Con Renzi mai! Aveva dichiarato, con tono profetico ed inconfutabile, Grillo. Per l’acrobata della retorica demagogica e per la sua brigata rivoluzionaria, l’ex sindaco di Firenze rappresentava, infatti, almeno fino ad oggi, il male assoluto. L'uomo delle lobby, delle banche, della Troika. Ebbene, dopo lo xenofobo ed il fascistoide Farage, il Gatto&la Volpe -Grillo&Casaleggio- aprono, invece, opportunisticamente, in materia di legge elettorale, anche a quello che, fino ad ieri, era considerato l'immondo Renzi. Solo un primo passo, certo; ma comunque un passo in quella direzione, finora tanto deprecata.
La raffinatissima motivazione addotta per giustificare questa scelta –di cui, tra l’altro, non m i pare abbiano dato conto all’ingenua e credulona base: ma ingenua fino a che punto?- è riportata, in un post sul blog di Grillo, firmato dalla premiata ditta G&C: «Renzi è stato legittimato da un voto popolare e non a maggioranza dai soli voti della direzione del Pd». Verissimo. A questo punto, però, verrebbe spontaneo obiettare: l'elezione del neo evangelico Matteo, salvatore del pregiudicato di Arcore, assolutore, in proprio, dell'uomo della P2, responsabile, con il PD, del tracollo morale, sociale, economico e politico del nostro paese, non rientra in quel gioco, truccato e fintamente democratico, che i grillini avrebbero voluto far saltare? Renzi non è stato eletto grazie a brogli -denunciati in gran quantità, dopo le elezioni, dai pentastellati- e al sostegno delle lobby e di quel sistema disinformativo, costituito dai media italiani, i quali, piegati alle logiche dei poteri forti, gli hanno tirato la volata, proprio con il mefistofelico scopo di far perdere il Movimento 5 Stelle? E i suoi elettori non sono, quando tutto va bene, degli imbicelli, se non addirittura dei venduti? Sedersi ad un tavolo con lui equivarrebbe, pertanto, almeno dal mio punto di vista e stando alla logica politica fin qui perseguita dal M5S, a legittimarlo. E legittimare lui, per la proprietà transitiva, vuol dire legittimare il sistema. Ma si sa, in Italia, la flessibilità morale, non solo quella lavorativa, è una necessità. Quindi, ben venga l'abboccamento con Renzi, anche se, fino ad ieri, era Satana. Del resto, il diavolo, a volte, può essere meno brutto di come lo si dipinga. Specie se porta voti.
Già mi aspetto, a questo punto, da parte del Movimento, dei suoi deputati e dei suoi militanti ed adepti, i più fantasiosi ed inverosimili equilibrismi linguistico-concettuali, per giustificare tale strategica scelta; e tra questi, potrei anticiparne sin d'ora qualcuno. Ad esempio: siamo andati a vedere le carte del PD per scoprirne il bluff. Se Renzi non è stupido, come non credo sia, ahimè, accetterà il dialogo, scaricando la pistola in mano a Grillo, qualunque dovesse essere l'esito dell'incontro.
E allora, mi sia consentito rivolgere a Grillo, a Casaleggio e ai tanti amici grillini, un umile suggerimento. Quando si vogliono vestire i panni del Savonarola di turno, moralizzatore dei costumi; quando si vuol essere duri e puri o, ancor meglio, rivoluzionari, poi bisogna avere le palle di sostenere, fino in fondo, i propri principi e di condurre le proprie battaglie fino alla morte, senza porre deroghe alla propria etica e al proprio agire. A Napoli si dice: nun fa diebbete cu 'a vocca! Grillo ne ha fatti tanti, forse troppi, in questi anni. Ora, dubito che abbia il coraggio di morire per le proprie idee. Anche perché, per morirne, bisogna avercegli gli ideali, oltre agli attributi. Per questo, personalmente, continuo a definirmi, benché accusato, a volte, di anacronismo, marxista e comunista: un sistema di valori, congiunto ad una condotta etica ed esistenziale, almeno per me, non negoziabile. E per lo stesso motivo, imbevuto di idealità -o, se preferite, di ideologia- mai potrei sostenere un movimento come quello a cinque stelle. Pur nella consapevolezza di condividere, come ho spesso sottolineato, molte delle battaglie politiche che esso conduce.
Rothko Chapel

"L'estensione logica del business è l'omicidio!" (D. Cronenberg)
domenica 15 giugno 2014
sabato 14 giugno 2014
AUGURI CHE GUEVARA
Il 14 Giugno 1928, nasceva a Rosario, in Argentina, Ernesto Guevara de La Serna. El Che. Medico, umanista, comunista rivoluzionario e guerrigliero, si batté per la libertà del popolo cubano contro la dittatura di Fulgencio Batista, appoggiata e foraggiata dagli USA.
Contro l’imperialismo statunitense e contro le dittature fasciste da esso instaurate -che, in quegli anni, insanguinavano l’America Latina ed il mondo- il Che, anche dopo la vittoria a Cuba , non smise mai di combattere. Il suo tentativo fu di attuare la rivoluzione, popolare e marxista, in paesi come il Congo e la Bolivia. Qui, tradito, l’8 ottobre 1967, venne ferito e catturato da un reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano, assistito da forze speciali americane, costituite da agenti della CIA. Il giorno successivo, lo fucilarono ed il suo cadavere fu ignobilmente mutilato delle mani. Così, gli USA e le “democrazie” occidentali, il capitale e le borghesie che ne gestiscono gli sporchi profitti, si liberavano di quello che, per loro, era diventato il più pericoloso nemico. Pericoloso perché animato da ideali non negoziabili e perché credeva fermamente nella pratica rivoluzionaria, legata ai valori del marxismo, come unico strumento di liberazione dei popoli. Diceva infatti il Che: «Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi».
Oggi, ipocritamente e spudoratamente strumentalizzato da quello stesso sistema che lo volle morto e dalla società dello spettacolo, che tutto mastica e tutto omologa, è diventato un’icona dell’insulso pacifismo borghese, finendo, ad ogni corteo e ad ogni buona occasione, su bandiere sventolate spesso senza consapevolezza politica; e addirittura sulle magliette di ragazzine e ragazzini rockettari o di mediocri personaggi, che se ne fregiano per sentirsi un po’ più “alternativi”. Finanche i fascisti di Casa Pound tentano di impossessarsene.
A me, dunque, non resta che dire a costoro: giù le mani dal Che. Giù le mani dalla sua e dalla nostra storia. Non vi appartiene e mai vi apparterrà.
HASTA SIEMPRE COMANDANTE. E, IN QUESTO CALDO GIORNO D’ESTATE, AUGURI!
venerdì 13 giugno 2014
MARXISMO E POST IDEOLOGIA: ANCORA DUE PAROLE SU DIEGO FUSARO
Stimolato da alcune interessanti considerazioni, vorrei proporre ancora due spunti di riflessione sull’enfant prodige della filosofia nostrana, Diego Fusaro. Ad esempio, gradirei sapere cosa c'entra la praxis marxiana, leninista, gramsciana, con Casa Pound o con gli evoliani. A meno di non voler considerare, ben inteso, il superamento delle gabbie ideologiche novecentesche -che pure Fusaro spesso sostiene- adottando la lente deformante del terzoposizionismo -come vado ribadendo da un po'- che vedeva e vede, ancor oggi, nell'abbattimento degli steccati tra opposti estremismi, dunque tra sinistra e destra radicale, una possibile soluzione per il superamento del sistema capitalistico: in quel caso, allora, Evola, teorico del neofascismo europeo e del comunismo aristocratico, ci starebbe tutto. Ma noi qui ragioniamo da marxisti. Dunque, quella lente, la rifiutiamo categoricamente!
Certo, è abbastanza evidente, a chi non sia afflitto da completa cecità politica ed intellettuale, che vadano superate, o meglio riformulate, all’interno della riflessione marxista, alcune categorie interpretative della realtà, come il radicalismo operaista, il fordismo e il post fordismo, il rapporto ed il conflitto capitale-lavoro, oramai trasferitosi su piani e dinamiche, esistenziali e sociali, decisamente più ampi e diversificati –vedi, ad esempio, l’ambito delle nuove tecnologie reticolari- la retorica asfittica del monoblocco partitico, e il cieco dogmatismo: su questo non ci piove. Specie se si considerano la fluidità della fase storica che ci troviamo a vivere, i mutati rapporti di forza e di classe e la capacità di adattamento del Capitale, nel contrastare la sua stessa crisi di accumulazione valoriale. Stando però attenti a non naufragare, come spesso è accaduto, in pantani revisionisti. Perché, se non c'è dubbio che il Capitale e le sue tentacolari ramificazioni -Istituzioni, Banche, Multinazionali ecc.- siano il nemico da battere, da sempre, è anche vero che essi vanno battuti, non solo non a prezzo delle propria identità, storica e culturale, ma sempre e comunque sul terreno della discriminante di classe. Lo dico non solo da marxista convinto, ma anche per ricordare, ad esempio, che il fascismo agrario e sansepolcrista fu arcignamente anticapitalista, ma non per questo organizzato intorno alla lotta di classe. Anzi. gli sviluppi ulteriori, in senso di alleanza con le forze reazionarie e i gruppi di potere conservatori, svelarono il suo ruolo funzionale alle borghesie capitalistiche. Ruolo che ha, poi, mantenuto anche negli anni a venire. Ecco perché mi permetto, molto spesso e molto umilmente, di mettere in guardia dalla deriva post ideologica, oggi dilagante, dietro cui si celano, secondo me, rischi da non sottovalutare. E Fusaro, da questo punto di vista, mi sembra invece piuttosto ambiguo.
Certo, è abbastanza evidente, a chi non sia afflitto da completa cecità politica ed intellettuale, che vadano superate, o meglio riformulate, all’interno della riflessione marxista, alcune categorie interpretative della realtà, come il radicalismo operaista, il fordismo e il post fordismo, il rapporto ed il conflitto capitale-lavoro, oramai trasferitosi su piani e dinamiche, esistenziali e sociali, decisamente più ampi e diversificati –vedi, ad esempio, l’ambito delle nuove tecnologie reticolari- la retorica asfittica del monoblocco partitico, e il cieco dogmatismo: su questo non ci piove. Specie se si considerano la fluidità della fase storica che ci troviamo a vivere, i mutati rapporti di forza e di classe e la capacità di adattamento del Capitale, nel contrastare la sua stessa crisi di accumulazione valoriale. Stando però attenti a non naufragare, come spesso è accaduto, in pantani revisionisti. Perché, se non c'è dubbio che il Capitale e le sue tentacolari ramificazioni -Istituzioni, Banche, Multinazionali ecc.- siano il nemico da battere, da sempre, è anche vero che essi vanno battuti, non solo non a prezzo delle propria identità, storica e culturale, ma sempre e comunque sul terreno della discriminante di classe. Lo dico non solo da marxista convinto, ma anche per ricordare, ad esempio, che il fascismo agrario e sansepolcrista fu arcignamente anticapitalista, ma non per questo organizzato intorno alla lotta di classe. Anzi. gli sviluppi ulteriori, in senso di alleanza con le forze reazionarie e i gruppi di potere conservatori, svelarono il suo ruolo funzionale alle borghesie capitalistiche. Ruolo che ha, poi, mantenuto anche negli anni a venire. Ecco perché mi permetto, molto spesso e molto umilmente, di mettere in guardia dalla deriva post ideologica, oggi dilagante, dietro cui si celano, secondo me, rischi da non sottovalutare. E Fusaro, da questo punto di vista, mi sembra invece piuttosto ambiguo.
mercoledì 11 giugno 2014
DIEGO FUSARO: LE CONFUSE IDEE DELL’ENFANT PRODIGE DELLA FILOSOFIA ITALIANA
Diego Fusaro, l'enfant prodige della divulgazione filosofica sul web, giovane e sedicente allievo di Marx e Gramsci –molto apprezzato, tra l’altro, da una discreta parte dell’universo a 5 Stelle- fa spesso non poca confusione, tanto sul terreno politico quanto su quello filosofico. Ad esempio, in una recente intervista, afferma di sognare un'Europa modellata sugli insegnamenti di Marx, Gransci e Kant. Che cosa c'entri il filosofo della morale borghese, il filosofo del razionalismo positivista, il filosofo della Bellezza universalmente intesa e concepita come distrazione lonatana dalle passioni -in pratica, il primo passo verso la becera mercificazione dell'Arte- con gli altri due, me lo dovrebbe spiegare, il buon Diego. Inoltre, qualcuno potrebbe anche rispondergli di andarsi a rileggere quanto Kant -che pure si lasciò influenzare dalle teorie illuministiche e post rivoluzionarie- dicesse sul ripsetto dell'ordine costituito; o ciò che il "cinese di Königsberg" -come lo chiamava Nietzsche- scrisse su Federico II, elogiandone il razionalismo e l'inflessibilità, ed il cui pensiero, circa l'obbedienza all'autorità, potrebbe così riassumersi: "'puoi pensare quello che vuoi, ma devi obbedire ai miei ordini".
Ora, dopo aver saltato un dibattito organizzato da Casa Pound, perché offesosi per le critiche ricevute, troviamo Diego ad un convegno di evoliani. Julius Evola, per chi non lo sapesse, è stato il filosofo e il teorico del neofascismo europeo, soprattutto di quella parte che predicava l'abbattimento degli steccati tra destra e sinistra extraparlamentare e radicale, auspicandone la fusione, in chiave antisistema.
Lo vado predicando da tempo: le tesi terzoposizioniste ed evoliane, in sostanza quelle sostenute anche dallo stragista neonazista Franco Freda -tra i responsabili dell’attentato di Piazza Fontana del 1969- nell’opuscolo "La disintegrazione del sistema", sembrano aver largo seguito, oggi, nel frastagliato e confuso panorama politico, italiano ed europeo. E nel lurido pantano della post ideologia!
sabato 7 giugno 2014
A NAPOLI, MAGNANE NIANE, SENEGALESE, ENNESIMO CASO DI VIOLENZA RAZZISTA PERPETRATA DALLE FORZE DELL’ORDINE.LA REPRESSIONE ELEVATA A MODELLO METODOLOGICO-DISCIPLINARE
«Ricordo solo le loro scarpe e la mia testa come fosse un pallone. Ho avuto paura di morire!». Questo il racconto che Magnane Niane, senegalese di 47 anni, ha fatto ieri al presidente della sua comunità , Omar Ndjaye, e all'avvocato, Liana Nesta, che si erano recati in ospedale per accertarsi delle sue condizioni di salute, divenute improvvisamente critiche, successivamente ad un arresto da parte della Guardia di Finanza. Cos’era successo? Ieri mattina, a Napoli, un massiccio intervento dei baschi verdi veniva effettuato sugli ambulanti immigrati, che lavorano tra l’area della Maddalena e la Duchesca. Si sarebbe potuto e dovuto trattare di un normale controllo di routine, ma così non è stato. D’altronde, la durezza e la violenza sono diventate un tratto distintivo, che emerge sempre più frequentemente, durante le azioni, anche più banali, compiute dalle forze dell’ordine. Ma andiamo avanti. Secondo le testimonianze dei tanti presenti, l'intervento degli uomini della Guardia di Finanza si è caratterizzato, sin da subito, per le sue modalità molto aggressive –non stentiamo a crederlo- generando tensioni e paure tra gli immigrati. Ovviamente, si levano proteste e, a quel punto, alcune decine di ambulanti vengono tradotti nella caserma della Guardia di Finanza di via Gianturco. Tra loro c’è, appunto, Magnane Niane che, per di più, non ha nemmeno una bancarella sua e lavora per un italiano. Magnane entra in caserma in normali condizioni e ne esce, qualche ora più tardi, in ambulanza. Lo ritrovano, in ospedale, letteralmente gonfio di botte, estremamente dolorante, con ecchimosi, contusioni e lacerazioni su tutto il corpo, testa compresa. è lo stesso referto medico, peraltro, a confermarlo.
il pestaggio è avvenuto, dunque, in caserma, mentre Magnane era già in manette. Lui, come gli altri, era stato infatti portato via dalla Maddalena già con le mani legate in avanti. Una volta in caserma, poi –come egli stesso racconta- gli è squillato il telefonino nella tasca della tuta. Quando ha provato a prenderlo -forse per avvisare che era stato fermato- ha ricevuto la prima sberla. Quando ha cercato di raccogliere il telefono caduto in terra, è arrivata la seconda ed infine 3-4 finanzieri si sono avventati su di lui, con calci e pugni. «Ricordo solo le loro scarpe e la mia testa come fosse un pallone. Ho avuto paura di morire!». Ovviamente, pronta e scontata, nonché irritante e disonorevole, la smentita del comandante dei baschi verdi: «Sono ferite da autolesionismo, quelle che l'uomo si è fatto medicare nell'ospedale Loreto Mare. Lo stesso in cui sono finiti tre miei militari per le lesioni provocate dai suoi morsi». Il racconto di Magnane, però, è stato confermato anche dagli altri immigrati, presenti in quel momento in caserma. Ora, Magnane è in ospedale, in stato di fermo, ed è accusato di resistenza a pubblico ufficiale. Un assurdo! Come si fa a ipotizzare il reato di resistenza per un uomo che è già in caserma con le mani legate? Evidentemente è possibile. Del resto, è cosa nota da tempo, come continuano a confermare i tanti, allucinanti episodi riportati dalle cronache: quando si viene fermati da Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, o si entra in una caserma, in Italia, tutto può succedere. Dai malori attivi degli anarchici, che si defenestrano da soli, alle accidentali cadute, mentre si è in piedi, sempre da soli, in cella, e che provocano fratture e lesioni multiple; dagli improvvisi raptus di masochismo, con lacerazioni auto inflitte, in persone fino ad allora psichicamente stabili, alle morti per infarto in ragazzi di appena 20 anni, cui viene però trovato il torace fracassato ed il corpo martoriato. Vedi i casi Aldrovandi e Cucchi, tanto per citare i più noti. Avvenuto il pestaggio, Magnane è stato lasciato sul pavimento, con le manette girate alle spalle e, solo dopo molto tempo, e dopo molte richieste degli altri immigrati presenti, è finalmente arrivata l'ambulanza. Al Loreto Mare, sono poi stati portati anche altri immigrati con lesioni minori.
A questo punto, facciamo decisamente nostre le parole espresse dal Forum Antirazzista della Campania in un comunicato: «E' davvero inaccettabile quello che è accaduto a Napoli e dimostra, purtroppo, ancora una volta, come i migranti siano dei cittadini di serie B, esposti ad abusi e violenze persino da chi dovrebbe impedirle». Chiariamo che non s’intende discutere, qui, in termini formali, la legittimità dell'intervento degli uomini della Guardia di Finanza, anche se continuiamo a chiederci il senso di questa guerra contro i più deboli, contro persone che cercano solo di sopravvivere, in mancanza di adeguate politiche di inclusione, facilmente attuabili con bandi e occasioni di emersione per chi fa lavoro ambulante: e ci riferiamo sia ai migranti che agli autoctoni; ma quanto è successo ieri è gravissimo e intollerabile. La dimostrazione pratica che il fascismo e il razzismo delle forze dell’ordine, qualunque divisa indossino, in questo paese, non sono un’invenzione, propagandata strumentalmente, ad opera di alcuni comunisti sovversivi, ma una realtà di fatto, che, oramai, non può e non deve più essere tollerata. I soprusi, le angherie, le violenze di qualunque natura–dai pestaggi alle infami minacce (sempreché ci si limiti soltanto a minacciare) di stupro, nei confronti delle donne- compiuti da chi, nascondendosi vigliaccamente dietro un’uniforme e abusando del proprio potere, agisce in deroga ad ogni principio democratico e in violazione dei più elementari diritti umani, vanno condannati e fermati ad ogni costo. Basta con la repressione elevata a modello sistemico e a prassi metodologico-disciplinare, declinata nelle sue più svariate forme e con lo scopo di agire da contenitore o normalizzatore sociale e da collante per un potere statale, sempre meno democratico e sempre più autoritario; sempre meno autonomo e sempre più asservito agli interessi finanziari di precisi gruppi di potere, che dettano, di fatto, le regole del nostro vivere sociale. Un potere di cui Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza rappresentano, troppo spesso, il braccio punitivo ed armato. Sempre più somigliante, diciamolo chiaro, agli squadroni della morte di fascista memoria!
giovedì 5 giugno 2014
MARA CAGOL: IL CORAGGIO DA NON DIMENTICARE
Il 5 Giugno 1975, presso la cascina Spiotta, in provincia di Alessandria, veniva assassinata, durante un conflitto a fuoco con i Carabinieri, Margherita Cagol, la compagna Mara, tra i fondatori delle Brigate Rosse. Uso volutamente il termine assassinata perché, sin dall’inizio, la versione dei Carabinieri stride con i risultati dell’autopsia, secondo cui: «Margherita è seduta a braccia alzate e le è stato sparato un solo colpo di pistola sotto al braccio sinistro: un colpo per uccidere». Bugie rituali e a cui siamo avvezzi, da parte delle forze dell’ordine. Ieri come oggi.
Per il “democratico” Stato italiano e l’insulsa morale borghese che lo nutre, pertanto, Mara è stata ed è una terrorista da annientare, fino a cancellarne la memoria. Per noi, viceversa, Mara è e sarà sempre una compagna, una combattente, una donna sensibile e colta, caduta per i suoi ideali comunisti di Libertà, Uguaglianza e Giustizia. Dunque, tenacemente vogliamo ricordarla. Tenacemente vogliamo onorarne la memoria. Ad esempio, andando a rileggere quanto scrisse, poco dopo l’arresto di Alberto Franceschini e di Renato Curcio, suo compagno di vita e di lotta, ai genitori: «Ora tocca a me e ai tanti compagni che vogliono combattere questo potere borghese, ormai marcio, e continuare la lotta. [...] È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi dà ragione come l'ha data alla Resistenza nel '45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri. Questo stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sullo stesso piano. In questi giorni hanno ucciso con un colpo di pistola un ragazzo, come se niente fosse: aveva il torto di aver voluto una casa dove abitare con la sua famiglia. Questo è successo a Roma, dove i quartieri dei baraccati, costruiti coi cartoni e vecchie latte arrugginite, stridono in contrasto alle sfarzose residenze dell'EUR. Non parliamo poi della disoccupazione e delle condizioni di vita delle masse operaie, nelle grandi fabbriche della città. È questo il risultato della "ricostruzione", di tanti anni di lavoro dal '45 ad oggi? Sì è questo: sperpero, parassitismo, lusso sprecato, da una parte; e incertezze, sfruttamento e miseria dall'altra. [...] Oggi, in questa fase di crisi acuta occorre più che mai resistere affinché il fascismo sotto nuove forme "democratiche" non abbia nuovamente il sopravvento. Le mie scelte rivoluzionarie dunque, nonostante l'arresto di Renato, rimangono immutate. Margherita». Parole che, alla luce dell’attuale crisi, se è possibile ancor più grave di quella che attanagliò il nostro paese in quegli anni, dovrebbero far riflettere per la loro inesorabile attualità. Parole che dovrebbero far tremare i giovani cuori e ridestare mature coscienze. Parole che commuovono, perché pronunciate da una donna di appena 29 anni la quale, come tanti suoi coetanei, scelse di mettere in gioco la sua vita, perdendola in un giorno di primavera, per amore di Libertà e Giustizia, non certo per ambizione personale. Una giovane donna che decise di prendere le armi, come diceva a quel tempo il Che: «per rispondere alla protesta carica d’ira del popolo contro i suoi oppressori, per lottare e per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati.
«Povera è una generazione nuova che non s'innamora di Euridice e non la va a cercare anche all'inferno», scrive Erri De Luca. Dove Euridice è traducibile col sogno rivoluzionario di una società più giusta, libera, in cui le regole non siano più la schiavitù, la vessazione, il sopruso padronale, l’inconcepibile predominio maschile, esercitato, spesso, con viltà e violenza, la mercificazione dell’essere umano; ma, appunto, una relazione tra uguali, tra donne e uomini finalmente affrancati dai rapporti di forza e di produzione insiti nella società borghese e marcatamente classista. Mara Cagol –e come lei, altri di quella generazione- la sua Euridice andò a cercarla, sfidando le tenebre del nuovo fascismo, con la luce negli occhi e la poesia dei suoi vent’anni nel petto. Un esempio di coraggio e determinazione che oggi non è facile scorgere.
Il giorno stesso in cui Mara venne uccisa, fu proprio Renato Curcio a redigere il volantino per la sua morte. Vi si leggeva, tra l’altro: «E' caduta combattendo MARGHERITA CAGOL, "MARA," dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate Rosse. La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà più dimenticare[…]Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti, ma dobbiamo impararne la lezione di lealtà, coerenza, coraggio ed eroismo![…]Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la memoria di "MARA" meditando l'insegnamento politico che ha saputo dare con la sua scelta, con il suo lavoro, con la sua vita. Che mille braccia si protendano per raccogliere il suo fucile! […]» Noi, oggi, vogliamo onorarla la memoria di Mara e, come i suoi compagni di allora, la salutiamo dicendo: Mara, un fiore è sbocciato, e questo fiore di libertà continueremo a coltivarlo fino alla vittoria!
mercoledì 4 giugno 2014
AD ERRI DE LUCA: RIFLESSIONI PERSONALI AL SUONO DELLA LIRA DI UN ORFEO CONTEMPORANEO
Erri De Luca, sull'edizione 2014 dell'Agenda di Magistratura Democratica, provocando le dimissioni, dalla corrente di sinistra della magistratura italiana, dell’inquisitore Gian Carlo Caselli, procuratore capo di Torino, scriveva: «Euridice alla lettera significa trovare giustizia. Orfeo va oltre il confine dei vivi per riportarla in terra. Ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla. Intorno bolliva il 1900, secolo che spostava i rapporti di forza tra oppressori e oppressi con le rivoluzioni. Orfeo scende impugnando il suo strumento e il suo canto solista. La mia generazione è scesa in coro dentro la rivolta di piazza. Non dichiaro qui le sue ragioni: per gli sconfitti nelle aule dei tribunali speciali quelle ragioni erano delle circostanze aggravanti, usate contro di loro. C'è nella formazione di un carattere rivoluzionario il lievito delle commozioni. Il loro accumulo forma una valanga. Rivoluzionario non è un ribelle, che sfoga un suo temperamento, è invece un'alleanza stretta con uguali con lo scopo di ottenere giustizia, liberare Euridice. Innamorati di lei, accettammo l'urto frontale con i poteri costituiti. Nel parlamento italiano che allora ospitava il più forte partito comunista di occidente, nessuno di loro era con noi. Fummo liberi da ipoteche, tutori, padri adottivi. Andammo da soli, però in massa, sulle piste di Euridice. Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali. Ognuno era colpevole di tutto. Il nostro Orfeo collettivo è stato il più imprigionato per motivi politici di tutta la storia d'Italia, molto di più della generazione passata nelle carceri fasciste. Il nostro Orfeo ha scontato i sotterranei, per molti un viaggio di sola andata. La nostra variante al mito: la nostra Euridice usciva alla luce dentro qualche vittoria presa di forza all'aria aperta e pubblica, ma Orfeo finiva ostaggio. Cos'altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana. Cambiammo allora i connotati del nostro paese, nelle fabbriche, nelle prigioni, nei ranghi dell'esercito, nella aule scolastiche e delle università. Perfino allo stadio i tifosi imitavano gli slogan, i ritmi scanditi dentro le nostre manifestazioni. L'Orfeo che siamo stati fu contagioso, riempì di sé il decennio Settanta. Chi lo nomina sotto la voce 'sessantotto' vuole abrogare una dozzina di anni dal calendario. Si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. Una parte di noi si specializzò in agguati e in clandestinità. Ci furono azioni micidiali e clamorose ma senza futuro. Quella parte di Orfeo credette di essere seguito da Euridice, ma quando si voltò nel buio delle celle dell'isolamento, lei non c'era. Ho conosciuto questa versione di quei due e del loro rapporto, li ho incontrati all'aperto nelle strade. Povera è una generazione nuova che non s'innamora di Euridice e non la va a cercare anche all'inferno». Sono parole che, al tempo stesso, fanno riflettere e fanno male. Destano la coscienza e la tormentano. Incidono uno squarcio generazionale ma, quasi magicamente, contribuiscono a saldare, profondamente, passato e presente. A me, hanno suscitato non poche emozioni, anche alla luce di una recentissima esperienza personale e di una serie di valutazioni, su quel percorso accidentato che è la vita, e che, giunti oltre la soglia dei 40, inevitabilmente tocca fare.
Domenica, ho trascorso una giornata con alcuni compagni, esponenti dell'autonomia napoletana, e si discuteva, tra un bicchiere di vino e l'altro, di cosa fu quella generazione degli anni ‘70, delle sue speranze ed aspirazioni, dei suoi impeti e delle sue amare sconfitte. Io, per età, quella generazione l'ho solo lambita ma ne ho, emotivamente, intercettato il canto corale; ne ho annusato gli umori densi di rivolta; ne ho condiviso, sentimentalmente, l'appassionato desiderio rivoluzionario. In sostanza, mi sono innamorato di quelle che Erri De Luca chiama le sue “commozioni”. Il guaio è che, mentre questo accadeva, quella generazione –più corretto sarebbe dire la parte migliore di essa, che alcuni di loro sono stati- si stava dissolvendo, come moderna Euridice, sbattuta dietro le sbarre dell'Ade di stato, quando non uccisa, vigliaccamente, da un potere il cui unico scopo era cancellarne la memoria e divorarne i sogni, affinché non tornassero più ad agitare l’eterno sonno della ragione che, quello stesso potere, ci stava sofisticatamente e subdolamente allestendo, e in cui sembriamo tutti, oramai, essere precipitati. Molti, delusi e stanchi, si rifugiarono, allora, nella sfera privata. Molti si misero a far carriera. Molti si lasciarono semplicemente trascinare dalla corrente. Non c'era più, insomma, un “Orfeo collettivo”, disposto a rischiare il viaggio agl'inferi per liberarla, la bella ed amata Euridice. Si cominciava a diventare dei singoli suonatori di lira, sbandati e depredati dei sogni. E per di più, barcollanti ai bordi dei marciapiedi.
Assecondando la mia indole, plasmata anche da esperienze infantili non certo felici, mi trasformai, a quel punto, in un ribelle anziché in un rivoluzionario, cominciando a far uso massiccio di droga e di alcol. Per stonarmi, per colmare le innumerevoli sacche vuote che mi risucchiavano nel vortice dell’inconsistenza esistenziale, per illudermi di non cedere alla tranquillizzante e mediocre china dell’omologazione borghese. Insieme a ciò, ho preso parte, ovviamente, a manifestazioni, a movimenti per la casa, a scontri con fascisti e polizia. Ho fatto, specie intorno ai vent’anni, qualche follia, rischiando, inutilmente e stupidamente, la galera o qualcosa di peggio. Insomma, in modo molto contraddittorio, autolesionista ma direi abbastanza consapevole, ho lottato –o, sarebbe meglio dire, ho creduto di lottare- per quanto possibile, contro un sistema oppressivo, incarcerante, spersonalizzante e profondamente iniquo, che avvertivo e avverto come nemico. Quel nemico, però, me lo sono trascinato dietro per lungo tempo e le pesanti catene che sentivo stritolare la mia giovane vita non si sono spezzate. Mancava qualcosa di necessario, di unico, di insostituibile. Ciò che ha fatto e fa la differenza tra una rivoluzione, appunto, ed una sterile ribellione. E’mancata la condivisione dell’utopia. E’mancato il senso della collettività. E’ mancato, in una parola, il canto corale. Sia ben chiaro, non rinnego nulla, neanche i tanti errori commessi. Una cosa, però, è incisa profondamente nella mia coscienza, ormai matura: giunto all'età di 46 anni, sono profondamente in crisi, politica ed esistenziale, e non so se riuscirò mai a vedere un mondo migliore. Anzi, sono quasi certo che quel mondo non lo vedrò. Posso e cerco solo, con le esperienze, spesso dolorose e oramai alle spalle, di una vita complessa, e con la mia attuale modestissima militanza, soprattutto intellettuale, di gettarne piccoli semi in una terra divenuta, nel tempo, alquanto arida.
Ed è forse proprio per questa mia disillusione, pervicacemente non arresasi all’evidenza feroce della realtà, che domenica, mentre chiudevamo la giornata a casa di amici, a cena, nel vedere me stesso e tanti compagni, mangiare e bere spensieratamente, sono esploso, ormai decisamente ubriaco, in un recriminatorio e certo non gradevole, per alcuni di loro: a questo siamo ridotti, compagni? Ad ingozzarci ed ubriacarci come borghesi qualunque? Ma dove sono i vostri, i nostri sogni? Dove sono finiti i nostri, i vostri ideali? Dov’ è finita la vostra forza, che un tempo dilagava per le strade e nelle piazze? E ho cominciato, così, a vagheggiare di lotta armata e di P38, rendendomi, considerato l’evidente stato di ebbrezza e visti i tempi, anche ridicolo. è stato uno sfogo infantile, sarcastico e certamente denigratorio. Ma che rivolgevo principalmente a me stesso.
Dunque, le struggenti parole scritte da Erri De Luca, e che stamattina ho riletto sulla bacheca di una compagna, di quelle che certo non mollano e non hanno mai mollato, sono andate a toccare, come s’intuisce, dei nervi scoperti, in un momento di riflessione personale piuttosto doloroso, suscitando, dentro di me, commozione, rabbia, invidia per tempi non vissuti e voglia di combattere e di crederci ancora.
E allora, proprio in ragione di ciò e di quel sogno comunista e rivoluzionario di Libertà, che bisogna necessariamente mantenere vivo per non morire e per non darla vinta a chi vorrebbe continuare a stuprare i nostri ideali, riducendoci al silenzio, dobbiamo dire che siamo con Erri De Luca. Nostro contemporaneo Orfeo. Nostro poeta-guerreriero. Con lui e contro la follia repressiva di quello Stato borghese, che vuole processarlo e vorrebbe, con piacere, vederlo dietro le sbarre, con l’infame accusa di istigazione a delinquere, per aver semplicemente espresso il suo pensiero in opposizione alla criminale realizzazione di un’opera assurda e inumana come la TAV. Ieri come oggi, il dissenso è criminalizzato dalla democrazia liberale. Ieri come oggi, siamo tutti colpevoli!
Domenica, ho trascorso una giornata con alcuni compagni, esponenti dell'autonomia napoletana, e si discuteva, tra un bicchiere di vino e l'altro, di cosa fu quella generazione degli anni ‘70, delle sue speranze ed aspirazioni, dei suoi impeti e delle sue amare sconfitte. Io, per età, quella generazione l'ho solo lambita ma ne ho, emotivamente, intercettato il canto corale; ne ho annusato gli umori densi di rivolta; ne ho condiviso, sentimentalmente, l'appassionato desiderio rivoluzionario. In sostanza, mi sono innamorato di quelle che Erri De Luca chiama le sue “commozioni”. Il guaio è che, mentre questo accadeva, quella generazione –più corretto sarebbe dire la parte migliore di essa, che alcuni di loro sono stati- si stava dissolvendo, come moderna Euridice, sbattuta dietro le sbarre dell'Ade di stato, quando non uccisa, vigliaccamente, da un potere il cui unico scopo era cancellarne la memoria e divorarne i sogni, affinché non tornassero più ad agitare l’eterno sonno della ragione che, quello stesso potere, ci stava sofisticatamente e subdolamente allestendo, e in cui sembriamo tutti, oramai, essere precipitati. Molti, delusi e stanchi, si rifugiarono, allora, nella sfera privata. Molti si misero a far carriera. Molti si lasciarono semplicemente trascinare dalla corrente. Non c'era più, insomma, un “Orfeo collettivo”, disposto a rischiare il viaggio agl'inferi per liberarla, la bella ed amata Euridice. Si cominciava a diventare dei singoli suonatori di lira, sbandati e depredati dei sogni. E per di più, barcollanti ai bordi dei marciapiedi.
Assecondando la mia indole, plasmata anche da esperienze infantili non certo felici, mi trasformai, a quel punto, in un ribelle anziché in un rivoluzionario, cominciando a far uso massiccio di droga e di alcol. Per stonarmi, per colmare le innumerevoli sacche vuote che mi risucchiavano nel vortice dell’inconsistenza esistenziale, per illudermi di non cedere alla tranquillizzante e mediocre china dell’omologazione borghese. Insieme a ciò, ho preso parte, ovviamente, a manifestazioni, a movimenti per la casa, a scontri con fascisti e polizia. Ho fatto, specie intorno ai vent’anni, qualche follia, rischiando, inutilmente e stupidamente, la galera o qualcosa di peggio. Insomma, in modo molto contraddittorio, autolesionista ma direi abbastanza consapevole, ho lottato –o, sarebbe meglio dire, ho creduto di lottare- per quanto possibile, contro un sistema oppressivo, incarcerante, spersonalizzante e profondamente iniquo, che avvertivo e avverto come nemico. Quel nemico, però, me lo sono trascinato dietro per lungo tempo e le pesanti catene che sentivo stritolare la mia giovane vita non si sono spezzate. Mancava qualcosa di necessario, di unico, di insostituibile. Ciò che ha fatto e fa la differenza tra una rivoluzione, appunto, ed una sterile ribellione. E’mancata la condivisione dell’utopia. E’mancato il senso della collettività. E’ mancato, in una parola, il canto corale. Sia ben chiaro, non rinnego nulla, neanche i tanti errori commessi. Una cosa, però, è incisa profondamente nella mia coscienza, ormai matura: giunto all'età di 46 anni, sono profondamente in crisi, politica ed esistenziale, e non so se riuscirò mai a vedere un mondo migliore. Anzi, sono quasi certo che quel mondo non lo vedrò. Posso e cerco solo, con le esperienze, spesso dolorose e oramai alle spalle, di una vita complessa, e con la mia attuale modestissima militanza, soprattutto intellettuale, di gettarne piccoli semi in una terra divenuta, nel tempo, alquanto arida.
Ed è forse proprio per questa mia disillusione, pervicacemente non arresasi all’evidenza feroce della realtà, che domenica, mentre chiudevamo la giornata a casa di amici, a cena, nel vedere me stesso e tanti compagni, mangiare e bere spensieratamente, sono esploso, ormai decisamente ubriaco, in un recriminatorio e certo non gradevole, per alcuni di loro: a questo siamo ridotti, compagni? Ad ingozzarci ed ubriacarci come borghesi qualunque? Ma dove sono i vostri, i nostri sogni? Dove sono finiti i nostri, i vostri ideali? Dov’ è finita la vostra forza, che un tempo dilagava per le strade e nelle piazze? E ho cominciato, così, a vagheggiare di lotta armata e di P38, rendendomi, considerato l’evidente stato di ebbrezza e visti i tempi, anche ridicolo. è stato uno sfogo infantile, sarcastico e certamente denigratorio. Ma che rivolgevo principalmente a me stesso.
Dunque, le struggenti parole scritte da Erri De Luca, e che stamattina ho riletto sulla bacheca di una compagna, di quelle che certo non mollano e non hanno mai mollato, sono andate a toccare, come s’intuisce, dei nervi scoperti, in un momento di riflessione personale piuttosto doloroso, suscitando, dentro di me, commozione, rabbia, invidia per tempi non vissuti e voglia di combattere e di crederci ancora.
E allora, proprio in ragione di ciò e di quel sogno comunista e rivoluzionario di Libertà, che bisogna necessariamente mantenere vivo per non morire e per non darla vinta a chi vorrebbe continuare a stuprare i nostri ideali, riducendoci al silenzio, dobbiamo dire che siamo con Erri De Luca. Nostro contemporaneo Orfeo. Nostro poeta-guerreriero. Con lui e contro la follia repressiva di quello Stato borghese, che vuole processarlo e vorrebbe, con piacere, vederlo dietro le sbarre, con l’infame accusa di istigazione a delinquere, per aver semplicemente espresso il suo pensiero in opposizione alla criminale realizzazione di un’opera assurda e inumana come la TAV. Ieri come oggi, il dissenso è criminalizzato dalla democrazia liberale. Ieri come oggi, siamo tutti colpevoli!
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