotto la bandiera savoiarda. Ora Napoli, prima città a liberarsi dal giogo nazista, grazie al coraggio ed al sentimento, ribelle e libertario, che alberga in fondo al suo popolo, cercava di riscattarsi e tentava, forse, di prendere al volo il treno di quella modernità. Così, ai suoi occhi, il cosiddetto esercito di liberazione alleato, sembrava il giusto aggancio per cogliere quell’opportunità. Non bisognava più emigrare: l’America era venuta a casa nostra. Ma quell’esercito, lungi dall’essere liberatore, era null’altro che una nuova milizia di occupazione. E, come si sarebbe poi rivelato nel tempo, la peggiore. I doni che portano con sé, quei novelli Achei, altro non sono che dollari, con cui comprare Napoli e la sua gente. Soprattutto le donne ed i bambini. E Napoli, stanca per le troppe e secolari sofferenze, affamata e ridotta in miseria, si prostituisce, carnalmente e moralmente. Il prezzo da pagare, però, è ovviamente altissimo: l’inesorabile smarrimento di sé stessa, congiunto ad una lenta ma irrimediabile perdita d’identità culturale, da abdicare a favore del dio denaro e di quello sviluppo che, come giustamente notava Pasolini, poco ha a che vedere col progresso. D’altro canto, è stato il destino di tutte le grandi metropoli europee, smarrire sé stesse, dopo la seconda guerra mondiale e con l’avvento, prima dell’industrializzazione forzata e della società tecnologica, e poi, in epoca più recente, della livella globalizzante. E' lo stesso Malaparte, del resto, ad ammonire, in un altro passo de “La Pelle”: «Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell'Europa di diventare Napoli».
Tuttavia Napoli, in un primo momento, prova a resistere, a questa nuova aggressione, adattandosi e trasformandosi; trasformando, però, anche la sua tradizione culturale, in un’ immagine oleografica, da vendere a buon mercato: sulle bancarelle o nei teatri, nei libri o tra i suoi stessi vicoli. E' invece il mercato, con le sue leggi omologanti, a cannibalizzare Napoli e la sua originalità. La borghesia, un tempo illuminata, si allea con la politica e la camorra e fa, della sua stessa città, una tavola a cui sedersi e banchettare. Non più né meno di come avevano fatto gli americani. Ma uno spirito anarchico, complesso, dionisiacamente sospeso tra le forze pulsionali di eros e thanatos, è difficile da domare. Napoli e la sua gente non ci stanno, ad assoggettarsi alle regole imposte da un mondo disciplinato da leggi astruse, che non gli appartengono. Pare quasi di riascoltare Filumena Marturano, quando, davanti all’avvocato Nocella, che le mostra il codice, risponde: «Io nun saccio leggere e po' carte nun n'accetto!» E allora, Napoli sceglie. Sceglie thanatos. Un lento ma inesorabile suicidio. Un suicidio per inedia. è lo stesso Pasolini, ad intravedere i germi di questa morte, denunciandone il fatale processo, in anni lontani, e risultando, ancora una volta, purtroppo, buon profeta: «Io so questo: che i napoletani, oggi, sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso -in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte- di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o, altrimenti, la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività, contro cui non c'è niente da fare. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri. I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all'ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili». Sembra davvero una voce oracolare. E pensare che, proprio in quegli anni, la nostra città viveva un sussulto di orgoglio sociale, culturale e politico. In quel solco, in quell’humus culturale ed in quelle contraddizioni che Napoli, come sempre, viveva, va ad inserirsi la stesura di “Signurì Signurì”. Moscato, autore attento e sensibilissimo alla realtà cittadina, denuncia la decadenza di una metropoli, perennemente in guerra con sé stessa –sono anche gli anni, da un lato, delle più sanguinaria guerra di camorra che Napoli abbia mai vissuto, e, dall’altro, di un impegno politico, appassionato ed estremo, come mai si era visto- intellettualmente antinomica e socialmente conflittuale, dove il modernismo, più che la modernità, sta attuando una mutazione genetica, che rischia di alterarne, per sempre, il volto. Allo stesso tempo, però, coglie, sul piano antropologico, una prospettiva positiva, in tutto ciò: Napoli potrebbe, facendo reagire tra loro tradizione e contemporaneità, passato e presente, rinascere, ancora una volta, culturalmente e politicamente, da sé stessa. Non dimentichiamo che, in quel periodo, si imponeva, soprattutto in teatro, l’avanguardia, e Napoli diceva, a pieno titolo, la sua. Pertanto, a ben leggerla, quell’opera prima racchiudeva in sé un grido di dolore ed una lecita speranza. Una speranza che, purtroppo però, si è andata ad infrangere, negli anni a venire, contro gli aguzzi scogli di una realtà sempre più prevaricatrice, sfibrante, violenta e mortificante. Una realtà, sia ben chiaro, all’imporsi della quale hanno contribuito tutti: politici e cittadini, popolo e borghesi. Uniti, sebbene con motivazioni diverse e divergenti, e con le le diverse responsabilità, derivanti dal proprio status sociale ed economico, in una sorta di pantoclastia nichilistica. Che nessuno si assolva, dunque!
Ebbene, proprio questa sconsolante e tragica presa d’atto costituisce, a mio modesto avviso, sulla scorta di quanto si è detto finora, il cuore, filosofico e formale, dell’allestimento andato in scena all’Elicantropo. Cerciello non si discosta dal testo moscatiano e dall’amara ironia che lo pervade, ma ne fa risaltare, adottando una cifra in bilico tra dramma e cabaret espressionista –maneggiando una simile materia, la scelta sembra quanto mai adeguata- la cupezza, la disperazione, la tanatoica visceralità. La Napoli, cui assistiamo al teatro di Via dei Gerlomini -che, quest’anno, festeggia il suo diciannovesimo anno di vita, sempre all’insegna dell’impegno civile e resistenziale- è una Napoli che, oramai disillusa ed agonizzante, non ha più la forza di reagire per salvare la pelle –appunto il titolo del romanzo di Malaparte- come aveva fatto, invece, alla fine della seconda guerra mondiale. E’ Troia, definitivamente in fiamme. L’immagine, il segno scenico, che meglio sintetizza questa tristissima realtà, è quello di un Pulcinella/Zeza posto su una sedia a rotelle, maschera sdoppiata e metafora di una città franta, schizofrenica, disintegrata, inghiottita dalle sue stesse polimorfie socio-antropologiche, dalle sue polifonie linguistiche, dalle sue mille vite e dai suoi mille segni, o -per parafrasare lo stesso autore- dalle sue polisemantiche “babelicanti”: « Lengua? E che mi abbisogna di una lengua a me? Ne tengo ciente, ‘e Menelicche e una, di soppiatto, ‘e fuoco...e abbruscia, abbruscia, cupole e ciardine[...]Si je voglio, cu’ nu sciuscio San Ferdinando crolla, e Capemonte ‘a sposto da sinistra a fronte...‘A Galleria? Si me ‘ngrife, è ‘a mia! ‘A Floridiana? Ma metto ‘mmiez’o ppane! ‘A Duchesca? Zi’ Carmè, mescafrancesca! Marechiare? Mergellina? Stamme ‘nzieme ogni matina! Tina? Mattutina? Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo. Chissà dove sarà! Sarà? Non sarà? Avverrà? Chissà! Orsù,facimme ‘ e serie! Non prendete la mia anima per viva[…] No!Nun voglio int’a chesta valiggia‘e dische rutte aspettà l’ora d’a morte...Ma si guarde, veco ‘na cosa sola, solamente scheggia, crastule, frammente...e allora...e allora...No, nun vale ‘a pena‘e se pentì » dice Zeza/Pulcinela, durante il suo monologo.
Una città in crisi, dunque, che non riconosce più sé stessa ed il suo passato, e non sa, o non vuole guardare, al futuro. I tanti quadri che compongono questo spettacolo nero, inquietante, meravigliosamente crudele, in senso artaudiano, ci parlano di tutto ciò, fondendo insieme le tante “facce” di Napoli. Su di essi, la regia di Cerciello lavora, tessendo una partitura scenica in cui ogni singolo elemento funziona, senza stonature. E così, davanti ai nostri occhi, si vengono costruendo visioni, che sembrano salire dagli stati crepuscolari della nostra coscienza malata. Il teatro e la realtà si confondono, sul filo di una soglia sottilissima. Guappi incerottati, sciantose ridotte a bambole automatiche, figure fantasmatiche, maschere demoniache, monache avvezze ai piaceri della carne –la Chiesa, altro potere che ha divorato e fatto scempio di Napoli- prostituzione, stupri e atti cannibalici si susseguono, in un rincorrersi incessante tra verità e verosimiglianza, cronaca e romanzo, teatro e vita vissuta. Visioni ipnotiche, oniroidi, poetiche, pagane ed arcaicamente simboliche, sotto cui scorre, però, come un fiume in piena, la violenta ironia deformante, come in un film di Quentin Tarantino. Visioni ai limiti dell’incubo, i cui riferimenti più immediati mi sembrano Lynch e Kubrik. E allora, a tale proposito, mi corre l’obbligo di citare le bellissime coreografie, curate da Cinzia Cordella. Ed in particolar modo, vorrei menzionare una sorta di sabba stregonesco che, con l’ausilio delle maschere, ha evocato in me, appunto, tanto il Kubrik di “Eyes wide shut “ che il Lynch di “Inland Empire”; come pure, le movenze da automa di una sciantosa, oramai fissata, dall’oleografia imposta dal mercato, in un insieme di gesti coatti, sincopati, stereotipati, innaturali. Spettacolo tragico e corale, infine, con richiami desimoniani, nei primissimi quadri. Ma anche, vogliamo dirlo, spettacolo catartico, nel suo pur cupo pessimismo. Sì, perché da quel teatro si esce scossi, certo, ma con in sé la voglia di non arrendersi, di non lasciarsi sopraffare e di mettere in piedi l’ennesima palingenesi partenopea. Una palingenesi, d’altronde, i cui embrioni sono già in atto negli splendidi, motivatissimi, entusiasmanti ed emozionanti allievi del Laboratorio Teatrale dell’Elicantropo. Tutti bravissimi!

giovedì 16 ottobre 2014

CROLLANO LE BORSE? OVVIAMENTE, È TUTTA COLPA DELLA GRECIA!



E c'è pure qualcuno che ha la vergognosa sfrontatezza di venirci a dire che non c'è altro modo, per uscire dalla recessione, se non approvare le politiche di austerità. O che la battaglia per i diritti della classe lavoratrice è vecchia e che, tuttalpiù, andrebbe fatta in maniera pacifica e meno marxista. Gli speculatori finanziari, i grandi trust e la Troika (Bce, Ue e Fmi) che ne cura gli interessi, sul versante politico, invece, procedono spediti con la loro Lotta di Classe padronale. Non si accontentano di mettere in ginocchio paesi e popoli. No, loro ne vogliono il sangue.
Potete giurarci, noi finiremo come la Grecia! La quale, dopo aver applicato le ricette recessive imposte dai trattati di Maastricht e dal famoso patto di stabilità -o fiscal compact- aver cancellato diritti, licenziato operai e lavoratori statali, tagliato salari, ridotto al di sotto del livello di sopravvivenza le pensioni, reso precario il futuro dei giovani; dopo aver privatizzato tutto il privatizzabile e aver massacrato lo stato sociale, tagliando, in modo lineare, la spesa pubblica, causando la chiusura di ospedali e lo sventramento di settori nevralgici come scuola, cultura e conoscenza, è ancora sotto lo schiaffo dei pescecani del mercato. E, non appena spera di potersi liberare dai vincoli della Troika, i mercanti la puniscono e fanno crollare gli indici di borsa. Se non è dittatura questa –ricordo che l’etimologia latina di dittatura è dictatura: dettatura; da cui, anche il tedesco diktat: ogni imposizione unilaterale di volontà, che esclude la possibilità di negoziati- mi domando: come la dovremmo definire? Ma no, lor signori ci rassicurano: siamo in democrazia. Un nuovo tipo di democrazia, evidentemente. La democrazia delle oligarchie finanziarie. Democrazia fascista!





sabato 11 ottobre 2014

STATO DI DIRITTO O STATO D’ECCEZIONE?



Esprimere solidarietà a due mafiosi del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, come ha fatto Sabina Guzzanti, può forse essere eccessivo, benché sia chiaro l'intento provocatorio: prima ci trattate, con i mafiosi, e poi, a vostro piacimento, ne sospendete le prerogative giuridiche! E, molto probabilmente, la Guzzanti lo ha anche fatto per attirare l'attenzione sul suo ultimo film, "La Trattiva", che bene pare non stia andando. Ciò premesso -e tralasciando la Guzzanti, di cui qui non si vuole assolutamente parlare- è fuori discussione che, nel caso della deposizione di Napolitano, dinanzi ai giudici di Palermo, per il processo sulla presunta trattativa stato-mafia, sia stato commesso un abuso di potere e siano stati violati i diritti elementari dei detenuti, incorrendo nel probabile rischio che l’intero procedimento venga annullato. Forse, è proprio quel che si vuole.
Senza però indulgere ad inutili dietrologie, mi limiterei ad osservare che o si è in uno stato di diritto, o si è in uno stato d'eccezione. D’altronde, come sosteneva, in "Teologia politica”, Carl Schmitt -torico di quella Rivoluzione Conservatrice che rappresentò il brodo di coltura da cui nacque il nazismo- enucleando la tesi per cui la sovranità deriva dallo stato di eccezione e non dal popolo: “Sovrano è chi decide nello stato di eccezione”. Ecco, l’Italia, nello stato d’eccezione, ci vive da tempo; e di sovrani che abbiano deciso e decidono extra legem, ne ha avuti tanti. Basti ricordare le Leggi Speciali, in materia di terrorismo, varate durante i cosiddetti anni di piombo. Dispositivi ai limiti dell’incostituzionalità, come la Legge Reale (1975) e la Legge Cossiga (1980). Strumenti, di cui hanno pagato lo statuto repressivo decine di compagni, scontando anni ed anni di galera, solo perché sospettati di banda armata. Di questi tempi, in cui la repressione del dissenso sta raggiungendo limiti francamente intollerabili, è bene ricordarle, certe cose. Anche perché, se Riina e Bagarella sono, senza dubbio, due criminali della peggior risma, i compagni appartenenti al Movimento NO TAV -Claudio Alberto, Mattia Zanotti, Chiara Zenobi e Niccolò Biasi- tanto per fare un esempio, certo non lo sono. Ma contro di loro, si è proceduto ugualmente, ignobilmente ed in deroga a qualunque senso di giustizia, per il reato di terrorismo, solo per aver danneggiato un compressore, durante l’attacco al cantiere di Chiomonte, il 14 maggio 2013. Surreale, grottesco, allucinante cme un incubo kafkiano. La loro colpa, in realtà, ben più grave, risiede nel non essere inclini ad accettare, passivamente, lo scempio delle nostre vite, consumate dal sistema capitalistico e dalle sue inique regole di mercato. Dunque, in conclusione, è sempre bene discernere tra uno stato di diritto ed uno stato in cui la legalità, divenuta solo formale, può degenerare in legalitarismo. Fu appunto questo il presupposto delle dittature fasciste e del nazionalsocialismo. Insomma, si comincia coi mafiosi e si finisce per sospendere i diritti ai normali cittadini. Del resto, è quel che sta gia accadendo!
Lascerei però la chiosa, a questa breve riflessione, ad un certo Vittorio Alfieri, sul concetto di tirannide: «Tirannide: indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».