In questo paese, la strategia della tensione non si è mai conclusa, continuando ad essere, ciclicamente, il principale strumento, utilizzato dallo stato borghese, per reprimere il dissenso. In questi giorni, infatti, dopo la sentenza della Corte d'Assise di Torino, che ha assolto dall'accusa di terrorismo i quattro compagni No Tav, smontando il ridicolo teorema costruito dai Pm -ricordiamo che Claudio, Niccolò, Mattia e Chiara sono stati condannati, comunque, a tre anni e mezzo: un'enormità per due bengala, una molotov e un compressore rotto- il Ministro dei trasporti, Maurizio Lupi, ha intrapreso la sua crociata personale contro quella stessa sentenza, sostenendo che è stato un grave errore la cancellazione del reato di terrorismo. Da allora, guarda caso, come uno strano meccanismo ad orologeria e come un film già visto troppe volte in Italia, stiamo assistendo ad una serie di attentati contro i treni dell'alta velocità. Dopo le dichiarazioni del ministro, e a seguito di tali attentati, non potevano mancare, poi, quelle, insinuanti ma chiarissime nel loro portato repressivo, dell'ex magistrato, l'inquisitore Giancarlo Caselli -primo architetto del teorema terroristico da applicare ai No Tav- che parla, riferendosi al movimento valsusino, di "ondata di violenza che si pone al di fuori della democrazia".
Or dunque, vorrei ricordare qui, che la strategia della tensione, in Italia, negli anni caldi che andarono dalla fine dei '60 alla metà degli '80, ebbe proprio negli attentati ai treni -Italicus, Strage di Bologna, Strage 904, gli episodi più tragici e più impressi nella memoria collettiva- una parte considerevole della sua logica militare e stragista. Logica che, come poi si è svelato nel corso degli anni, ebbe nelle forze neofasciste, in complicità con quelli che vengono detti Servizi Segreti deviati -ma che altro non sono che lo Stato italiano- gli elementi di realizzazione ed ideazione degli attentati.
Fatte tali premesse, quindi, e a proposito di fuoriuscita dalla democrazia, c''è da chiedersi, e seriamente, cosa stia preparando lo stato "democratico-liberale" per arginare il dissenso alle politiche reazionarie e di classe -in tale quadro rientra la costruzione della TAV- che, inevitabilmente, si farà sentire, nei prossimi mesi, nel nostro paese, martoriato, come pochi, dalla crisi. L'ondata repressiva, contro i movimenti e le forze antagoniste, di matrice marxista, è già in atto da tempo. I servi di regime delle forze dell'ordine non perdono occasione per manganellare ed arrestare chiunque, nell'area dell'antagonismo comunista o anarchico, manifesti la propria contrarietà ai governi che, sotto i diktat della Troika, stanno procedendo, in materia di lavoro e di diritti, sulla strada delle controriforme, asfaltando e macellando il tessuto sociale italiano. Gli attentati ai treni di questi giorni, a seguito delle parole del ministro Lupi, sono a dir poco un segnale inquietante. E mi chiedo, pertanto, se non vadano considerati prodromi di una nuova e mai sopita strategia della tensione. Come disse Marx: «La civiltà e la giustizia dell'ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest'ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e vendetta ex lege». Sappiano, però, che se l'idea è tornare a governare con le bombe e con le stragi l'Italia, com'è già successo circa quarant'anni fa, oggi come allora, non staremo a guardare e risponderemo colpo su colpo.
Rothko Chapel
venerdì 26 dicembre 2014
venerdì 12 dicembre 2014
MEMORIA
Un paese senza memoria è un paese senza storia,
senza presente, senza coscienza di sé e, dunque, senza coscienza civile e
sociale. Un paese, in pratica, che non sa quali siano i propri doveri e, cosa ancor più grave, quali i
propri diritti. Ebbene, un paese siffatto, un paese come l’Italia, si merita il
PD ed il PDL, insieme al governo. Si merita la demagogia, ancorché volenterosa,
dei Cinque Stelle. E si merita Renzi, Berlusconi, Grillo, Casaleggio, il
razzista Salvini, Monti, Alemanno, la mafia e la fascisteria ad essa
collegata. Fintantoché gli va bene. Poi, forse, se le cose dovessero
precipitare, anche qualcosa di peggio. E’ un paese, l’Italia, che, mi si passi
il temine, se ne strafotte di sé stesso, ed il cui popolo si lascia vivere, in
balia degli eventi, delegando ad altri il proprio destino. State sereni, che il
capitalismo ed il trionfante modello neoliberista vi stanno portando via anche
la dignità, se ancora ve n’è rimasta una! Per questo paese e per questo popolo, a volte, penso che non valga
neanche la pena lottare ed incazzarsi. Men che meno, scrivere. Però, la passione
prende il sopravvento, il più delle volte, e allora diventa un dovere etico
farlo. Come oggi, che è d’obbligo ricordare….
Giuseppe Pinelli. Angelo Scaglia, Attilio Valè,
Calogero Galatioto, Carlo Gaiani, Carlo Garavaglia, Carlo Perego, Carlo Silva,
Eugenio Corsini, Gerolamo Papetti, Giovanni Arnoldi, Giulio China, Luigi
Meloni, Mario Pasi, Oreste Sangalli, Paolo Gerli, Pietro Dendena, Vittorio
Mocchi.
Sono i nomi
dei morti di quel giorno. 12 dicembre 1969.Quarantacinque anni fa. Piazza
Fontana. Strage fascista. Strage di Stato. Quarant'anni di processi farsa, ma
nessun condannato. E, nel 2005, ai parenti delle vittime sono state addirittura
addebitate le spese processuali. Questa è la democrazia liberal-capitalistica.
Questa è la giustizia borghese, per usare un termine in voga proprio negli
anni’70.
Ho voluto ricordarli, quei 17 morti più uno, di
quel lugubre e tragico giorno, partendo
proprio da colui che, suo malgrado, è divenuto un simbolo. Il compagno
anarchico Giuseppe Pinelli, detto Pino.
Pino fu defenestrato, nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre, da una
stanza della questura di Milano. La stanza del commissario Calabresi, che lo
aveva fermato e lo stava interrogando, da alcuni giorni, insieme ad altri uomini al suo comando. E già, perché, ovviamente, i primi ad essere
sospettati di quella strage furono gli anarchici e gli ambienti della sinistra
radicale. Anzi, quella strage fu compiuta proprio in nome dell'anticomunismo e
per addossare al “pericolo rosso” la responsabilità di quel vile attentato.
Erano
anni caldi, anni di Lotta di Classe,
quelli che erano iniziati col ’68. Anni di lotte durissime, da parte della
classe operaia e degli studenti, uniti per la conquista di quei diritti che,
oggi, si stanno allegramente cancellando. Furono gli anni di quella che sarebbe stata poi denominata,
con una locuzione divenuta inquietante, “strategia della tensione”. Anni
durante i quali si succedettero svariati
tentativi di golpe, da parte delle forze armate e di pezzi dei Servizi Segreti
–SID, SISMI, SISDE- in combutta con fascisti (Freda, Ventura, Zorzi, Maggi,
Giannettini: ovvero l’agente Z) massonerie (Gelli e la P2), mafia. Anni che avrebbero portato una generazione ad
imbracciare le armi, per contrastare il rinnovato pericolo fascista, tenuto al
caldo da partiti di governo, come la DC. Una generazione che volle dare
l’assalto al cielo, ma senza riuscirvi e pagando, a quello stato che ha
governato con le bombe i propri cittadini, a quello stato stragista, a quello
stato fintamente democratico, ma essenzialmente autoritario, un prezzo
altissimo.
Non è cambiato molto, come si intuisce, in 45 anni,
nel nostro paese. Anzi, le cose, a ben guardare, sono pure peggiorate. Il
pericolo autoritario torna, ma non solo assume la faccia bonaria di un Renzi
qualsiasi, ma non trova, sulla sua strada, nessuno pronto a contrastarne gli
abusi e le violazioni dei diritti, costituzionalmente garantiti. Per il commissario Luigi Calabresi, invece,
per quello che personalmente ritengo, assumendomene il peso, il responsabile
principale, morale o effettivo non importa, dell’assassinio di Pinelli, insieme
al suo superiore, Antonio Allegra e al questore Marcello Guida –famoso perché a
lui Pertini non volle stringere la mano, essendo stato egli uno dei carcerieri
fascisti al confino di Ventotene- oggi è stato addirittura avviato il processo
di beatificazione. E sì, perché non bisogna
dimenticare che, negli affari della politica italiana, malgrado il suo
potere temporale sia nominalmente cessato, c’entra sempre il Vaticano. Quel Vaticano che, proprio in quegli anni, ha stretto mani e patti con
i peggiori criminali del mondo –Pinochet su tutti- e che ha sempre portato
sugli altari assassini ed infami della peggior specie, basta che avessero il requisito dell'anticomunismo. E non mi si venga a dire che la magistratura,
nella persona del giudice Gerardo D’ambrosio, ritenne Calabresi estraneo
all'assassinio di Pinelli. Perché, su quella vicenda, la magistratura si è
giocata la faccia e la sua reputazione, una volta per sempre. D’Ambrosio, infatti, scagionò Calabresi e gli
altri, coniando una nuova fattispecie medico-giuridica: il malore attivo. Preso
da malore attivo, Pinelli si sarebbe gettato dalla finestra. La sfrontatezza
del potere e la viltà dei cittadini, insieme alla mancanza di memoria,
sembrano, dunque, il principale collante
di questo paese ridicolo, come può essere ridicola solo la tragedia. Un paese
sostanzialmente reazionario, piccolo borghese, moralista.
martedì 2 dicembre 2014
LA LEGA AL SUD? NESSUNA MERAVIGLIA.
Molti si chiedono, in questi giorni, come mai, Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, abbia deciso di fare campagna elettorale anche al Sud e, soprattutto, come possa sperare di ottenere consenso. Chi si pone queste domande, a prima vista legittime, parte da un presupposto sbagliato e non fa i conti con una questione politica fondamentale. Il presupposto è che la Lega Nord, appunto, sia legata esclusivamente al territorio padano. La questione politica, invece, di natura più sottile e profonda, attiene all'essenza stessa del movimento delle leghe. Movimento che, se si configura, in prima istanza, con peculiarità tutte territoriali, ha, su un terreno più specificamente culturale, prospettive ben più ampie e inquietanti. La matrice ideologica di questi movimenti, infatti, è decisamente fascista. In tal senso, quindi, la Lega Nord e Matteo Salvini ritengono, a ragion veduta, di poter raccogliere consensi anche al Sud. Razzismo, retorica demagogica, nazionalismo spinto, elitarismo, anticapitalismo in chiave di protezionismo economico, corporativismo, conciliazione capitale-lavoro, tutela degli interessi minuti della piccola e media borghesia, anticomunismo sono, infatti, i cardini dottrinali attorno ai quali ruota la Lega e, pertanto, riconducibili ad una realtà ben più vasta che non quella esclusivamente padana.
Basti pensare, infatti, che verso la metà degli anni ottanta, quando l' MSI e l’estrema destra erano in forte crisi, dopo l’orgia stragista degli anni ’70, anche al meridione -dove il partito di Almirante riscuoteva un certo successo- si cercava di rimettere insieme i pezzi di quella sponda politica, ed una delle tante forme che prese il neofascismo, allora, anche se per breve tempo, fu la Lega Meridionale. Un movimento fondato dall'avvocato Egidio Lanari, dal gran maestro siciliano, Giorgio Paternò, dal pugliese Cosimo Donato Cannarozzi e dal calabrese Enzo Alcide Ferraro, e capeggiato, a Napoli, dall’ex senatore del Movimento Sociale, vicino alla Cisnal e rautiano di ferro, Domenico Manno. Un fascista con tutti i crismi. Dunque, si comprende facilmente, a questo punto, come non sia assolutamente peregrina l’idea di Salvini di venire a raccogliere consensi al mezzogiorno. La sua è, difatti, a tutti gli effetti, propaganda fascista. D’altronde, lo stesso segretario della Lega Nord proviene, politicamente, da ambienti vicini a Terza Posizione e agli ex ordinovisti, come Borghezio. Inoltre, Salvini ha avuto anche l’imprimatur di uno dei teorici contemporanei del neofascismo: quell’Alain de Benoist, intellettuale, fautore dei regionalismi, dell’interclassismo e del superamento degli steccati tra destra e sinistra. In pratica, il modello terzoposizionista, oggi tornato tanto di moda. Ricordiamo che Terza Posizione fu fondata, negli anni settanta, più o meno con gli stessi presupposti, e teorizzando il nazimaoismo -un'indigesta miscellanea, che blaterava di comunismo aristocratico, di cui il corifeo principe fu lo stragista Franco Freda- da Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri e da Roberto Fiore, che sarebbe stato, in tempi recenti, il fondatore di Forza Nuova. Dunque, un movimento dalla chiara impronta neonazista. Come, d'altra parte, la Lega di Salvini, pur se con toni più sfumati. Ed ecco spiegato anche il motivo per cui la Lega riesce ad erodere consensi ai 5 Stelle. Su svariati punti -vedi la retorica xenofoba di Grillo, il suo interclassismo, la sua voglia di superare il conflitto facendo fuori i corpi rappresentativi intermedi, come i sindacati, il suo anticomunismo- la Lega appare più decisa e chiara. Anche perché, a differenza dei penta stellati, ha un progetto di società ben preciso. Cosa che i cinque stelle, per loro natura, non possono avere. Difatti, non pochi grillini trasmigrano, poi, in Forza Nuova o Casa Pound.
Nessuna meraviglia, pertanto, se Salvini scende al sud a fare campagna elettorale. La possibilità di rinverdire i fasti, all'epoca, a dire il vero, poco gloriosi, della Lega Meridionale, è a portata di mano, in un periodo di crisi tanto duro e lungo, che ha esasperato gli animi, mettendo i cittadini ed i lavoratori gli uni contro gli altri, in una pericolosissima guerra tra poveri. Una guerra che, il fascismo, come sempre, seppur in diverse forme, si propone di gestire, con l'avallo delle grandi borghesie capitalistiche. Attenzione, quindi, anche qui al meridione, ad avallare, da sinistra, retoriche regionalistiche e territoriali. Quella dei comunisti deve essere una battaglia per l'internazionalismo, sebbene nel rispetto, certo, dell'autodeterminazione dei popoli. Dietro il territorialismo della Lega, invece, si cela, ma neanche tanto, la faccia sporca del neofascismo italiano.
sabato 29 novembre 2014
L'ORDINANZA CLASSISTA DEL GENIO DE MAGISTRIS
Il nostro sindaco, Luigi De Magistris, che, a chiacchiere, scavalca a sinistra anche il più fervente marxista-leninista, ma nei fatti, spesso, si è mostrato e si mostra più democristiano di un vecchio doroteo, ha tirato fuori, dal suo cilindro, l'ennesimo bel coniglio bianco. Vogliamo dircelo? Quest'uomo è un genio!
Con un'ordinanza, infatti, viene fatto "divieto a tutti, cittadini italiani, stranieri comunitari ed extracomunitari di rovistare nei contenitori della spazzatura, di asportare e trasportare rifiuti di ogni genere prelevati dai suddetti cassonetti." e si stabilisce che "i trasgressori alla violazione della presente ordinanza, siano puniti mediante l'applicazione della sanzione pecuniaria di euro 500,00. ai sensi dell'art. 7 bis TUEL e dell'art. 16 della legge del 24 novembre 1981 n°689 e s. m. i . e con la distruzione immediata dei rifiuti prelevati dai cassonetti della spazzatura e delle attrezzature utilizzate per il contenimento e trasporto degli stessi."
La ragione di tale provvedimento, risiederebbe nel tentativo di stroncare il mercato illegale dei rifiuti. Peccato che, spesso, chi rovista nei cassonetti, lo faccia per fame o perché, appunto, essendo extracomunitario, non ha altre risorse per sopravvivere, se non quella di raccogliere monnezza. Dunque, un'ordinanza che si configura come classista e, a ben considerare, anche dal vago sapore razzista. Oltre che, evidentemente, attuata con poca logica. Chi mai pagherà le 500 euro, premesso che, il più delle volte, come si diceva, i trasgressori saranno nullatenenti? Mah!
Ci chiediamo, a questo punto, chi abbia suggerito una simile sciocchezza al nostro sindaco. Non vorremmo, infatti, che l'idea venga da un altro genio dell'amministrazione comunale. Quel Tommaso Sodano, vicesindaco con delega ai rifiuti, il quale, invece di concentrarsi sulla raccolta differenziata e sull'eliminazione dei cassonetti -risolvendo, in tal modo, il problema alla radice- ha preferito far fuori non solo Raphael Rossi, ma chi, questa battaglia, l'aveva portata avanti, per anni, da consigliere dell'ASIA. Complimenti davvero! E qualcuno si chiede ancora perché, pur avendo sostenuto De Magistris, contro la vergognosa sentenza, tutta politica, che lo voleva far decadere dalla sua carica, io non sia mai stato in piazza. La piazza è una cosa seria. E' il luogo dove si lotta e si difendono diritti sacrosanti. Non un sindaco che, pur dichiarandosi di sinistra e vicino ai più deboli -sindaco di strada, si è autodefinito- adotta poi, all'occorrenza, provvedimenti dal malcelato stampo reazionario e borghese. Semplicemente, per attrarre consensi da quella parte dell'elettorato.
martedì 4 novembre 2014
CITTADINI CONTRO CITTADINI: LE MISTIFICAZIONI SEMANTICHE DEL BLOG DI GRILLO E IL SUO INCESSANTE ATTACCO ALLA RAPPRESENTANZA DEL MONDO DEL LAVORO
Ieri, sul blog di Grillo, a cura della redazione, è uscita un’intervista ad Igor Gelarda, membro della segreteria nazionale del Consap, sindacato di Polizia, dal titolo insultante e tragicomico: Cittadini contro cittadini. Già nell’adozione di quel titolo, difatti, Grillo ed i suoi discepoli chiariscono il loro pensiero reazionario, evidenziando due fattori: uno d’ignoranza abissale e l’altro di malafede. Il primo, di carattere storico-linguistico, attiene all’uso -o dovremmo dire all’abuso- sconsiderato del termine cittadino, che i penta stellati vanno facendo, evidentemente legandolo alla connotazione che, quel sostantivo, acquisì ai tempi della rivoluzione francese. Nella Francia rivoluzionaria, infatti, il vocabolo veniva usato per affermare l’eguaglianza di tutti i francesi di fronte alle leggi. Una parità che, come risulta oramai evidente, lo stato borghese ha progressivamente annullato, a tutto vantaggio di ricchi, politici, notabili e rappresentanti della legge, al suo servizio, i quali, se anche commettono un reato o un abuso di potere, godono della piena immunità. Il secondo, la malafede, con requisiti politico-sociali, va attribuito, credo, al “proprietario” dello stesso blog, e consiste nel mistificare la realtà, secondo le proprie esigenze strategiche e comunicative. In apertura di intervista, infatti, si dice che: «I sindacalisti che hanno organizzato il corteo non potevano non sapere che la deviazione del corteo non era consentita» e, dunque, i poveri poliziotti sono stati costretti , a malincuore, ad usare i manganelli. Ora -a parte il fatto che non c’è stata nessuna deviazione, come dichiarato da Landini e dagli altri operai presenti in piazza- chiunque abbia partecipato a cortei e manifestazioni -che i borghesotti, pseudo rivoluzionari a 5 Stelle, ovviamente non frequentano- sa con quanta pena nel cuore i reparti antisommossa utilizzino la violenza, quando in piazza c’è la sinistra radicale: sia essa rappresentata da centri sociali, gruppi antagonisti, o operai. Di operai e studenti morti, per mano delle questure, è costellata la storia di questo paese. è quindi vergognoso, sentir parlare, per tutta l’intervista, lo sbirro Gelarda, che cerca di giustificare l’aggressione dei colleghi, a carico dei lavoratori delle acciaierie di Terni; e costituiscono una vera e propria offesa all’intelligenza ed alla dignità umana, parole del tipo: «la polizia, durante le manifestazioni, è messa lì a garanzia dell’ordine pubblico, che significa a garanzia della protezione dei manifestanti, dei cittadini e della città». E certo, la Polizia è una garanzia: come a Genova e a Napoli, nel 2001; alla Diaz e a Bolzaneto; come in Val di Susa o nel corso degli sgomberi delle case. Una garanzia: come nei casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Bifolco. E potrei continuare. Ciò che i servi del sistema garantiscono sono violenze, soprusi o, male che vada, la morte!
Ma le armate dell’odierno Savonarola non demordono, e fanno anche sfoggio di cultura sinistrese. Prendendo in prestito, strumentalmente, lo scritto più ambiguo, sbagliato e con più conseguenze, suo malgrado, di Pasolini, “Il PCI ai giovani”, ovviamente decontestualizzato dal clima sessantottino, parlano di scontro tra proletari. Un vero azzardo semantico, a corollario della loro disonestà intellettuale. Data la situazione attuale,a voler essere filologi, i proletari, in quella piazza, stavano tutti da un lato: quello degli operai. Operai che rischiano di perdere il lavoro e lo stipendio; mentre, dall’altra parte, non soltanto c’era e c’è gente stipendiata, ancorché male, ma soprattutto uomini che, grazie alle divise che indossano, sanno di poter contare sulla protezione dello stato borghese, del governo e dei padroni. Quanto accaduto in questi giorni, col caso Cucchi, ce ne da ampia prova. Sul blog del Beppe nazionale, dunque, si da la parola agli operai, alla classe lavoratrice, a coloro che subiscono, oltre alle violenze della crisi anche l’aggressione delle forze dell’ordine? Certo che no! L’odierno Savonarola, moralizzatore della politica italica, il capopopolo Grillo e la sua pletora di contestatori antisistema, che prediligono le passeggiate sui tetti e le piazze virtuali, alle piazze reali, dove avviene il conflitto, questi nuovi rivoluzionari di stampo conservatore –per chi non lo sapesse, non è un ossimoro: Die konservative Revolution (La Rivoluzione Conservatrice, appunto) fu, nella Germania post prima guerra mondiale, quel movimento che riunì intellettuali di destra, avversi alla Repubblica di Weimar, tra cui Carl Scmitt, Ernst Junger, Hugo Von Hofmannsthal, Oswald Spengler, e che costituì il germe iniziale, da cui prese vita, poi, il nazismo- non intervistano gli operai malmenati dagli sbirri, cioè le vittime; bensì gli aggressori, i carnefici appunto. Perché va dimostrato, ancora una volta, quanto qualunque sindacato, ed il concetto stesso di sindacato, sia eversivo e faccia male al mondo del lavoro e delle imprese. Grillo persegue, come dico da tempo, un’ idea corporativistica della rappresentanza del mondo del lavoro. La conciliazione, cioè, tra gl’interessi di parte. Un’idea, com’è noto, fascista. Per chi ha cultura marxista, dunque, da rigettare in toto. La composizione degli interessi di classe è a vantaggio del padronato, da sempre; mentre, per scardinare l’offensiva reazionaria e controriformista in atto, condotta, senza tregua, dalle elite finanziarie contro il mondo del lavoro ed i diritti da esso acquisito, attraverso le politiche neoliberiste, l’unica strada percorribile è il conflitto. Il conflitto Capitale-Lavoro, da cui Grillo si tiene, opportunisticamente, alla larga,
Grillo ed i 5 Stelle, pertanto, dimostrano, ancora una volta, con quest’intervista, di essere, né più né meno, una delle tante facce che il Capitale assume, per spezzare la possibile e pericolosa, per le borghesie, unità delle classi lavoratrici. Per parafrasare Chossudovsky, ed il suo"La fabbrica del dissenso": sono le stesse elite finanziarie a foraggiare movimenti popolari -come quello penta stellato, per intenderci- apparentemente anticapitalisti ed antiglobalizzazione, che non risultino nocivi per quelle stesse elite. Insomma, null’altro che un modo ingegnoso per controllare rischiose derive marxiste. Oramai, si governa non solo costruendo il consenso, ma anche fabbricando dissenso, tramite soggetti venduti agli interessi del Capitale monopolistico. Grillo è palesemente uno di questi soggetti. Basti considerare le sue alleanze europee; le sue oscillazioni, nel quadro politico, sempre all'insegna dell'ambiguità; le sue dichiarazioni razziste; la sua sollecitazione della rabbia viscerale, immediata, mai indirizzata verso un progetto di società, che non si comprende quale dovrebbe essere. Insomma, Grillo svela, giorno dopo giorno, sempre più la sua vera faccia. Quella di un parafascista, al servizio delle borghesie finanziarie. Con Grillo non si cambia. Si finisce dritti tra i denti aguzzi dei padroni.
Ma le armate dell’odierno Savonarola non demordono, e fanno anche sfoggio di cultura sinistrese. Prendendo in prestito, strumentalmente, lo scritto più ambiguo, sbagliato e con più conseguenze, suo malgrado, di Pasolini, “Il PCI ai giovani”, ovviamente decontestualizzato dal clima sessantottino, parlano di scontro tra proletari. Un vero azzardo semantico, a corollario della loro disonestà intellettuale. Data la situazione attuale,a voler essere filologi, i proletari, in quella piazza, stavano tutti da un lato: quello degli operai. Operai che rischiano di perdere il lavoro e lo stipendio; mentre, dall’altra parte, non soltanto c’era e c’è gente stipendiata, ancorché male, ma soprattutto uomini che, grazie alle divise che indossano, sanno di poter contare sulla protezione dello stato borghese, del governo e dei padroni. Quanto accaduto in questi giorni, col caso Cucchi, ce ne da ampia prova. Sul blog del Beppe nazionale, dunque, si da la parola agli operai, alla classe lavoratrice, a coloro che subiscono, oltre alle violenze della crisi anche l’aggressione delle forze dell’ordine? Certo che no! L’odierno Savonarola, moralizzatore della politica italica, il capopopolo Grillo e la sua pletora di contestatori antisistema, che prediligono le passeggiate sui tetti e le piazze virtuali, alle piazze reali, dove avviene il conflitto, questi nuovi rivoluzionari di stampo conservatore –per chi non lo sapesse, non è un ossimoro: Die konservative Revolution (La Rivoluzione Conservatrice, appunto) fu, nella Germania post prima guerra mondiale, quel movimento che riunì intellettuali di destra, avversi alla Repubblica di Weimar, tra cui Carl Scmitt, Ernst Junger, Hugo Von Hofmannsthal, Oswald Spengler, e che costituì il germe iniziale, da cui prese vita, poi, il nazismo- non intervistano gli operai malmenati dagli sbirri, cioè le vittime; bensì gli aggressori, i carnefici appunto. Perché va dimostrato, ancora una volta, quanto qualunque sindacato, ed il concetto stesso di sindacato, sia eversivo e faccia male al mondo del lavoro e delle imprese. Grillo persegue, come dico da tempo, un’ idea corporativistica della rappresentanza del mondo del lavoro. La conciliazione, cioè, tra gl’interessi di parte. Un’idea, com’è noto, fascista. Per chi ha cultura marxista, dunque, da rigettare in toto. La composizione degli interessi di classe è a vantaggio del padronato, da sempre; mentre, per scardinare l’offensiva reazionaria e controriformista in atto, condotta, senza tregua, dalle elite finanziarie contro il mondo del lavoro ed i diritti da esso acquisito, attraverso le politiche neoliberiste, l’unica strada percorribile è il conflitto. Il conflitto Capitale-Lavoro, da cui Grillo si tiene, opportunisticamente, alla larga,
Grillo ed i 5 Stelle, pertanto, dimostrano, ancora una volta, con quest’intervista, di essere, né più né meno, una delle tante facce che il Capitale assume, per spezzare la possibile e pericolosa, per le borghesie, unità delle classi lavoratrici. Per parafrasare Chossudovsky, ed il suo"La fabbrica del dissenso": sono le stesse elite finanziarie a foraggiare movimenti popolari -come quello penta stellato, per intenderci- apparentemente anticapitalisti ed antiglobalizzazione, che non risultino nocivi per quelle stesse elite. Insomma, null’altro che un modo ingegnoso per controllare rischiose derive marxiste. Oramai, si governa non solo costruendo il consenso, ma anche fabbricando dissenso, tramite soggetti venduti agli interessi del Capitale monopolistico. Grillo è palesemente uno di questi soggetti. Basti considerare le sue alleanze europee; le sue oscillazioni, nel quadro politico, sempre all'insegna dell'ambiguità; le sue dichiarazioni razziste; la sua sollecitazione della rabbia viscerale, immediata, mai indirizzata verso un progetto di società, che non si comprende quale dovrebbe essere. Insomma, Grillo svela, giorno dopo giorno, sempre più la sua vera faccia. Quella di un parafascista, al servizio delle borghesie finanziarie. Con Grillo non si cambia. Si finisce dritti tra i denti aguzzi dei padroni.
domenica 2 novembre 2014
GRILLO E LE TANTE FACCE DEL CAPITALE INTERNAZIONALE
Le ambiguità di Landini le ho sempre riconosciute, questo è noto. Il ricorso all' accordo del 10 gennaio sulla rappresentanza sindacale -per inciso, rigettato dagli iscritti FIOM, tramite referendum- al fine di tenere fuori i sindacati di base dalle fabbriche è, diciamolo chiaro, una contraddizione, che non tiene conto della volontà espressa degli stessi operai. In pratica, significa ricorrere al padrone per garantire privilegi alla FIOM; i suoi ambivalenti rapporti col PD celano equivocità intollerabili; come pure le sue aperture di credito a Renzi e ad alcuni dispositivi del Jobs Act. Detto ciò, che Beppe Grillo attacchi Landini, definendo le sue dichiarazioni, fatte durante le cariche della polizia agli operai di Terni, "patetiche sceneggiate", è semplicemente vergognoso. Un insulto alla classe operaia, prima ancora che al segretario della FIOM. Il capo del M5S, non ha mai alzato la voce, infatti, contro Marchionne –se non forse, all’inizio, in qualche breve post, come fumo negli occhi- ed ha sempre evitato, in seguito, di schierarsi nel conflitto tra Capitale e Lavoro, dichiarando, invece, in più occasioni, la sua avversione ai sindacati. E se a questo si aggiungono le sue strumentali dichiarazioni sul superamento delle ideologie, l'interclassismo proprio del Movimento, il suo feeling con i fascisti, ai quali non manca di fare continui appelli -tanto è vero che molti dei suoi passano nelle fila dei nazifascisti di Forza Nuova- il quadro risulta chiarissimo. Grillo e i 5 Stelle, come ho ripetuto più volte, altro non sono che una delle tante facce che il Capitale assume, per spezzare la possibile e pericolosa, per le borghesie, unità delle classi lavoratrici.
Come nota Chossudovsky, in "La fabbrica del dissenso": sono le stesse elite finanziarie a foraggiare movimenti popolari -come quello pentastellato, per intenderci- apparentemente anticapitalisti ed antiglobalizzazione, che non risultino nocive per sé stesse. Insomma, un modo per controllare rischiose derive marxiste. Oramai, si governa non solo costruendo il consenso, ma anche fabbricando dissenso, tramite soggetti venduti agli interessi del Capitale monopolistico. Grillo è palesemente uno di questi soggetti. Basti considerare le sue alleanze europee, le sue oscillazioni nel quadro politico, sempre all'insegna dell'ambiguità, le sue dichiarazioni razziste, la sua sollecitazione della rabbia viscerale, immediata, mai indirizzata verso un progetto di società, che non si comprende quale dovrebbe essere. Insomma, Grillo è un parafascista, al servizio delle borghesie finanziarie, che si approfitta della buona fede di cittadini, stanchi dell'attuale situazione di crisi, economica, politica, morale, e animati dal sincero desiderio di cambiamento. Il problema è che con Grillo non si cambia. Si finisce dritti tra i denti aguzzi dei padroni.
mercoledì 22 ottobre 2014
IN ITALIA, LA LIBERTÀ DI STAMPA È SEMPRE PIÙ UN’UTOPIA E UN PRIVILEGIO RISERVATO AI SOLI GRUPPI FINANZIARI E AI PADRONI. L’INQUISITORE CASELLI VORREBBE METTERE LA MORSA A CONTROPIANO, CONTRO CUI SI APRONO DUE PROCEDIMENTI GIUDIZIARI. SE VORRANNO PORTARCI IN TRIBUNALE, NOI CI SAREMO
Da un po', ho il privilegio di vedere pubblicato, qualche mio articolo, su Contropiano. Giornale comunista ed indipendente. Ora, a quanto pare, due procure vorrebbero mettere la morsa a questo preziosissimo organo di stampa. Due notifiche di apertura di indagini, a carico del giornale, sono state infatti ratificate, dalle procure di Torino e Napoli, alla direzione del quotidiano online.
L'arcigno inquisitore dei No Tav, Gian Carlo Caselli, lo stesso che, che per processare i compagni della Val di Susa, ha rispolverato il reato di terrorismo, intende querelare Contropiano perché si sarebbe sentito diffamato da un articolo comparso sul quotidiano comunista . Mentre, nel caso di Napoli, non si sa per quale pezzo siano state avviate le indagini. Ora, non posso fare a meno di mettere tali atti in collegamento con la discussione, in corso in parlamento, in questi giorni, sulle pene da comminare in caso di diffamazione a mezzo stampa. Caselli ne ha subito approfittato, evidentemente, fedele alla sua linea di giudice repressivo ed anticomunista. Lo stato liberal-democratico italiano, dunque, mostra, ancora una volta, quanto la libertà di stampa, in questo paese ridicolo, sia solo ad appannaggio dei grandi gruppi finanziari e dei padroni, mentre, con i piccoli giornali indipendenti, svela il suo volto repressivo. Tutto ciò va però inquadrato in quella strategia, di più ampio respiro, ormai in atto, da tempo, e non solo in Italia: stroncare ogni voce che si levi alta per dissentire contro quello che, a tutti gli effetti, possiamo definire il fascismo del XXI secolo. il fascismo finanziario, gestito dal capitale monopolistico, a livello globale. Ovviamente, la repressione diventa feroce se, come in questo caso, a dissentire sono forze e voci di estrema sinistra, marxiste, comuniste. Insomma, quelle stesse voci e quelle stesse forze contro cui si scagliò, qualche settimana fa, Roberto Saviano che, del padronato legato al mondo dell’editoria, è il corteggiato e protetto lacchè. A lui è concesso tutto. Anche offendere un’intera città, la sua per inciso, che applaudiva un corteo contro le politiche di austerità, imposte dalla Troika, e che quella città stanno riducendo alla fame. Due pesi e due misure, come sempre, quando si tratta della giustizia di classe e delle libertà accordate dallo stato borghese. E allora, mi viene in mente che, forse, in quanto cittadini e soggetti politici, anche noi, che scriviamo per Contropiano e che, in quanto comunisti, di quella sinistra radicale facciamo parte e a quel corteo partecipavamo con orgoglio, dovremmo querelare Saviano e L’Espersso, per diffamazione a mezzo stampa. Ciò detto, vorrei dire che, per quanto ci riguarda, Contropiano non si tocca. La sua libertà di opinione è inviolabile. Or dunque, se vorranno portare in tribunale il giornale, sappiano che noi saremo lì. A far valere i nostri diritti e a difendere la nostra fetta di Libertà!
martedì 21 ottobre 2014
AL TEATRO ELICANTROPO, CERCIELLO PORTA IN SCENA SIGNURÌ SIGNURÌ DI MOSCATO. NAPOLI, COME TROIA IN FIAMME. IN UNO SPETTACOLO CUPO ED IPNOTICO, TRAGICO E PAGANO ONIRICO E POETICO.
Due sono le battute che condensano il senso profondo, direi quasi ontologico, di “Signurì, Signurì”, lo spettacolo tratto dall’omonimo testo di Enzo Moscato e messo in scena, al Teatro Elicantropo, dagli allievi del Laboratorio Teatrale Permanente, diretti, come sempre, da Carlo Cerciello: « Oh città! Oh Città!… perché non temi i Greci, anche quando ti portano i doni?» e «Ha da passa’ ‘a nuttata». La prima, l’autore la mutuava dal II libro dell’Eneide di Virgilio e, precisamente, evoca le parole pronunciate da Laocoonte, quando vuol dissuadere i troiani dall'accogliere, dentro le mura di Troia, il cavallo di legno, lasciato sulla spiaggia dagli Achei; la seconda, invece, che chiude testo e spettacolo, Moscato la traeva, come si ricorderà, dall’epilogo di “Napoli milionaria”, di Eduardo, apportando, però, una sostanziale e allegorica variazione: nel dire tali parole, il personaggio che le pronuncia viene colto, alle spalle, da un secondo personaggio, che lo uccide brutalmente, con un colpo alla nuca. E, considerando che l’autore della pièce sia, appunto, Moscato, e che, la vera protagonista dello spettacolo in parola, sia Napoli -topos letterario, artistico, musicale, drammaturgico e, conseguentemente, sociale e politico- il valore simbolico di quelle battute e di quella variante sul tema, si possono, a questo punto, facilmente intuire. La prima, infatti, allude, inevitabilmente, alle tante dominazioni subite da Napoli e dal suo popolo, oramai incapace, dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’avvento degli alleati in poi, di distinguere doni ed inganni. Mentre la seconda, più amara, cupa, drammatica, quasi ineluttabile, ha una doppia valenza: da un lato, quello drammaturgico, una valenza di tipo culturale, riferendosi alla tradizione teatrale ed alla novecentesca “paternità” eduardiana; dall’altro,quello della scrittura scenica, una valenza più prettamente politica. I due registri, ovviamente, si compenetrano. Infatti, se nello scrivere quel testo, Moscato lascia intendere, da subito, come nota, giustamente, Enrico Fiore, ne “Il Rito, l’esilio, e la peste”, quale sia il suo «atteggiamento ribelle, nutrito nei confronti delle troppe paternità, illustri o meno, che soffocano, a Napoli, l’espandersi di una ricerca teatrale autonoma e, in generale, uno sviluppo degno del nome, sul piano culturale, politico e civile»; sul versante del codice spettacolare, e del segno puramente scenico, quella battuta, seguita dalla freddezza dello sparo, va oltre, sfociando in un mare nero di pessimismo. Ad essere barbaramente fatta fuori, infatti, non è solo una tradizione, che pure andrebbe necessariamente superata –tradizione deriva dal latino tradere: consegnare, trasmettere; ma anche tradire- soprattutto, tuttavia, la speranza . Le tenebre, infatti, sembrano sempre più avvolgere e sprofondare Napoli, con tutto il suo retaggio ed il suo lignaggio di capitale culturale, in un abisso senza risalita. Non so quanto Moscato, nel lavorare al testo, abbia voluto sottintendere proprio quest’aspetto ma, nella messinscena fatta da Cerciello, all’Elicantropo, quella sensazione, disperata e disperante, mi ha assalito, con tutta la sua durezza e crudeltà.
D’altronde, ci terrei a ribadire, che la Napoli descritta da Moscato in “Signurì Signurì” –primo testo dell’autore ad essere rappresentato, nel 1982- liberamente ispirandosi a “La Pelle”, di Curzio Malaparte, è una città ancestrale e magica, puerile ed innocente, decadente e corrotta, stupendamente preda e, quindi, depredata dai vari dominatori che, nel corso della Storia, si sono succeduti, e dei quali gli americani, giunti alla fine del II conflitto mondiale, non sono che gli ultimi, in ordine di tempo. Ognuno con i propri ingannevoli cavalli, mascherati da doni, lasciati sulle spiagge partenopee. Napoli, insomma, come una novella Troia: stuprata e saccheggiata. Se per il passato, però, Napoli era riuscita a preservare sé stessa, la sua cultura, la sua tradizione, assimilando e stratificando, nel suo composito corpo-lingua, anarchico e osmotico, le civiltà dei suoi conquistatori, rielaborandole, intimamente, in un sorta di sincretismo filosofico e culturale, artistico e religioso, che sfiorava il paganesimo e l’ebbrezza dionisiaca: «Napoli è la più misteriosa città d'Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli», dice, ad un cero punto, proprio ne “La pelle”, Curzio Malaparte; se era riuscita a sopravvivere, ed a sopravviversi, anche cristallizzandosi, quasi per difesa, esternamente, in una più semplicistica immagine oleografica e folkloristica, i cui tratti distintivi sembravano immutabili: il sole, il mare, il mandolino, la canzone; è solo con l’avvento degli americani, che Partenope comincia a smarrire veramente sé stessa. La prima e la seconda guerra mondiale, il fascismo, prima, e l’occupazione nazista, poi, avevano rappresentato una ferita, meglio, uno strappo, una lacerazione, aperti nel ventre molle della Storia, in generale, e in quella di Napoli, in particolare. Con i due conflitti, susseguitisi nel breve arco di vent’anni, veniva spazzato via un mondo, quello delle monarchie e delle aristocrazie e, di contro, un mondo arcaico e contadino; mentre le borghesie s’ imponevano, definitivamente, con tutto la potenza del loro denaro, dei loro capitali, delle loro industrie. Quel processo, che era cominciato con la prima rivoluzione industriale ed era proseguito per circa un secolo e mezzo, veniva, finalmente, a compimento. Gli equilibri strategici e geopolitici mutavano radicalmente, ed il centro del mondo si spostava, dalla vecchia Europa, agli Stati Uniti d’America. Il concetto di imperialismo, però, restava immutato, e Napoli, come tutti i sud del mondo, era costretta a pagare dazio alla modernità. Un tributo altissimo, che l’ex capitale del Regno delle due Sicilie aveva cominciato a versare sin dall’Unità d’Italia, realizzatasi sotto la bandiera savoiarda. Ora Napoli, prima città a liberarsi dal giogo nazista, grazie al coraggio ed al sentimento, ribelle e libertario, che alberga in fondo al suo popolo, cercava di riscattarsi e tentava, forse, di prendere al volo il treno di quella modernità. Così, ai suoi occhi, il cosiddetto esercito di liberazione alleato, sembrava il giusto aggancio per cogliere quell’opportunità. Non bisognava più emigrare: l’America era venuta a casa nostra. Ma quell’esercito, lungi dall’essere liberatore, era null’altro che una nuova milizia di occupazione. E, come si sarebbe poi rivelato nel tempo, la peggiore. I doni che portano con sé, quei novelli Achei, altro non sono che dollari, con cui comprare Napoli e la sua gente. Soprattutto le donne ed i bambini. E Napoli, stanca per le troppe e secolari sofferenze, affamata e ridotta in miseria, si prostituisce, carnalmente e moralmente. Il prezzo da pagare, però, è ovviamente altissimo: l’inesorabile smarrimento di sé stessa, congiunto ad una lenta ma irrimediabile perdita d’identità culturale, da abdicare a favore del dio denaro e di quello sviluppo che, come giustamente notava Pasolini, poco ha a che vedere col progresso. D’altro canto, è stato il destino di tutte le grandi metropoli europee, smarrire sé stesse, dopo la seconda guerra mondiale e con l’avvento, prima dell’industrializzazione forzata e della società tecnologica, e poi, in epoca più recente, della livella globalizzante. E' lo stesso Malaparte, del resto, ad ammonire, in un altro passo de “La Pelle”: «Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell'Europa di diventare Napoli».
Tuttavia Napoli, in un primo momento, prova a resistere, a questa nuova aggressione, adattandosi e trasformandosi; trasformando, però, anche la sua tradizione culturale, in un’ immagine oleografica, da vendere a buon mercato: sulle bancarelle o nei teatri, nei libri o tra i suoi stessi vicoli. E' invece il mercato, con le sue leggi omologanti, a cannibalizzare Napoli e la sua originalità. La borghesia, un tempo illuminata, si allea con la politica e la camorra e fa, della sua stessa città, una tavola a cui sedersi e banchettare. Non più né meno di come avevano fatto gli americani. Ma uno spirito anarchico, complesso, dionisiacamente sospeso tra le forze pulsionali di eros e thanatos, è difficile da domare. Napoli e la sua gente non ci stanno, ad assoggettarsi alle regole imposte da un mondo disciplinato da leggi astruse, che non gli appartengono. Pare quasi di riascoltare Filumena Marturano, quando, davanti all’avvocato Nocella, che le mostra il codice, risponde: «Io nun saccio leggere e po' carte nun n'accetto!» E allora, Napoli sceglie. Sceglie thanatos. Un lento ma inesorabile suicidio. Un suicidio per inedia. è lo stesso Pasolini, ad intravedere i germi di questa morte, denunciandone il fatale processo, in anni lontani, e risultando, ancora una volta, purtroppo, buon profeta: «Io so questo: che i napoletani, oggi, sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso -in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte- di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o, altrimenti, la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività, contro cui non c'è niente da fare. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri. I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all'ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili». Sembra davvero una voce oracolare. E pensare che, proprio in quegli anni, la nostra città viveva un sussulto di orgoglio sociale, culturale e politico. In quel solco, in quell’humus culturale ed in quelle contraddizioni che Napoli, come sempre, viveva, va ad inserirsi la stesura di “Signurì Signurì”. Moscato, autore attento e sensibilissimo alla realtà cittadina, denuncia la decadenza di una metropoli, perennemente in guerra con sé stessa –sono anche gli anni, da un lato, delle più sanguinaria guerra di camorra che Napoli abbia mai vissuto, e, dall’altro, di un impegno politico, appassionato ed estremo, come mai si era visto- intellettualmente antinomica e socialmente conflittuale, dove il modernismo, più che la modernità, sta attuando una mutazione genetica, che rischia di alterarne, per sempre, il volto. Allo stesso tempo, però, coglie, sul piano antropologico, una prospettiva positiva, in tutto ciò: Napoli potrebbe, facendo reagire tra loro tradizione e contemporaneità, passato e presente, rinascere, ancora una volta, culturalmente e politicamente, da sé stessa. Non dimentichiamo che, in quel periodo, si imponeva, soprattutto in teatro, l’avanguardia, e Napoli diceva, a pieno titolo, la sua. Pertanto, a ben leggerla, quell’opera prima racchiudeva in sé un grido di dolore ed una lecita speranza. Una speranza che, purtroppo però, si è andata ad infrangere, negli anni a venire, contro gli aguzzi scogli di una realtà sempre più prevaricatrice, sfibrante, violenta e mortificante. Una realtà, sia ben chiaro, all’imporsi della quale hanno contribuito tutti: politici e cittadini, popolo e borghesi. Uniti, sebbene con motivazioni diverse e divergenti, e con le le diverse responsabilità, derivanti dal proprio status sociale ed economico, in una sorta di pantoclastia nichilistica. Che nessuno si assolva, dunque!
Ebbene, proprio questa sconsolante e tragica presa d’atto costituisce, a mio modesto avviso, sulla scorta di quanto si è detto finora, il cuore, filosofico e formale, dell’allestimento andato in scena all’Elicantropo. Cerciello non si discosta dal testo moscatiano e dall’amara ironia che lo pervade, ma ne fa risaltare, adottando una cifra in bilico tra dramma e cabaret espressionista –maneggiando una simile materia, la scelta sembra quanto mai adeguata- la cupezza, la disperazione, la tanatoica visceralità. La Napoli, cui assistiamo al teatro di Via dei Gerlomini -che, quest’anno, festeggia il suo diciannovesimo anno di vita, sempre all’insegna dell’impegno civile e resistenziale- è una Napoli che, oramai disillusa ed agonizzante, non ha più la forza di reagire per salvare la pelle –appunto il titolo del romanzo di Malaparte- come aveva fatto, invece, alla fine della seconda guerra mondiale. E’ Troia, definitivamente in fiamme. L’immagine, il segno scenico, che meglio sintetizza questa tristissima realtà, è quello di un Pulcinella/Zeza posto su una sedia a rotelle, maschera sdoppiata e metafora di una città franta, schizofrenica, disintegrata, inghiottita dalle sue stesse polimorfie socio-antropologiche, dalle sue polifonie linguistiche, dalle sue mille vite e dai suoi mille segni, o -per parafrasare lo stesso autore- dalle sue polisemantiche “babelicanti”: « Lengua? E che mi abbisogna di una lengua a me? Ne tengo ciente, ‘e Menelicche e una, di soppiatto, ‘e fuoco...e abbruscia, abbruscia, cupole e ciardine[...]Si je voglio, cu’ nu sciuscio San Ferdinando crolla, e Capemonte ‘a sposto da sinistra a fronte...‘A Galleria? Si me ‘ngrife, è ‘a mia! ‘A Floridiana? Ma metto ‘mmiez’o ppane! ‘A Duchesca? Zi’ Carmè, mescafrancesca! Marechiare? Mergellina? Stamme ‘nzieme ogni matina! Tina? Mattutina? Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo. Chissà dove sarà! Sarà? Non sarà? Avverrà? Chissà! Orsù,facimme ‘ e serie! Non prendete la mia anima per viva[…] No!Nun voglio int’a chesta valiggia‘e dische rutte aspettà l’ora d’a morte...Ma si guarde, veco ‘na cosa sola, solamente scheggia, crastule, frammente...e allora...e allora...No, nun vale ‘a pena‘e se pentì » dice Zeza/Pulcinela, durante il suo monologo.
Una città in crisi, dunque, che non riconosce più sé stessa ed il suo passato, e non sa, o non vuole guardare, al futuro. I tanti quadri che compongono questo spettacolo nero, inquietante, meravigliosamente crudele, in senso artaudiano, ci parlano di tutto ciò, fondendo insieme le tante “facce” di Napoli. Su di essi, la regia di Cerciello lavora, tessendo una partitura scenica in cui ogni singolo elemento funziona, senza stonature. E così, davanti ai nostri occhi, si vengono costruendo visioni, che sembrano salire dagli stati crepuscolari della nostra coscienza malata. Il teatro e la realtà si confondono, sul filo di una soglia sottilissima. Guappi incerottati, sciantose ridotte a bambole automatiche, figure fantasmatiche, maschere demoniache, monache avvezze ai piaceri della carne –la Chiesa, altro potere che ha divorato e fatto scempio di Napoli- prostituzione, stupri e atti cannibalici si susseguono, in un rincorrersi incessante tra verità e verosimiglianza, cronaca e romanzo, teatro e vita vissuta. Visioni ipnotiche, oniroidi, poetiche, pagane ed arcaicamente simboliche, sotto cui scorre, però, come un fiume in piena, la violenta ironia deformante, come in un film di Quentin Tarantino. Visioni ai limiti dell’incubo, i cui riferimenti più immediati mi sembrano Lynch e Kubrik. E allora, a tale proposito, mi corre l’obbligo di citare le bellissime coreografie, curate da Cinzia Cordella. Ed in particolar modo, vorrei menzionare una sorta di sabba stregonesco che, con l’ausilio delle maschere, ha evocato in me, appunto, tanto il Kubrik di “Eyes wide shut “ che il Lynch di “Inland Empire”; come pure, le movenze da automa di una sciantosa, oramai fissata, dall’oleografia imposta dal mercato, in un insieme di gesti coatti, sincopati, stereotipati, innaturali. Spettacolo tragico e corale, infine, con richiami desimoniani, nei primissimi quadri. Ma anche, vogliamo dirlo, spettacolo catartico, nel suo pur cupo pessimismo. Sì, perché da quel teatro si esce scossi, certo, ma con in sé la voglia di non arrendersi, di non lasciarsi sopraffare e di mettere in piedi l’ennesima palingenesi partenopea. Una palingenesi, d’altronde, i cui embrioni sono già in atto negli splendidi, motivatissimi, entusiasmanti ed emozionanti allievi del Laboratorio Teatrale dell’Elicantropo. Tutti bravissimi!
giovedì 16 ottobre 2014
CROLLANO LE BORSE? OVVIAMENTE, È TUTTA COLPA DELLA GRECIA!
E c'è pure qualcuno che ha la vergognosa sfrontatezza di venirci a dire che non c'è altro modo, per uscire dalla recessione, se non approvare le politiche di austerità. O che la battaglia per i diritti della classe lavoratrice è vecchia e che, tuttalpiù, andrebbe fatta in maniera pacifica e meno marxista. Gli speculatori finanziari, i grandi trust e la Troika (Bce, Ue e Fmi) che ne cura gli interessi, sul versante politico, invece, procedono spediti con la loro Lotta di Classe padronale. Non si accontentano di mettere in ginocchio paesi e popoli. No, loro ne vogliono il sangue.
Potete giurarci, noi finiremo come la Grecia! La quale, dopo aver applicato le ricette recessive imposte dai trattati di Maastricht e dal famoso patto di stabilità -o fiscal compact- aver cancellato diritti, licenziato operai e lavoratori statali, tagliato salari, ridotto al di sotto del livello di sopravvivenza le pensioni, reso precario il futuro dei giovani; dopo aver privatizzato tutto il privatizzabile e aver massacrato lo stato sociale, tagliando, in modo lineare, la spesa pubblica, causando la chiusura di ospedali e lo sventramento di settori nevralgici come scuola, cultura e conoscenza, è ancora sotto lo schiaffo dei pescecani del mercato. E, non appena spera di potersi liberare dai vincoli della Troika, i mercanti la puniscono e fanno crollare gli indici di borsa. Se non è dittatura questa –ricordo che l’etimologia latina di dittatura è dictatura: dettatura; da cui, anche il tedesco diktat: ogni imposizione unilaterale di volontà, che esclude la possibilità di negoziati- mi domando: come la dovremmo definire? Ma no, lor signori ci rassicurano: siamo in democrazia. Un nuovo tipo di democrazia, evidentemente. La democrazia delle oligarchie finanziarie. Democrazia fascista!
sabato 11 ottobre 2014
STATO DI DIRITTO O STATO D’ECCEZIONE?
Esprimere solidarietà a due mafiosi del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, come ha fatto Sabina Guzzanti, può forse essere eccessivo, benché sia chiaro l'intento provocatorio: prima ci trattate, con i mafiosi, e poi, a vostro piacimento, ne sospendete le prerogative giuridiche! E, molto probabilmente, la Guzzanti lo ha anche fatto per attirare l'attenzione sul suo ultimo film, "La Trattiva", che bene pare non stia andando. Ciò premesso -e tralasciando la Guzzanti, di cui qui non si vuole assolutamente parlare- è fuori discussione che, nel caso della deposizione di Napolitano, dinanzi ai giudici di Palermo, per il processo sulla presunta trattativa stato-mafia, sia stato commesso un abuso di potere e siano stati violati i diritti elementari dei detenuti, incorrendo nel probabile rischio che l’intero procedimento venga annullato. Forse, è proprio quel che si vuole.
Senza però indulgere ad inutili dietrologie, mi limiterei ad osservare che o si è in uno stato di diritto, o si è in uno stato d'eccezione. D’altronde, come sosteneva, in "Teologia politica”, Carl Schmitt -torico di quella Rivoluzione Conservatrice che rappresentò il brodo di coltura da cui nacque il nazismo- enucleando la tesi per cui la sovranità deriva dallo stato di eccezione e non dal popolo: “Sovrano è chi decide nello stato di eccezione”. Ecco, l’Italia, nello stato d’eccezione, ci vive da tempo; e di sovrani che abbiano deciso e decidono extra legem, ne ha avuti tanti. Basti ricordare le Leggi Speciali, in materia di terrorismo, varate durante i cosiddetti anni di piombo. Dispositivi ai limiti dell’incostituzionalità, come la Legge Reale (1975) e la Legge Cossiga (1980). Strumenti, di cui hanno pagato lo statuto repressivo decine di compagni, scontando anni ed anni di galera, solo perché sospettati di banda armata. Di questi tempi, in cui la repressione del dissenso sta raggiungendo limiti francamente intollerabili, è bene ricordarle, certe cose. Anche perché, se Riina e Bagarella sono, senza dubbio, due criminali della peggior risma, i compagni appartenenti al Movimento NO TAV -Claudio Alberto, Mattia Zanotti, Chiara Zenobi e Niccolò Biasi- tanto per fare un esempio, certo non lo sono. Ma contro di loro, si è proceduto ugualmente, ignobilmente ed in deroga a qualunque senso di giustizia, per il reato di terrorismo, solo per aver danneggiato un compressore, durante l’attacco al cantiere di Chiomonte, il 14 maggio 2013. Surreale, grottesco, allucinante cme un incubo kafkiano. La loro colpa, in realtà, ben più grave, risiede nel non essere inclini ad accettare, passivamente, lo scempio delle nostre vite, consumate dal sistema capitalistico e dalle sue inique regole di mercato. Dunque, in conclusione, è sempre bene discernere tra uno stato di diritto ed uno stato in cui la legalità, divenuta solo formale, può degenerare in legalitarismo. Fu appunto questo il presupposto delle dittature fasciste e del nazionalsocialismo. Insomma, si comincia coi mafiosi e si finisce per sospendere i diritti ai normali cittadini. Del resto, è quel che sta gia accadendo!
Lascerei però la chiosa, a questa breve riflessione, ad un certo Vittorio Alfieri, sul concetto di tirannide: «Tirannide: indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».
venerdì 10 ottobre 2014
ALTRO CHE CLASSE OPERAIA IN PARADISO, SI VA VERSO UNA MONARCHIA BORGHESE!
Ieri sera, Servizio Pubblico, ha fornito alcuni dati che hanno colpito non poco la mia attenzione. La ricchezza privata, in Italia, è pari al 7% sul PIL. Parallelamente, la crescita della ricchezza derivante da accumulo di capitale e da rendita finanziaria è pari al 5%, contro l'1,5% della ricchezza prodotta da lavoro salariato. In questo quadro sconcertante, dove i rapporti di forza e le dinamiche sociali e di classe sono palesemente squilibrate, è stato approvato, dal parlamento italiano, prima il pareggio di bilancio in costituzione, nell’ambito di quel patto di stabilità, o fiscal compact, deciso a livello europeo, e poi, l’altro ieri, in senato, è passata –con la vile acquiescenza della sinistra PD, che non è d’accordo ma vota lo stesso qualunque cosa gli propongano, scambiando, evidentemente, il bonapartismo per centralismo democratico- quella delega in bianco sulla controriforma del lavoro, il Jobs Act, voluta da Renzi e dal suo governo, e che consente flessibilità e licenziamenti facili –perché la sostanza dell’abrogazione dell’art.18 tale è, e chi dice il contrario o è stupido o in malafede- adducendo, come motivazioni, la modernizzazione dell'Italia e che, se non si procede in tal senso, le imprese non investiranno più nel nostro paese e, dunque, non si produrrà crescita e ricchezza. Il tutto, ovviamente, per accontentare la Troika: Ue, Bce, Fmi.
Ora, stando ai dati citati all’inizio, vorrei che qualcuno dei grandi economisti ed analisti di cultura liberal-liberista, la ragione di simili scelte politiche che, evidentemente, aumentano il divario tra ricchi e poveri –non solo in Italia, sia ben chiaro- ed altrove, come in Grecia, ad esempio, o, in passato, in alcuni paesi del Sud America, hanno prodotto soltanto recessione e disoccupazione, me la spiegasse come se fossi un bambino, un po’ tardo, di sei anni. Perché io questa logica assurda, francamente, non la capisco. Mi pare evidente, invece, che sia stia giocando al massacro sulla pelle di operai, lavoratori, giovani, pensionati. Insomma, sulla pelle di noi tutti. Ma si sa, noi comunisti siamo non moderni, anacronistici e fuori della storia. Dunque, certe scelte raffinate e modernizzanti non riescono proprio ad entrarci, nella testa. Però Carletto Marx, nel Capitale, era stato chiarissimo. Dicesi accumulazione di capitale, quando il capitalismo è in crisi recessiva e non è in grado di fare profitto attraverso la vendita di merce, proprio l’espropriazione dei diritti della classe lavoratrice. In poche parole, il padrone fa profitto e si arricchisce, appunto licenziando. Sarò pure antico, ma continuo a pensare che questa debba definirsi una barbara ingiustizia, volendo parlare pulito. E coloro che la consentono, la classe politica, coloro che ne godono i frutti, i padroni, e coloro che proteggono entrambi, le forze dell’ordine, andrebbero combattuti con ogni mezzo e senza compromessi di sorta. L’alternativa, del resto, è la nostra fine per reificazione –trasformazione in cosa/merce, per chi non fosse aduso ai termini marxisti- e l’instaurazione definitiva di una sorta di monarchia finanziaria, che comunque si sta già imponendo, a livello globale, da trent’anni. D’altronde, nel mondo, la ricchezza da rendita e da accumulo è pari a più di 150.000 miliardi di dollari, detenuta da un ristrettissimo numero di super ricchi. La loro lotta di classe, i padroni, la stanno dunque conducendo senza pietà e senza frontiere.
E pensare che c’è, a sinistra, chi ha ancora il coraggio di teorizzare un capitalismo dal volto umano, di insistere sulla socialdemocrazia e sulla mediazione sociale delle contraddizioni interne allo stato liberale ed al sistema di produzione capitalistico; o chi afferma, con una certezza che sfiora il grottesco, che l’imprenditore non avrebbe interesse a licenziare l’operaio, perché questi sarebbe la sua ricchezza; o, peggio, chi mette il padrone ed il lavoratore sullo steso piano -in una visione evidentemente provocata da alterazioni chimiche- in quanto ad entrambi starebbe a cuore il destino dell’azienda. Vorrei ricordare a coloro che l’avessero dimenticato e che, nonostante tutto, continuano a definirsi di sinistra, che questo si chiama corporativismo fascista. Mentre loro, altro non sono che traditori della classe lavoratrice.
Una postilla, per chiudere, partendo da Carl Schmitt, uno dei teorici di quella Rivoluzione Conservatrice che costituì l’humus culturale da cui, poi, si sviluppò il nazismo, e che dedicherei a coloro che vedono, nel profeta di Firenze, il salvatore della patria. Ne “La dittatura”, Schmitt auspicava la rigenerazione della società europea per mezzo dell’intervento di un individuo dotato di capacità superiori, in grado di guidare lo Stato senza incorrere nei limiti della forma democratica: la contrattazione con le forze politiche, con le parti sociali, l’eguaglianza giuridica e la ricerca del consenso elettorale come base dell’autorità. Ed in “Teologia politica”, alzava il tiro della sua critica contro le liberal-democrazie, enucleando la tesi per cui la sovranità deriva dallo stato di eccezione e non dal popolo: “Sovrano è chi decide nello stato di eccezione”. Ecco,l’Italia, nello stato d’eccezione, ci vive da tempo. Ora, pare abbia trovato anche il suo sovrano!
martedì 30 settembre 2014
VERTICE BCE A NAPOLI. LA TROIKA NELLA CITTÀ ITALIANA PIÙ TARTASSATA DALLA CRISI. PRONTA UNA MANIFESTAZIONE PER DIRE NO ALLE POLITICHE NEOLIBERISTE E ALLA MACELLERIA SOCIALE. MA LE FORZE DELLA REPRESSIONE INVIANO DUEMILA DIVISE. MENTRE LA STAMPA DI REGIME GETTA BENZINA SUL FUOCO
A Napoli, il prossimo 2 ottobre, è previsto il vertice della Bce. Dunque, scontate le presenze del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del Presidente della stessa Bce, Mario Draghi, del capo degli industriali, Giorgio Squinzi, e del commissario europeo, Barroso. In pratica, i vertici di quella Troika che è la principale responsabile della macelleria sociale in atto in Italia -Napolitano è il garante delle controriforme del lavoro, di stampo ottocentesco, e Renzi ne è il freddo e vile esecutore- ed in mezza Europa, specie in quella mediterranea.
Diciamolo chiaro: di per sé, è un affronto ed una provocazione, tenere questo vertice nella nostra città, una di quelle che maggiormente sta pagando il prezzo della crisi, scatenata e voluta non certo dai ceti popolari, ma da speculatori finanziari senza scrupoli -ricordate la bolla dei fondi subprime, partita, ovviamente, dagli USA?- e da quelle banche, che nulla hanno da invidiare agli strozzini della criminalità organizzata. Una crisi che la Troika sta politicamente alimentando e gestendo, per conto proprio di quel turbocapitalismo finanziario, cui sono asservite istituzioni sovrannazionali come la Bce, la Ue, il Fmi e la Banca Mondiale.
Per questo, tutte le forze antagoniste, i movimenti di lotta, le organizzazioni politiche, i centri sociali e i movimenti -non solo napoletani- che hanno nell'anticapitalismo, di ispirazione marxista e comunista, la loro matrice culturale ed un punto di convergenza, seppur nella diversa modalità di interpretare le lotte ed il percorso politico, pragmatico e teorico, si sono dati appuntamento per una manifestazione di protesta contro il vertice della Banca centrale Europea. Block Bce è il nome dato alla manifestazione. Il corteo partirà alle 09.30 dalla stazione della metropolitana dei Colli Aminei.
Com'era prevedibile, però, le forze della repressione di stato sono già all'opera, coadiuvate dalla servile stampa nostrana. La strategia è, come al solito, il terrorismo psicologico, da diffondere a piene mani. E allora, sui giornali e sui media mainstream, si legge e si sente parlare di Black Block –tirarli in ballo strumentalmente è sempre utile- di Centri Sociali, il cui unico obiettivo sarebbe quello di spaccare tutto, di guerriglia urbana, di infiltrazioni camorristiche ecc. Qualcuno ha persino adombrato la presenza di miliziani dell'ISIS (è ironia, ovviamente). Il tutto, per giustificare eventuali azioni repressive e violente da parte delle Forze dell'Ordine. Sono previste addirittura, secondo indiscrezioni trapelate dal Viminale, duemila divise in città. Questura e Prefettura sono, quindi, allertate.
Il "democratico" stato italiano ed il governo Renzi, ancora una volta, non possono tollerare voci di dissenso contro quelle politiche neoliberiste che stanno riducendo alla fame i settori più deboli della società e mettendo alle corde quello che, una volta, era considerato il ceto medio. Abolizione dei diritti dei lavoratori, licenziamenti, tagli salariali, pareggio di bilancio, pagamento degli interessi sul debito sovrano, cancellazione progressiva del welfare, privatizzazioni, delocalizzazioni delle aziende, acquisti sconsiderati di armi, partecipazione alle guerre volute e finanziate dall’imperialismo americano. Sono questi i provvedimenti e gli atti del governo, previsti per i prossimi mesi e tesi a soddisfare le richieste dell'Europa, a trazione tedesca, e di quel mercato globale dominato da multinazionali sempre più avide, criminali e criminogene. Politiche e provvedimenti che non possono e non devono trovare oppositori. Altro che ottanta euro.
Ma noi ci opporremo, con forza e determinazione, alla deriva di un mondo sempre più iniquo, preda di borghesie e padroni senza scrupoli, e dominato dalle disumane regole di un mercato, che ci vuole ridurre tutti a mera merce di scambio.
domenica 28 settembre 2014
IL GIUSTIZIALISTA GIUSTIZIATO: CONTRO DE MAGISTRIS, UNA SENTENZA KAFKIANA, CHE PUZZA DI POTERI FORTI. MA ORA, IL PROBLEMA È PIÙ ETICO CHE POLITICO
Ho contribuito, pur criticando molto la scelta compiuta dal PRC, di cui allora ero responsabile cultura, all'elezione di Luigi De Magistris. E l'ho votato, montanellianamente, turandomi il naso. I motivi erano tanti: l'ennesimo magistrato, con scarsa cultura politica ma grande attitudine al protagonismo ed al decisionismo; il narcisismo che, sin da subito, mi parve un tratto distintivo del carattere del futuro sindaco; la marcata tendenza forcaiola e l'evidente interclassismo, che caratterizzavano la cosiddetta Rivoluzione Arancione; l'ambiguità su alcune tematiche di fondo che, da comunista, mi stavano a cuore. Tutti timori che, poi, alla prova dei fatti, si sono dimostrati fondati. Ma, dall’altra parte, c’erano Lettieri, le lobby e i comitati d’affari che lo appoggiavano. Quindi, la scelta era quasi obbligata, a meno di non votare.
Nella pratica, De Magistris si è rivelato, poi, un sindaco che ha gestito, e sta gestendo, l'amministrazione comunale, ascoltando poco i cittadini e le forze politiche e sociali che lo hanno eletto; accentratore di poteri e pressoché autocratico; che governa a proclami più che con fatti concreti; capace, con le sue dichiarazioni, di scavalcare a sinistra anche il più fervente marxista-leninista ma che, poi, quando si tratta di agire conseguentemente, pecca di immobilismo o finisce per trovare accordi che, invece di fare gli interessi dei cittadini e dei ceti popolari, favoriscono, il più delle volte, quei poteri economico-finanziari, politici e speculativi, contro cui aveva promesso di battersi. Certo, governare Napoli non è facile, specie se si vuole andare in controtendenza rispetto al pensiero unico dominante. E lo è ancor meno, ai tempi di una crisi che agisce nel profondo del tessuto sociale e lavorativo, soprattutto nel mezzogiorno. Ma, al tirar delle somme, posso dire che De Magistris ha fatto poco e, spesso, ha tradito le sue stesse promesse elettorali. Per fare qualche esempio: la delibera 423 approvata, a luglio scorso, dal Consiglio comunale, che, modificando lo statuto dell’ABC –azienda pubblica dell’acqua- apre pericolosamente la strada all’ingerenza dei privati, non solo nella stessa ABC ma anche nelle altre partecipate; la questione relativa ai precari e ai Bros; e ancora, la vergognosa gestione del Forum delle Culture, con il suo consequenziale fallimento; l’impoverimento culturale del Mercadante, legato alla criminale e piratesca direzione artistica, lasciata, colpevolmente, nelle mani sporche di De Fusco, il quale, insieme alla assessora alla cultura della Regione, Caterina Miraglia, ha poi creato quella Fondazione Campania dei Festival, con cui intascare soldi pubblici per promuovere i suoi stessi spettacoli e fare concorrenza alle piccole realtà teatrali cittadine. Per non parlare delle improbabili e assurde aperture di credito al governo Renzi. Insomma, non ho mai avuto difficoltà a mettere sotto accusa alcune delle scelte compiute da De Magistris.
La sentenza di questi giorni, però, ha un chiaro sapore politico. Puzza di poteri forti, con aderenze nelle larghe intese romane. Finanza, speculatori edilizi, confindustria partenopea, parte della magistratura, PD e destra, sembrano tutti essersi coalizzati contro il primo cittadino napoletano. Ed anche i grillini, il cui unico scopo, come ho sempre denunciato, è alimentare la rabbia, invocare le manette, spaccare qualunque blocco sociale e politico e cavalcare la tigre, evolianamente, lo vogliono strumentalmente a casa. E allora, pur non essendo un tifoso di De Magistris, credo che stavolta abbia ragione lui, a scagliarsi duramente contro il verdetto emesso dalla prima corte. Del resto, basterebbe leggere quanto ha dichiarato il professor Moccia, ordinario della cattedra di diritto penale, presso l’Università Federico II, che parla di uso incostituzionale della legge Severino: non avendo essa valore retroattivo, De Magistris non dovrebbe decadere dalla sua carica.
Il problema che gli si pone, però, in queste ore, non è solo di natura politica ma anche etica. Non si può invocare il rispetto delle sentenze, quando dall’altra parte ci sono Berlusconi&C, mentre se riguarda sé stessi, fregarsene. Questo è il problema della morale. Chi predica moralismo e s’innalza su un pulpito, come un Savonarola, prima o poi incorrerà in qualche peccatuccio, anche veniale, e finirà per essere perseguitato da altri moralisti e condannato su altri pulpiti. Ancorché kafkiani. Dunque, meglio posarla la prima pietra, se non si è ammantati di luce divina. Una lezione che, nell’Italia della doppia morale cattolica, dovremmo imparare tutti!
L’ANTIFASCISMO È UN REATO! L’ARRESTO DEL COMPAGNO NUNZIO D’ERME E LA STRATEGIA REPRESSIVA DEGLI ORGANI DELLO STATO, AL SERVIZIO DEL PADRONATO
Insomma, questi comunisti, antagonisti, marxisti, leninisti, eversivi e soprattutto anacronistici, sembrano proprio non volersi rassegnare alla modernità liberal-liberista e italianamente renziana. Non gli entra, in quella testa dura e rossa, che l'antifascismo è un reato! Le ideologie sono superate –come asseriscono anche i rivoluzionari a 5 stelle- e chi sventola la svastica o onora il fascio, non solo ha diritto di parola e di espressione, ma ne ha certamente molto più di un comunista brutto, sporco, cattivo e, diciamolo francamente, sociopatico e fuori dalla realtà. Che poi la Costituzione sia nata dalla Resistenza al nazifascismo, è un puro dettaglio storiografico, ed anche piuttosto ingombrante. Come affermano, del resto, i vertici di una delle più importanti banche d’affari al mondo: la J.P. Morgan. D’altronde, nella sala del congresso americano, i fasci littori hanno pieno domicilio. E noi viviamo nell’epoca del trionfante imperialismo americano. Pertanto, i fascisti omofobi e razzisti, per conto di un dio notoriamente anticomunista, di Militia Christi, sono molto più culturalmente, politicamente e socialmente accettabili –e utili, aggiungerei io- di un esaltato, esagitato marxista, come Nunzio D’Erme. Che pretenderebbe, altresì, in nome di una sua allucinatoria weltanschauung, di battersi contro l’ingiustizia, contro l’omofobia, contro la tirannia del più forte e del più ricco e per la libertà di tutti.
Ecco, dunque, che nessuna meraviglia ci coglie se le forze dell’ordine e la procura capitolina ne hanno ordinato l’arresto, per fatti avvenuti addirittura più di quattro mesi fa. E tali fatti riguardano proprio l’antifascismo di D’Erme, il quale, insieme ad altri giovani militanti ed attivisti comunisti, ebbe, per l’appunto, l’ardire di respingere l’aggressione di una squadraccia di monaci omofobi, membri di Militia Christi, messa in atto per contestare un incontro pubblico sul diritto alle differenze. Roba da ‘900 e da oscurantismo maoista, in pratica. Di conseguenza, aver difeso quell’assemblea, che peraltro si stava svolgendo in una sede istituzionale, in una sala del Municipio, per la magistratura è diventato un reato, cui applicare addirittura misure detentive. E così, il compagno Nunzio D’Erme se ne va a Regina Coeli. Mentre i fascisti lefebvriani, armati di bibbia e di croce -anche semplice, non per forza celtica o uncinata- godendo, non solo della ferrea protezione di Alemanno e di tutta la destra romana, ma anche di opportuna dispensa e benedizione papale –che a nessuno si nega, sempreché anticomunista- sono liberi di scorazzare per il mondo e di predicare il loro vangelo di violenza e di morte. Non dimentichiamo, infatti, che di Miltia Christi abbiamo già sentito parlare -con Casa Pound e Forza Nuova- per l'assassino del napoletano Ciro Esposito, ucciso da quel Daniele De Santis, vicino agli ambienti del neofascismo romano. D’altronde, proprio in questi giorni, stiamo assistendo, da parte delle Forze dell'Ordine della capitale e della stampa di regime, a rivelazioni quanto meno sconcertanti, pur di deresponsabilizzare il nazi De Santis.
L’arresto di D’Erme, dunque, costituisce l’ennesima prova, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che è in atto, non solo nel nostro paese ma in buona parte del vecchio continente, una strategia repressiva ed intimidatoria, volta a colpire quella voce di dissenso che si leva dai movimenti e da quel blocco sociale, antagonista e anticapitalista, che si richiama alla cultura marxista e comunista. D’altro canto, l’uso feroce dei manganelli da parte delle forze dell’ordine, contro gli attivisti del Movimento No TAV, in Val di Susa, è la rappresentazione più lampante di quanto sto dicendo. Quel blocco sociale -seppur non esteso, almeno in Italia- rifiuta le logiche perverse imposte dal mercato e da un capitalismo finanziario sempre più violento, predatorio, criminale, disumano e disumanizzante e perciò, nell’ottica del potere borghese, va annientato senza mezzi termini. E in questo quadro desolante ed orwelliano, dove chi dissente è o folle, o terrorista, come sempre è avvenuto, dal II conflitto in poi, il fascismo diventa, dapprima veicolo di provocazione e di destabilizzazione sociale, e poi strumento di morte nelle mani del padronato. Sta accadendo in Ungheria, in Grecia, in Ucraina. E addirittura in Francia, un tempo considerata culla della cultura europea, il Front National, di Marie Le Pen, stravince le elezioni europee. Segnali inquietanti , che dovrebbero allarmare un po’ tutti, considerando le sempre più eclatanti derive autocratiche in atto nel nostro paese. Ma nessuno, tranne pochi, appunto, sembra avvertire il pericolo. Del resto, il fascismo del XXI secolo ha, per lo più, smesso la camicia nera e si presenta in giacca e cravatta. Con la faccia bonaria di Renzi.
Ecco, dunque, che nessuna meraviglia ci coglie se le forze dell’ordine e la procura capitolina ne hanno ordinato l’arresto, per fatti avvenuti addirittura più di quattro mesi fa. E tali fatti riguardano proprio l’antifascismo di D’Erme, il quale, insieme ad altri giovani militanti ed attivisti comunisti, ebbe, per l’appunto, l’ardire di respingere l’aggressione di una squadraccia di monaci omofobi, membri di Militia Christi, messa in atto per contestare un incontro pubblico sul diritto alle differenze. Roba da ‘900 e da oscurantismo maoista, in pratica. Di conseguenza, aver difeso quell’assemblea, che peraltro si stava svolgendo in una sede istituzionale, in una sala del Municipio, per la magistratura è diventato un reato, cui applicare addirittura misure detentive. E così, il compagno Nunzio D’Erme se ne va a Regina Coeli. Mentre i fascisti lefebvriani, armati di bibbia e di croce -anche semplice, non per forza celtica o uncinata- godendo, non solo della ferrea protezione di Alemanno e di tutta la destra romana, ma anche di opportuna dispensa e benedizione papale –che a nessuno si nega, sempreché anticomunista- sono liberi di scorazzare per il mondo e di predicare il loro vangelo di violenza e di morte. Non dimentichiamo, infatti, che di Miltia Christi abbiamo già sentito parlare -con Casa Pound e Forza Nuova- per l'assassino del napoletano Ciro Esposito, ucciso da quel Daniele De Santis, vicino agli ambienti del neofascismo romano. D’altronde, proprio in questi giorni, stiamo assistendo, da parte delle Forze dell'Ordine della capitale e della stampa di regime, a rivelazioni quanto meno sconcertanti, pur di deresponsabilizzare il nazi De Santis.
L’arresto di D’Erme, dunque, costituisce l’ennesima prova, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che è in atto, non solo nel nostro paese ma in buona parte del vecchio continente, una strategia repressiva ed intimidatoria, volta a colpire quella voce di dissenso che si leva dai movimenti e da quel blocco sociale, antagonista e anticapitalista, che si richiama alla cultura marxista e comunista. D’altro canto, l’uso feroce dei manganelli da parte delle forze dell’ordine, contro gli attivisti del Movimento No TAV, in Val di Susa, è la rappresentazione più lampante di quanto sto dicendo. Quel blocco sociale -seppur non esteso, almeno in Italia- rifiuta le logiche perverse imposte dal mercato e da un capitalismo finanziario sempre più violento, predatorio, criminale, disumano e disumanizzante e perciò, nell’ottica del potere borghese, va annientato senza mezzi termini. E in questo quadro desolante ed orwelliano, dove chi dissente è o folle, o terrorista, come sempre è avvenuto, dal II conflitto in poi, il fascismo diventa, dapprima veicolo di provocazione e di destabilizzazione sociale, e poi strumento di morte nelle mani del padronato. Sta accadendo in Ungheria, in Grecia, in Ucraina. E addirittura in Francia, un tempo considerata culla della cultura europea, il Front National, di Marie Le Pen, stravince le elezioni europee. Segnali inquietanti , che dovrebbero allarmare un po’ tutti, considerando le sempre più eclatanti derive autocratiche in atto nel nostro paese. Ma nessuno, tranne pochi, appunto, sembra avvertire il pericolo. Del resto, il fascismo del XXI secolo ha, per lo più, smesso la camicia nera e si presenta in giacca e cravatta. Con la faccia bonaria di Renzi.
LA MORTE OPERAIA NELL’INDIFFERENZA GENERALE.
Ieri, sono morti altri 4 operai. In Italia, il lavoro, invece di conferire dignità, uccide. Questi sono i risultati delle politiche neoliberiste imposte dalla Troika, da un'Europa a trazione tedesca e attuate, nel nostro paese, dal governo delle larghe intese.
Si sancisce il massacro della classe operaia e lavoratrice; si cancellano i diritti, tra cui l'art.18; si apre la strada ad un destino di precarietà a vita per i nostri giovani; si attuano tagli salariali pur di abbatte...re il costo del lavoro e favorire, così, le sole imprese ed il padronato. Padronato al quale si garantiscono defiscalizzazioni, le più fantasiose; riduzione del cuneo fiscale; totale flessibilità in uscita; sburocratizzazione che nasconde, in realtà, la voglia irresistibile di smantellare lo stato sociale, con conseguente privatizzazione selvaggia, a tutti i livelli della vita pubblica; delocalizzazioni ricattatorie e tese solo a fare profitto, in paesi dove la manodopera è a bassissimo costo, oppure dove le tutele sindacali sono piegate alle logiche padronali ed essenzialmente di carattere corporativo. L'esempio più eclatante è rappresentato dagli USA, in tal senso. Tutto ciò, con la benedizione di un Presidente della Repubblica, garante, da sempre, dei poteri forti, sotto l'egida di un governo che viene vergognosamente definito "di sinistra" e nella completa indifferenza di cittadini, oramai stanchi, confusi e resi inermi dal terrore di perdere anche quel poco, pochissimo, che gli resta.
Ma verrà il momento che i padroni, il capitale e l’imperialismo pagheranno, e con gli interessi, la loro barbarie!
mercoledì 20 agosto 2014
ANNULLATA LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI BARBARA BALZERANI: SARA TURBA ANCORA LE ITALICHE ANIME PIE. SPECIE QUELLE DELLA SINISTRA
Giovedì 21, Barbara Balzerani –nome di battaglia Sara- capo storico delle Brigate Rosse e fondatrice delle B.R. Partito Comunista Combattente, oggi scrittrice, avrebbe dovuto presentare il suo romanzo, "Lascia che il mare entri", a Campineto Romano, comune montano di cinquemila abitanti. Barbara era stata invitata dall'amministrazione di centro sinistra, presieduta da PD e SEL, che però, dopo uno squallido articolo su "Il Tempo", e a seguito di minacciate manifestazioni di protesta da parte dell'opposizione di centro destra e delle surreali e risibili dichiarazioni di cotal Stefano Cacciotti, secondo cui «un’istituzione non può patrocinare una criminale» -detto da un fascista è quasi comico se non fosse tragica la sua storia- il sindaco, Matteo Battisti, ha vergognosamente e vigliaccamente fatto marcia indietro, annullando l'invito e la presentazione del libro. Nel comunicato diramato dal Comune si legge: «Per evitare strumentalizzazioni di ogni genere o manifestazioni che possano turbare la tranquillità della nostra comunità l’Amministrazione Comunale ha deciso di annullare la presentazione del libro "Lascia che il mare entri" di Barbara Balzerani».
Dunque, nel paese che ha concesso, per mano del capo dei comunisti di allora, Palmiro Togliatti, la grazia ai gerarchi fascisti che si erano macchiati di atroci delitti; nel paese che ha fatto di Andreotti, colluso con la mafia dei Bontade, dei Greco, dei Calò, dei Leggio, per sette volte il capo del governo “democratico” italiano, nonché il nostro rappresentante all’estero; nel paese in cui si concede, ad uomo come Berlusconi, solo perché molto ricco e potente, di evadere il fisco, di intrattenere rapporti con mafiosi -lo stalliere Mangano- vicini all’ala stragista corleonese, di agire extra legem e, nonostante ciò, di fare il Primo Ministro e, casomai, anche il Presidente della Repubblica; nel paese in cui si concede di presentarsi alle elezioni e di esprimere le proprie opinioni a movimenti che si dichiarano fieri seguaci della criminale ideologia nazifascista, come Casa Pound e Forza Nuova; nel paese in cui la Chiesa ricicla i soldi del crimine organizzato e, grazie ad essi, finanzia dittature militar-fasciste in giro per il mondo, canonizzando, poi, il Papa che di questo criminale scempio si è reso protagonista: Giovanni Paolo II; in questo paese dove, in ossequio alla doppia morale cattolica, mallevadrice degli striscianti sentimenti razzisti, xenofobi, classisti, omofobi, morbosi, che, da sempre, attraversano la società italiana, vale tutto e il contrario di tutto, purché non si turbino le anime pie –di solito, covatrici di astio e di odio- e si difendano gli interessi della borghesia benpensante, ipocrita e perbenista; nel paese dov’è presente il più alto tasso di omicidi e violenze commessi ai danni delle donne, senza che venga approvata un’adeguata legislazione in materia, forse perché il maschilismo catto-fascista la fa ancora da padrone; nel paese in cui i buoni e devoti padri di famiglia vanno allegramente a puttane e, altrettanto allegramente, praticano, più che in ogni altro luogo, turismo sessuale per scopare bambine e bambini; nel paese in cui un ex presidente della Repubblica -Francesco Cossiga- peteva dichiarare, mietendo consensi politici, che: «le manifestazioni studentesche costituirebbero un pericolo perché sarebbero il vivaio potenziale di una nuova ondata di terrorismo ; per questa ragione Maroni dovrebbe infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. A questo punto, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano» E ancora, rivolgendosi al capo della Polizia, Manganelli : «Serve una vittima. Meglio se donna o bambino, per poter giustificare la successiva repressione»; nel paese dove un ministro della Repubblica –Giovanardi- mente su Ustica e infanga le vittime di quella strage, senza che nessuno prenda provvedimenti; nel paese in cui i familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana -strage di stato e fascista- dopo oltre quarant’anni di processi senza verità, vengono costretti a pagare le spese processuali, mentre i responsabili sono liberi di girare impuniti; nel paese in cui polizia e carabinieri possono ammazzare di botte, senza alcun valido motivo, dei giovani di vent’anni, restando non solo impuniti ma ricevendo, semmai, anche il plauso istituzionale; insomma, in questo paese, un paese francamente ridicolo e malsano, tragico e comico ad un tempo, la presentazione del libro della Balzerani turberebbe la comunità? Non c’è limite alla mancanza di vergogna e all’ignominia. Posso solo dire che, evidentemente, anche solo le parole di una donna come Barbara Balzerani, di una comunista rivoluzionaria, mai pentita e mai dissociatasi dalla sua storia, fanno ancora tanta paura. Tanta, da volere addirittura metterne a tacere la voce.
D’altronde, come ha già ricordato lei stessa, in un’intervista rilasciata qualche tempo fa: «Il vincitore, oltre alla resa, pretende tutte le ragioni e fa della ricostruzione storica un’arma per l’esercizio del suo potere. Infatti, la nostra vicenda è stata talmente trasfigurata e decontestualizzata che viene usata come deterrente per il presente. Come se l’ipotesi stessa del conflitto sociale abbia esaurito la sua legittimità una volta e per sempre. La mia scrittura non può che partire da qui perché la storia dell’insorgenza degli anni ’60 e ’70 è il prodotto di violenza, illibertà e ingiustizie di antica memoria. Le responsabilità politiche di chi ha governato questo paese, anche con le stragi, e di chi se ne è fatto alleato, ne hanno costituito le ragioni. Io non intendo cercare giustificazioni per le mie scelte ma neanche darne a nessuno». E poi, di seguito: «Nella sostanza, sono ignorata dalla critica letteraria e ai margini del mercato editoriale, quando non direttamente sanzionata per la mia presunzione di esistenza in vita, ossia con facoltà di parola. Ma non mi lamento, voglio solo scrivere per chi, come me, soffre la povertà dei valori oggi dominanti, che fanno del mercato di tutto e di tutti la misura del bene e del male».
Pertanto, a ben considerare la vicenda della Balzerani e quest’ultimo, deplorevole episodio, il “democratico” stato italiano -dal passato stragista e terrorista, oggi complice nonché, insieme a USA e ad altri paesi membri dell’UE, finanziatore e sponsor di stati e milizie, che del terrorismo si servono per imporre e tutelare gli interessi dell’imperialismo occidentale: Israele, nazisti ucraini, ribelli siriani, jihadisti– continua a considerare Barbara una pericolosa terrorista. Il che appare, palesemente da quanto detto, una grottesca contraddizione in termini. Ma si sa, la democrazia, impregnata di cristiana pietas, ha onnipotenti, insindacabili e imperscrutabili poteri assolutori, che esercita a sua discrezione. Dunque, autoassolve sé stessa per le atrocità commesse e che continua a commettere in fieri, assolve dittatori fascisti come Pinochet, ma mette alla gogna chi, stando alle sue leggi, si sarebbe macchiato del reato di eversione dell’ordine costituito, pagandone, per questo, il prezzo con trent’anni di carcere. In poche parole, per i gendarmi del decoro, una volta scontata la pena, il peso del passato deve incombere come un macigno morale su chi ha preso parte alla lotta armata e, quindi, bisogna ridurlo al silenzio.
Ma se per l’ordine costituito, la Balzerani è stata e resta una terrorista –rossa: il che è un’ aggravante non da poco- per noi, compagni e comunisti, Sara è stata e resta una combattente per il comunismo e per gli ideali di libertà. Ideali per i quali continua a battersi, ed evidentemente a pagare, anche attraverso l’arma della parola scritta. Un diritto di parola che, piaccia o meno, proprio perché dovremmo essere in un regime democratico, non può esserle negato. Un diritto di parola che noi compagni non solo le riconosciamo, ma pretendiamo che eserciti, perché per noi rappresenta la speranza, mai sopita, che un mondo migliore sia ancora possibile, nonostante tutto. Barbara, insomma, oggi è una cittadina, una donna che ha pagato la sua pena, ed ora è libera. Libera di vivere. Libera di scrivere. Libera di parlare. Io, dunque, sono e sarò sempre con Barbara. E per citare Majakovskij: «Nostra arma sono le nostre canzoni. Nostro oro sono le voci squillanti».
lunedì 14 luglio 2014
ALCOOL
Dicono che io
sia spesso ubriaco
Si è vero
bevo cazzo!
Bevo
Ma non è l'alcool
che mi sbronza
E' il sangue
versato
dalle ferite di un mondo
senza senso e senza pietà
che mi sgomenta
e mi ubriaca
Sono le lacrime
dei bambini di Palestina
i loro corpi martoriati
sui letti di ospedale
bruciati e sventrati
che mi tolgono il rispetto
dell’umanità malata
E' l'urlo delle donne
stuprate nelle guerre
e nelle case da bene
quelle maleodoranti
di amore cattolico
che mi atterrisce
Sono le mani
tese dei poveri
su cui la buona borghesia
sputa
giorno per giorno
che mi lacerano
e mi offrono un altro bicchiere
Sono le svastiche
che divorano
il cielo di Ucraina
il macello nazista
della carne di Donetsk
che mi fanno vomitare
ad un angolo di strada
E' questo fetore
di rancido e di morte
emanato dalla vita
a darmi la nausea.
E allora bevo
Si bevo cazzo
Per non spararmi
Un colpo alle tempie.
lunedì 7 luglio 2014
7 LUGLIO 1960: LA STRAGE DI REGGIO EMILIA. MA OGGI COME IERI, LUNGA E' LA LINEA ROSSA DEL SANGUE INNOCENTE VERSATO, PER MANO DEI SUOI GENDARMI, DALLA REPUBBLICA ITALIANA, DEMOCRATICA E LIBERALE
Il 7 Luglio 1960, durante una manifestazione in corso a Reggio Emilia, reparti di polizia e carabinieri del “democratico” Stato italiano, assassinavano 4 operai ed un contadino: Lauro Farioli, operaio di 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino; Ovidio Franchi, operaio di 19 anni, il più giovane dei caduti; Marino Serri, pastore di 41 anni, partigiano; Afro Tondelli , operaio di 36 anni, partigiano; Emilio Reverberi, operaio di 39 anni, partigiano. I feriti ufficiali furono 16, quelli trasportati in ospedale, ma si ritiene che molti altri abbiano preferito curarsi "clandestinamente", per non farsi identificare. La manifestazione era stata indetta per protestare contro le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine, nei giorni precedenti, durante cortei di opposizione al neonato dicastero Tambroni, che aveva avuto l’appoggio esterno del MSI -partito nato dalle ceneri del fascismo, all’indomani della caduta della dittatura- e soprattutto per contestare la scelta, compiuta dallo stesso governo, di designare Genova –città medaglia d’oro per la Resistenza- come sede del congresso del Movimento Sociale, allora guidato da Michelini. Erano passati appena 15 anni dalla caduta del fascismo e dalla Resistenza, che aveva visto il sacrificio di migliaia di vite, immolatesi sull’altare della Libertà –specie partigiani comunisti- e si può comprendere quale fosse lo sdegno che, una simile scelta, aveva provocato in coloro che avevano combattuto contro la tirannide nazifascista. La tensione era altissima e vasta fu, logicamente, la mobilitazione popolare. Ma il democristiano Fernando Tambroni, amico dei fascisti e uomo dal polso fermo e dal pugno di ferro, non si lasciò certo intimidire, ed ordinò ad i suoi sgherri di aprire il fuoco, in caso di necessità. Al temine di quelle settimane di lotta, si contarono undici morti e centinaia di feriti. Tra questi, i 5 di Reggio Emilia. Quel giorno, polizia e carabinieri spararono, contro i manifestanti inermi, qualcosa come 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola.
In seguito a quei tragici eventi, il 29 novembre 1962, la Sezione Istruttoria della Corte d'appello di Bologna rinviò a giudizio il vicequestore Giulio Cafari Panico, per omicidio colposo plurimo, e l'agente Orlando Celani per omicidio volontario, con l’accusa di aver sparato contro Afro Tondelli. Per motivi di legittima suspicione il dibattimento venne celebrato davanti alla Corte d'Assise di Milano e non a Reggio Emilia. La Sentenza venne pronunciata il 14 luglio 1964: il vicequestore fu assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto, mentre l'agente venne assolto con formula dubitativa. Due anni dopo, la Corte d'Assise d'Appello riformò la sentenza, assolvendo l'agente con formula piena.
Sono passati, dunque, 54 anni da quel giorno, ma poco o nulla è cambiato sotto il cielo di questa nostra Repubblica. Una Repubblica che, sin dai suoi primi vagiti, ha annusato l’odore malsano del compromesso di matrice democristiana: ne sono un esempio concreto l’amnistia concessa da Togliatti ai fascisti in galera ed il tradimento del sogno resistenziale, il cui obiettivo era sì la sconfitta del nazifascismo, tuttavia solo come primo passo verso l’instaurazione di una Democrazia Socialista e Popolare. Ma non si poteva. Le logiche di Yalta erano già coattive e l’Italia sarebbe finita sotto il giogo statunitense e sotto l’ombrello protettivo della NATO. Di quei compromessi, ne stiamo raccogliendo oggi, a distanza di 54 anni, i frutti a piene mani. Dopo l’illusione socialdemocratica e bernsteiniana, infatti, del superamento delle contraddizioni insite alla società capitalistica, durata fino alla caduta del muro di Berlino, il trionfo della cultura borghese e piccolo borghese, catto-fascista, finanziario-mercatista e legalitaria è pieno ed ha soggiogato, oramai, anche la sinistra. Oggi come ieri- anzi, a ben guardare ciò che sta succedendo in Europa, più di ieri- i fascisti vengono utilizzati a scopo di normalizzazione sociale e per stroncare sul nascere qualunque protesta o voce si levi –soprattutto se proveniente dal frastagliato arcipelago comunista- in dissenso con le politiche reazionarie, padronali ed imperialiste, attuate da governi sostanzialmente delegittimati a legiferare, asserviti al capitale monopolistico e aventi l’unico scopo di ratificare decisioni prese da organismi sovranazionali come FMI, BCE, UE, Banca Mondiale. Oggi come ieri, se uomini appartenenti alle forze dell’ordine –spesso, vero e proprio braccio armato del governo- commettono reati, finanche l’omicidio, godono di una sorta d’immunità per cui, tuttalpiù, si beccano una condanna formale e simbolica, finendo col fare anche carriera e raccogliendo, addirittura, il plauso dei colleghi per aver fatto il loro sporco dovere. Oggi come ieri, lo stato “democratico” continua a mietere, per mano dei suoi gendarmi, vittime senza colpa, o il cui unico torto è quello di lottare per la libertà, la giustizia e per i propri diritti.
Ieri: Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Afro Tondelli, Emilio Reverberi. Oggi: Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Guido Magherini. Ma l’elenco delle vittime, di ieri e di oggi, potrebbe continuare. Lunga è la linea rossa del sangue innocente, versato dalla Repubblica italiana, democratica e liberale!
lunedì 30 giugno 2014
EPISTOLA A PAPA FRANCESCO: SANTITA', CHI HA RUBATO LA BANDIERA A CHI?
Santità,
parlando della povertà, Lei ieri ha dichiarato, in un’intervista al Messaggero: "I comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. Marx non ha inventato nulla". Mi permetta di dirLe, Egregio Santo Padre, che questa è un’affermazione quanto meno azzardata, tanto sul piano storico-filosofico, quanto su quello della decenza etica. Certe cose, in bocca a Lei, non sta bene sentirle. E Le vorrei spiegare il perché di questa mia perentoria, e solo apparentemente irriguardosa, affermazione.
Dunque, a parte le Sue implicazioni con la dittatura di Videla; a parte il vergognoso e corrivo silenzio da Lei adottato sui crimini commessi, all’epoca, dalla junta argentina, quando non ha addirittura Lei stesso denunciato, ad essa, alcuni sacerdoti -seguaci della Teologia della Liberazione- che le si opponevano: comportamenti che Le hanno procurato il giustificatissimo ed orgoglioso sdegno delle Madri di Plaza de Mayo, ma perfettamente il linea con quella vile ambiguità che, da sempre, ha contraddistinto la chiesa cattolica, collusiva con ogni Potere che non ne ostacoli l’operato, anche se nazifascista; a parte l’appoggio di Giovanni Paolo II a tutte le dittature militari e fasciste in Sud America e la sua politica dichiaratamente anticomunista; ma parlare di furto della bandiera della povertà ad opera dei soliti comunisti, da parte Sua e del Vaticano, non Le sembra, mi perdoni l’irriverenza, grottesco, nonché suonare un po’ come una presa per i fondelli, proprio di quei poveri che Lei dice di voler difendere? Come li difenderebbe la Chiesa, se è lecito? Godendo di privilegi e ricchezze? Stringendo alleanze con massoneria, mafia e dittature fasciste? Riciclando denaro sporco attraverso il pio Istituto Opere Religiose (IOR)? Non pagando le tasse? O facendosi finanziare scuole e cliniche private costosissime, come l’Ospedale San Raffaele di Milano, finito al centro di note vicende giudiziarie, a causa delle quali si tolse addirittura la vita Mario Cal, storico braccio destro di don Verzè?
Siamo onesti, Santità: voi cattolici avete sempre consigliato ai poveri di tacere, pregare e di affidarsi al buon dio e a madama Provvidenza. O,nel migliore dei casi, alla Caritas, come Lei stesso ha coerentemente affermato. Piissime illusioni, ammannite con la minaccia della condanna eterna agli inferi. Intanto, però, Santa Romana Chiesa proliferava e prolifera, laidamente, proprio all’ombra di quella miseria; si alleava e si allea con tutte le classi dominanti, che le consentano di tutelare i propri ingenti profitti e di conservare il proprio enorme potere, spirituale ma anche temporale; ed è stata per secoli, essa stessa, uno stato colonialista, sfruttatore della manodopera dei fedeli e carnefice tra i più sanguinari. Basta considerare cosa fece in America Latina ed in Africa dove, per evangelizzare e civilizzare le popolazioni indigene e pagane, divenne autrice di massacri atroci, ancorché servendosi di mani altrui. Ovviamente, sempre nel nome di quel dio bianco e “grondante” bontà . Mi consenta di dirLe, Ottimo Padre, che semmai Gesù Cristo avesse la ventura di risorgere ai nostri giorni, vedendo la di Lui Chiesa cosa è stata capace di fare, nei secoli, e cosa continua a fare, credo che stavolta non si limiterebbe a cacciare i mercanti dal tempio. lo incendierebbe, quel Tempio. Gesù, com’è noto, non era personcina tranquilla e comprensiva, quando lo facevano incazzare. Dubito, però, che il Redentore, nella sua onniscienza, desideri immolarsi nuovamente per uomini che, in suo nome, hanno compiuto le peggiori nefandezze, stravolgendo, tra l’altro, il senso del suo messaggio evangelico.
Ma torniamo alla questione principale, Santità. Marx ed il Comunismo -portatori di quei rossi vessilli tanto invisi al cristianesimo ed al cattolicesimo reazionario, di cui Lei, Gentilissimo Padre, sembra essere degno esponente, malgrado la propaganda vaticana e massmediatica voglia darci ad intendere il contrario- ai poveri hanno sempre consigliato di studiare, pensare, prendere coscienza di sé stessi e della loro storica condizione di classe e di subalternità, di non tacere, di opporsi a chi ha sempre cercato, per i propri biechi interessi economici, di ridurli in schiavitù, di non lasciarsi strumentalizzare ed indebolire dalla religione e, come logica conseguenza di tutto ciò, di fare la Rivoluzione contro i padroni. Non sarà un inno al pacifismo, ne convengo, ma certamente suona meglio della sublime ipocrisia buonista del Vaticano, dietro cui la Sua Chiesa, Santità, ha celato e cela crimini orribili. Non ultimo, la pedofilia dilagante ed opportunamente occultata dalle gerarchie dominanti in San Pietro. AI poveri e ai popoli affamati non si possono dare in pasto preghiere e rosari. Bisogna dare pane e lavoro. Lei lo dichiara, è vero, ma le parole risolvono poco, specie se ad esse si fanno seguire condotte non conseguenti. In conclusione, Ottimo Padre, quando parla di bandiere rubate, si chieda sempre: chi ha rubato la bandiera a chi?
Mi permetta, allora, di salutarLa, Santità, con alcune parole tratte da Antonio Gramsci, che sembrano scritte apposta per l’evenienza:
«E c'era anche una bandiera rossa; fra le tante bandiere c'era anche una bandiera rossa. Certamente il colore era rosso, obiettivamente doveva essere rosso. Era una bandiera fra molte, troppe bandiere, e in esse anche doveva obiettivamente esistere il color rosso. Successe ciò che succede tra i colori. I colori simpatizzano tra loro e si uniscono tra loro in tenere confusioni, in dolcissime sfumature. Così accadde per quella bandiera; tutti gli altri colori simpatizzavano con lei, essa era immersa fra tante bandiere, fra tanti colori, e si confondeva, si lasciava assorbire.
Eppure quella bandiera era obiettivamente di color rosso. L'osservatore imparziale, riunendo nel pensiero astratto le sovrapposizioni sintetiche del quadro generale doveva convenirne: quella bandiera è rossa.
Non è il solito rosso delle bandiere rosse. Le solite, vecchie, convenzionali bandiere rosse tagliano netta la pupilla, si figgono nella pupilla; esse sono come una piaga appena squarciata che brilla; esse ricordano veramente una piaga che non si rimargina, perché mani proterve staccano i lembi e nuovo sangue fanno zampillare.
Quella bandiera non era una piaga; stava alla piaga come la macchia di pomodoro che i comici, morendo di morte violenta nei palcoscenici di provincia, si applicano sulle tempie strizzando nel pugno chiuso l'economica solanacea. Non era una piaga: forse che i piagati, i feriti vanno sotto l'aspersorio di un cardinale a farsi irrorare d'acqua santa? Ebbene, quella bandiera, obiettivamente rossa, andò sotto il santissimo sacramento e fu consacrata dall'aspersorio di un cardinale.
Non bruciò la ferita, non sentì la carne viva il morso salso dell'acqua santa; non c'era ferita, non c'era carne viva, il rosso era obiettivamente rosso come il sugo di pomodoro.
E la bandiera continuò a bighellonare tra le molte, le troppe altre bandiere. Iniziata, la carriera degli onori è facile e vellutata. Andò ad inchinarsi dinanzi al prefetto; la ferita non senti slargarsi i lembi sanguinolenti dalle mani proterve, non zampillò più vermiglio il sangue. Anzi le molte, le troppe bandiere si unirono più strettamente e la innata simpatia strinse il nodo della gamma dei tanti colori. La bandiera fu assorbita, il poco rosso obiettivo si confuse ancor più nella girandola; un papavero in una cesta di barbabietole e insalata.
Povero colore del sangue vivo, povero colore delle bandiere solite a rimaner sole, povero colore che nelle moltitudini sembri una ferita recente. In quella moltitudine, tra le molte, le troppe altre bandiere, scomparivi, scialba, assorbita nella gamma della girandola, slavata dall'acqua dell'aspersorio di un cardinale. Ma hai iniziato la carriera, farai fortuna, poiché ti accontenterai del tuo scomparire, poiché non domandi che di dissolverti, proprio come il sugo del pomodoro, saporito condimento per gli stomaci robusti, che hanno molto, troppo appetito».
venerdì 27 giugno 2014
PER UNA NUOVA FORZA ANTAGONISTA E MARXISTA
Occorre ricostruire, innanzitutto, un’egemonia politica e culturale fra le masse e all’interno della classe operaia e lavoratrice, per poi elaborare, in uno sforzo intellettuale e collettivo, le forme e la sostanza di un’ ipotesi di società comunista, alternativa al capitalismo, e che, ahimè, tanto in Italia quanto in Europa, attualmente non mi pare emerga. Il problema sostanziale, credo vada individuato nel fatto che non si nota, viepiù, la volontà di compierlo seriamente, quello sforzo collettivo. Men che meno da parte delle dirigenze di quei partiti che si richiamano al marxismo –ovviamente, esclusa SEL, che con il marxismo non ha mai avuto nulla a che vedere- le quali, di quei partiti, troppo spesso si servono per conservare quel minimo di potere che ancora gli derivi dalla loro collocazione gerarchica interna. Qualcosa si agita alla sinistra del PRC e degli altri partiti tradizionali, appartenenti alla cosiddetta sinistra radicale, sul terreno tanto del dibattito teorico, quanto su quello dell’agire politico e strategico e, secondo il mio modestissimo parere, ne vanno necessariamente e appassionatamente seguiti gli sviluppi.
Una cosa, però, almeno a me, risulta chiara. Se non si vuole sperare, in extrema ratio, in un'avanguardia rivoluzionaria -ipotesi che molti aborrono e posso anche trovarmi d’accordo: se non altro perché oggi non se ne scorge alcuna, almeno in Italia- andrebbero smantellate le attuali strutture di partito, impegnate in tatticismi e manovre puramente elettoralistiche e che, nonostante ciò –e anzi, proprio per questo- sono diventate residuali sul piano del consenso elettorale -parlo del PRC, del PDCI, del PCL, di Sinistra Critica. del Partito Comunista Popolare, ridotti, spesso, a pure proiezioni dei loro leader carismatici- e allo stesso tempo, ridimensionate le tendenze economiciste-spontaneiste, tipiche dei movimenti, che sfociano nel minoritarismo, mettendo in atto il tentativo di unire, meglio di fondere, tutte quelle energie, in un omogeneo, seppur culturalmente variegato, blocco sociale e di lotta al capitalismo. Questo blocco andrebbe costruito, ciò deve essere chiaro, riformulando parole d'ordine e superando barriere dottrinali che, troppo spesso, hanno fatto da paravento per le sconfitte del movimento operaio e comunista, negli ultimi anni. Ovviamente, questo non vuol dire operare un revisionismo dei nostri fondamentali principi marxisti -continuano a perdurare le disuguaglianze, le sperequazioni, le ingiustizie, l'imperialismo- ma soltanto adattarne i dispositivi alle mutate condizioni politiche, sociali, culturali, economiche e ai nuovi e diversi rapporti di forza, di classe e di produzione, che le borghesie sono riuscite a mettere in atto, anche per contrastare l’attuale crisi di sistema e di accumulazione valoriale. Proprio per questo, credo che non si possa più ragionare in termini di monoblocco partitico, restringendo il perimetro del conflitto alle sole borghesie nazionali; ma l’orizzonte della lotta deve’essere necessariamente articolato ed internazionalista, oltreché radicale ed intransigente. La discussione è sul terreno. Spero che l’intero movimento comunista voglia prenderne atto.
Nel frattempo, un primo passo verso la costruzione di quel blocco sociale e di lotta può essere rappresentato dal contro semestre popolare, che prenderà il via sabato 28 giugno, a Roma, in opposizione al semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea, contro le politiche di austerity imposte dalla troika e a favore del lavoro, del reddito, del welfare e contro la dilagante guerra imperialista, voluta da UE e USA.
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