giovedì 19 dicembre 2013

BUON NATALE...





In un paese sempre più povero, con sempre più disoccupati, i cui i giovani, guardando al futuro, sentono il terrore di chi vive senza sogni e senza passione; in un paese i cui operai e la cui classe lavoratrice perdono posti di lavoro e, con essi, la propria dignità; in un paese i cui i vecchi si suicidano perché, al tramonto della vita, le pensioni da fame sono umilianti e non consentono di mettere insieme il pranzo con la cena; in un questo paese, cosa ci sia da festeggiare io non lo capisco. 
In un paese masticato e sputato dalle avide bocche dei padroni, massacrato e preso a calci dallo stato borghese; in un paese mortificato, nella sua umanità, da un razzismo sempre più trionfante e dal sempre crescente disprezzo per le donne, di cui lo stupro, le botte e l’assassinio non sono altro che il frutto marcio di una misoginia culturale, sempre più radicale, e dell’impotente machismo italiota che, invece di scopare, si masturba su youporn e poi, nell’ alienata auto contemplazione e autocelebrazione del suo membro, si vanta di essersi portato a letto mille donne; in questo paese, cosa ci sia da festeggiare, sinceramente non lo capisco.
In un paese che ha svenduto la sua intelligenza e il suo patrimonio d’arte e cultura al mercato delle vacche; in un paese fagocitato dalle fiction sui preti, i carabinieri, la polizia, i nonni e i santi, dagli Xfactor e dai Grandi Fratelli; in un paese narcotizzato dall’entropia dilagante dei talk show politici e inebetito da tette e culi al vento, arrapato dall’accavallo della Brambilla o dal racconto cronachistico delle saffiche avventure, in ambigue vesti monacali, dell’igienista dentale Nicole Minetti: un nome, per i napoletani, che è un dolce presagio; in un paese decerebrato dalle insulse chiacchiere di un comico, la cui unica politica è il vaffanculo tattico, sessualmente affine al qualunquismo strategico, dunque ben lieto di offrire le terga degli italiani al nuovo neofascismo marciante su Roma; in un paese come questo, cosa ci sia da festeggiare continuo a non capirlo.
Nel paese del PD del Caimano del Grillo parlante del neofascista razzista Salvini dell’Asinello e dell’Ulivo, del nipote Letta del nano Brunetta di mortadella Prodi dell’infido D’Alema e dei nauseanti telefonisti alla Vendola, di re Giorgio del Celeste del bimbominchia Renzi della resuscitata DC degli zombie e della mafia, del lungo chiomato e inquietante guru Casaleggio, dei Forconi di Casapound di Forza Nuova...e anche nel paese degli pseudo rivoluzionari comunisti da tastiera, me per primo; insomma, in un paese la cui realtà allucinata sembra sospesa tra una fiaba dei fratelli Grimm, il Teatro dell’Assurdo beckettiano, un racconto di Poe e un film di Cronenberg, il tutto condito da massicce dosi di mescalina, cosa ci sia da festeggiare, non lo capisco e mi rifiuto di capirlo.
Questo paese, il mio paese, il paese nato dalla Resistenza, dalla Lotta Partigiana e Comunista al nazifascismo, il paese in cui furono più accese, dure e commoventi le lotte operaie e studentesche che, tra gli anni ‘60 e l’inizio degli ‘80, fecero tremare i padroni e sognare il proletariato e la classe operaia e lavoratrice; il paese delle avanguardie rosse e rivoluzionarie, giuste o sbagliate non m’ interessa perché non m’ interessano i giudizi manichei su bene e male, giusto o sbagliato, quando ci si sente in guerra con uno stato che ti terrorizza, ti ricatta e ti umilia, sempre schierandosi con i forti e mai con i deboli; questo paese, dunque, il mio paese, apre sempre più le sue vecchie cosce, maleodoranti di incenso clericale, di antiche nostalgie baronali, di ipocrisia piccolo borghese e di patriarcale dominio, al fascismo. Il fascismo fu ed è tensione desiderante mai sopita, nell’Italia della maggioranza silenziosa e moderata, pretesca e benpensante, demagogica e caciarona, che si affida alla Provvidenza e al Così Sia. In un paese in tali condizioni, cosa dovrei dunque festeggiare?
E nel mondo votato all’egolatria, dominato dal puro interesse personale e dalla cultura mercantile del business e del denaro; nel mondo lordato dalle sporche guerre imperialiste, fatte per il petrolio, il gas, lo sfruttamento delle risorse, appartenenti a nazioni e popoli che non possono e non potranno mai usufruirne; nel mondo dove si compra e si vende carne umana; nel mondo dove si commerciano bambini, e c’è chi paga per stuprarli o venderne gli organi al mercato globale e al miglior offerente; nel mondo dove Israele, immemore dei suoi figli massacrati dai nazisti, ripropone, quotidianamente, lo stesso massacro sui figli di Palestina, nel silenzio omertoso di gran parte del pianeta, specie della parte occidentale; in questo mondo dico ancora: cosa festeggiamo, cosa festeggiate?
In un mondo dominato dal Capitale e dal fascismo finanziario delle multinazionali e delle banche; in un mondo omologato e incasellato –l’Americalatina è splendida eccezione- nel trionfo disumanizzante del pensiero neoliberista; in un mondo, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, alla faccia di tutti i Natali colmi di speranza e di bontà, venuti e a venire; in un mondo così, vi chiedo: cosa festeggiate?
Per quel che mi riguarda, in questo paese/mondo infetto e reazionario, volgare e pornografico nella sua avida sete di dominio, sono un disadattato. Peggio: un comunista, con tendenze anarcoidi, che ama ubriacarsi, scrivere e scopare.
E allora mi dite che cazzo dovrei festeggiare, se sono pure ateo?



mercoledì 11 dicembre 2013

A CINQUANTACINQUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE, CUBA È ANCORA UN MODELLO PER I PAESI DELL’AMERICALATINA, IN MARCIA PER LA COSTRUZIONE DEL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO. NONOSTANTE L’EMBARGO OCCIDENTALE E I L TERRORISMO DI MATRICE USA. NON BASTA UNA STRETTA DI MANO, PRESIDENTE OBAMA

Quella notte del 1° gennaio 1959, in cui Fulgencio Batista, il dittatore che governava Cuba con la complicità della mafia italo-americana, fuggì a Santo Domingo con un aereo carico di dollari, nessun politologo o editorialista Usa si azzardò a presagire che il movimento di liberazione di Fidel Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos, che era riuscito a cacciare l’ex sergente sadico e torturatore, avrebbe guidato, per decenni, l’isola dei Caraibi, da sempre la più ambita dagli Stati Uniti. D’altronde, storici e critici di Cuba, di ieri e di oggi, sono stati sempre smentiti dagli eventi: dall’insuccesso patito dai controrivoluzionari, appoggiati dalla Cia, nel tentativo di sbarco nella Baia dei Porci, al collasso del comunismo Est-europeo, che non si portò dietro quello della rivoluzione cubana; dalla drammatica stagione del periodo especial -quando Cuba, negli anni ’90, perse i partner commerciali del mondo comunista, ormai in dissoluzione, e rischiò la fame ma sopravisse- all’infermità di Fidel Castro, che pose l’interrogativo di sempre: che ne sarà della Revolución dopo di lui?
Cuba, dunque, non si è persa. è sempre lì, e festeggerà, tra poco, i 55 anni della Rivoluzione, nonostante i governi di Washington, succedutisi negli anni –non fa eccezione quello di Obama, che pure oggi ha stretto la mano di Raul Castro- continuino a tenere in stato d’assedio politico l’isola più vasta dei Caraibi, colpevole, in definitiva, solo di aver rifiutato, ad un certo momento della propria storia, il credo indiscutibile del capitalismo e del liberismo, e di essere scampata, finora, alle conseguenze di questo azzardo.
Diciamo la verità: è già incredibile che Cuba, autonoma, indipendente e socialista, ancora esista dopo anni di ostilità della più poderosa potenza del mondo, segnati da tentativi incessanti di destabilizzazione politica e da atti terroristici impuniti, preparati in Florida e New Jersey, e compiuti nell’isola, con la copertura della Cia e nel completo disinteresse delle cosiddette democrazie occidentali. È addirittura singolare, poi, che la resistenza di Cuba sia diventata un esempio in America latina, un continente per anni martoriato dal famigerato Piano Condor: un progetto di annientamento di ogni opposizione progressista, voluto dal presidente Nixon e dal segretario di stato Kissinger, negli anni ’70.
La Revolución, quindi, pur non esente da errori, contraddizioni e illiberalità, festeggerà più di mezzo secolo di sopravvivenza. E lo farà potendo vantare la più bassa mortalità infantile dell’intero continente americano, la più alta media di vita del Sudamerica, un sistema sanitario esemplare. Ma questo, ovviamente, i media occidentali si guardano bene dal sottolinearlo. E come potrebbero mai farlo, soprattutto oggi che la Revolución sente anche l’orgoglio di aver influenzato il riscatto e le scelte di progresso, messesi in atto, negli ultimi anni, in America latina? Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Paraguay e Uruguay, guardano a Cuba come un modello da imitare, in quello che è il processo verso la costruzione del Socialismo del XXI secolo.
Circa un anno fa, durante la festa di Liberazione tenuta dal PRC a Napoli, il console venezuelano mi diceva: «Senza la resistenza di Cuba e il sacrificio di tanti Che Guevara, questo vento di autonomia e democrazia non sarebbe ancora soffiato in America latina». In tal senso, fa rabbia vedere gran parte della sinistra italiana, assolutamente incapace di capire cosa stia accadendo in America latina. Come dice Tomas Gutierres Alea, regista cubano di Memorie del sottosviluppo, oltre che di Fragola e cioccolata e Guantanamera: «Cosa ha fatto la sinistra italiana o europea per pretendere di insegnarci quello che dobbiamo fare? Noi la rivoluzione l’abbiamo fatta. E voi?». Come dargli torto? Noi, in Italia, abbiamo Grillo che addirittura vorrebbe cancellarlo, il termine socialismo, e con esso tutto il portato di glorioso passato che rappresenta. Ricorderei, a Grillo e ai suoi, che il Socialismo non va confuso con il craxismo e lo scempio che quella vergognosa pratica politica ha compiuto di quella storia. Ma tant’ è: questa è l’Italietta, con la sua ignoranza e il suo retaggio qualunquista, demagogico, cattofascista, votata all’uomo della provvidenza di turno.
Tornando a Cuba e al terrorismo di matrice statunitense, invece, la realtà è che le notizie che denunciano le strategie imbarazzanti degli Usa in America latina non trovano posto nella comunicazione delle cosiddette democrazie occidentali. Solo nel 2007, per esempio, Washington, per favorire un cambio politico, rapido e drastico nell’isola, ha stanziato, per l’operazione Cuba Libre -un ulteriore progetto di destabilizzazione dell’isola con il lancio di una vera e propria strategia della tensione- 140 milioni di dollari, di cui 60 del Congresso e 80 prelevati dalla disponibilità personale del presidente; e nel 2008, nonostante l’esplosione della crisi finanziaria, i contribuenti nord-americani hanno dovuto sborsare, senza essere consultati, 45 milioni di dollari per lo stesso obiettivo. Un’operazione azzardata, diventata pubblica grazie a una lettera aperta di James D. Cockroft, docente all’università di Stanford e studioso della politica estera e della “storia occulta” degli Stati uniti. Michael Parmly, responsabile dell’ufficio di interessi Usa a L’Avana, aveva facilitato trasferimenti di denaro a Martha Beatriz Roque, fino a poco tempo fa indicata come una leader dei dissidenti cubani. Il denaro, oltretutto, proveniva da una fondazione diretta dal noto terrorista, Santiago Alvarez, attualmente in carcere a Miami, dovendo scontare una condanna perché scoperto in possesso di un enorme arsenale di armi. Quella Santa Barbara – ha sostenuto Alvarez – doveva servire per attacchi contro Cuba. 
Ebbene, com’è stato possibile allora, per la Revolución, durare 55 anni in questo contesto? Bernardo Valli, che in gioventù la visse e la raccontò, affermava tempo fa su La Repubblica che, a questa domanda, molti cubani sorridono, alzano gli occhi al cielo e citano alla rinfusa tanti motivi: il carisma di Fidel, il sostegno dei campesinos emancipati dalla rivoluzione, le rimesse degli esuli cubani negli Usa e i Comitati di difesa della rivoluzione. 
Valli, alla fine, indica però questi ultimi come la vera macchina della sopravvivenza del paese: l’igiene, la sicurezza, la disciplina rivoluzionaria, la lista delle persone segnalate come «asociali», le dispute familiari, la prevenzione degli uragani e perfino la sorveglianza della frequenza scolastica dei minori.
Io penso invece che abbia ragione Alfonso Sastre, il prestigioso drammaturgo spagnolo, quando afferma che Cuba ha resistito, pur con tutte le sue contraddizioni, per aver saputo creare, fra la gente, una coscienza collettiva e solidaristica. Una coscienza che è passata sopra i contrasti e gli errori, e resiste nel tempo. Auguri Cuba. Auguri compagno Fidel!





lunedì 9 dicembre 2013

LA SANTIFICAZIONE BORGHESE DI MANDELA

Nel delirio celebrativo per la santificazione “borghese” di Mandela -rito sacrificale di un corpo e di un’idea, fagocitati dalle voraci mascelle della spettacolarizzazione globalizzata e livellatrice- bisognerebbe ricordarsi un paio di cose fondamentali:
Madiba creò il braccio armato dell'ANC, sostenne fermamente la lotta armata della maggioranza nera contro la minoranza, fascista e tirannica, dei bianchi, e così, en passant, era Comunista! E' da molti soprannominato, infatti, il Che Guevara del continente nero. Tanto che i governi occidentali, a cominciare, ovviamente, da quelli di USA, Inghilterra e Francia, nonché le lobby finanziarie, che avevano forti interessi economici in Sud Africa e nell'Africa in generale -e che, in quegli anni di guerra fredda, sostenevano il governo segregazionista di Pretoria, nel più ampio dispiegamento di una lotta senza frontiere al comunismo- lo accusarono di terrorismo.
Ora, invece, non solo si affannano tutti a commemorarlo -a La Scala, è stato vomitevole vedere la ricca borghesia meneghina, tradizionalmente di destra, che fino a qualche anno fa lo avrebbe visto volentieri morto, alzarsi per il minuto di silenzio- ma, mistificandone la figura di uomo di parte e di combattente, tramite la propaganda portata avanti da stampa e televisioni -che alle lobby suddette sono inginocchiate- vorrebbero proporne un'ipocrita evangelizzazione in salsa pacifista. Una VERGOGNA. Ma queste sono le conseguenze del mondo globalizzato, iconico, spettacolarizzato e interclassista....Tanto per chiarire.
CHE LA TERRA TI SIA LIEVE, COMPAGNO MADIBA

BREVE CONSIDERAZIONE SUL CONGRESSO DEL PRC




Ho seguito il congresso del mio partito, Rifondazione, in streaming e la spaccatura, tra chi sostiene l'assoluta autosufficienza del PRC e chi invece promuove un dialogo con le altre forze di sinistra -che non significa, specifichiamolo, alleantismo o subordinazione: Grassi, Burgio, Steri, su questo sono stati chiari, sostenendo anche la necessità di dialogo con chi sta alla nostra sinistra e con i movimenti, nella misura in cui, certo, si riesca a presentarsi come punto di riferimento, non certo nell'ottica, improponibile in questo momento, di egemonizzazione culturale- è netta. Però, tra i sostenitori del doc 1, senza emendamenti, ci sono stati interventi, come quelli di Maurizio Acerbo, Rosa Rinaldi, Fabio Amato, Dino Greco, che non precludevano, pregiudizialmente, il dialogo; e certo, non sostenevano l'isolamento nell'eburnea torre del purismo assoluto. Dal punto di vista degli interventi, il congresso è stato, diciamolo, interessante e, considerata la fase interlocutoria, per usare un eufemismo, in cui versa il PRC, si è volato, in molti casi, anche molto alto, su questioni inerenti i massimi sistemi. Il problema sta, appunto, in quelle che sono le questioni relative alla bassa cucina politica: personalismi, lotte intestine, alleanze strumentali ecc.
Su partito sociale, fronte antiliberista e anticapitalista, ripresa delle lotte, ruolo dei comunisti e riconsiderazione delle strategie sindacali, pur con i dovuti distinguo -vedi quanto è successo alla fine, con un emendamento proposto da Montalto, mi pare, e rigettato dalla commissione politica come ha spiegato Roberta Fantozzi- siamo tutti, più o meno, sulla stessa lunghezza d’onda. Il problema è che tutto ciò, in teoria, va bene, ma è nella prassi politica che deve trovare applicazione. E se non c'è un segretario, la dirigenza non si rinnova e, quindi, tutto si traduce in attendismo/immobilismo o peggio, in una linea politica confusionaria e pasticciata, dove ognuno fa un po' come cazzo gli pare -negli ultimi anni è stato pressappoco così- beh, non so come pretendiamo di aggregare consenso, specie tra quella che dovrebbe essere la nostra "classe" di riferimento: per inciso, già smarritasi, da tempo, in mille rivoli. Negli ultimi anni, ci sono state colpe di altri e colpe, gravi, di Rifondazione, questo va detto con franchezza. Il segretario uscente, Paolo Ferrero, parla di autosufficienza e poi, però, dall'alto si è calato il cartello elettorale di Rivoluzione Civile e lo si è sostenuto con enfasi. Avverto una schizofrenia politica e di pensiero in questo modus operandi.
Altro punto cardine, molto dibattuto, è stato quello della fusione col Pdci. Siamo tutti d'accordo che Diliberto e compagni abbiano sbagliato nel rendersi più volte disponibili ad un’ alleanza col PD, mentre noi abbiamo, fortunatamente aggiungo, praticato strade diverse. La questione sorge, tuttavia, quando si va a considerare quali siano state queste strade. E, onestamente, non mi pare abbiano prodotto i frutti sperati. Inoltre, sfiora quasi il ridicolo la presenza, in questo paese, non di due, ma di circa dieci partiti comunisti. Forze incapaci di trovare un accordo su quello che li unisce, invece di spaccarsi su differenze, spesso diciamolo, cavillose e di pretestuosa cultura politica. Il problema vero, lo sappiamo tutti e, cosa ancor più grave, lo percepisce il nostro elettorato, effettivo o potenziale, non verte tanto sulle diversità culturali, quanto sulle questioni personali che danno vita a faide interne, tra gruppi dirigenti e tra personalità pregne di un narcisismo, non certo sano per qualcuno che si richiama al comunismo, come idea fondante la propria etica, umana prima ancora che politica. Anche tra i comunisti, infatti, pare che, in questi anni, sia di moda il partito personale. Se si avesse veramente a cuore la classe operaia e lavoratrice, quindi, si troverebbe il modo di lottare insieme, anziché calcolare, manuale Cencelli alla mano, le percentuali all'interno dei comitati politici, nazionali e locali.
In conclusione, dunque, si abbia il coraggio di dirlo: o si fa politica, e la politica è anche confronto tra culture diverse, o si hanno le palle di andare in piazza, come avanguardia rivoluzionaria. Costi quel che costi. Io, su questo, posso anche essere d'accordo. Ma, forse, non è il momento giusto!

giovedì 5 dicembre 2013

GRILLO, LA CANCELLAZIONE DEI SINDACATI E IL SUPERAMENTO DEL SOCIALISMO.




«Voglio uno Stato con le palle. Eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti politici. Non c’è più bisogno dei sindacati. Le aziende devono essere di chi lavora». Questa, la brillante e non nuova idea di Beppe Grillo -una delle tante, sia ben chiaro- per risanare la disastrata condizione economica, politica, istituzionale, in cui versa il nostro paese. Ora, non sarò certo io a proporre una difesa d’ufficio della triplice CGIL-CISL-UIL, colpevole, negli ultimi anni, di vari scempi. Mi chiedo, però, quale sia l’obiettivo finale di Grillo e di buona parte dei suoi adepti che, evidentemente pervasi da un abissale e sconfortante vuoto culturale, gli vanno dietro, rinunciando -loro che sono sempre pronti a giudicare, disapprovare, censurare, stigmatizzare, demolire- a quel sano esercizio critico, che dovrebbe qualificare ogni intelligenza. Mi spiego. Una simile strategia, se attuata, non condurrebbe ad altro che all’affossamento definitivo della tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, nonché allo smembramento conclusivo dell’architrave costituzionale, in nome del quale gli stessi pentastellati pure dicono di battersi, non senza palesare, però, enormi contraddizioni. Non vanno dimenticate, infatti, solo per fare un esempio, le quantomeno ambigue dichiarazioni della portavoce alla camera, Roberta Lombardi, circa il fascismo buono e l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, dalla stessa definito, senza mezzi termini, «un’aberrazione». Lo vadano a dire, Grillo ed i suoi, agli operai con famiglia mono reddito e figli a carico, licenziati senza giusta causa o per strumentali ragioni di profitto! L’aberrazione, invece, credo stia proprio in quelle dichiarazioni, irrispettose delle condizioni offensive dell’umana dignità, in cui la crisi e le politiche recessive ultraliberiste, imposte dalle istituzioni politico-finanziarie, dai mercati e dai padroni, hanno spinto la classe operaia e lavoratrice, di questo paese ma non solo. Altro che storie. I Cinque Stelle, su tali questioni dirimenti, da che parte stanno? Difficile capirlo. Ad ascoltarli o a leggere il loro approssimativo programma, regna, nel movimento, il disorientamento culturale e politico più totale. In pratica, specie in materia di politica economica, industriale e del lavoro, il movimento sembra volere tutto e il contrario di tutto.
Ma non è per puro gusto di polemica che scrivo. Veniamo, quindi, al merito della questione. Personalmente, ritengo che il sindacato, con le sue strategie, vada senz’altro ripensato, non certo dismesso nella sua essenza ideologica, politica, sociale. Cosa intenda invece Grillo, quando afferma: «Le aziende devono essere di chi lavora», anche questo non è dato saperlo. Intende forse eliminare, sbrigativamente, la stessa idea fondante del sindacato: il conflitto Capitale-Lavoro? Ciò, non solo è inaccettabile ma, vorrei rilevarlo, una simile dichiarazione, pronunciata dal capo di un movimento essenzialmente interclassista e demagogico –la distinzione tra popolo e classe è sostanziale- e da uno che sull’immigrazione fa dichiarazioni di matrice squisitamente razzista –ius sanguinis invece dello ius soli- acquista un vago sapore corporativista e dunque, anche se solo confusamente, fascista! Se a questo si aggiunge, poi, la fervente retorica post-ideologica, per cui al termine socialista si attribuisce una connotazione negativa –ricollegandolo forse, esclusivamente chissà, al vergognoso passato craxiano- e si propone di sostituirlo, in un emendamento presentato addirittura in commissione cultura –ahimè, dopo Sgarbi ci mancavano i grillini- con la locuzione “cultura sociale”, senza considerare la valenza storica, filosofica, economica di quello stesso termine, allora il quadro che si viene delineando è sempre più squallido e cupo.
In tal senso, vorrei qui ricordare alcuni proclami di Edmondo Rossoni, nominato nel 1922 Segretario Generale della neonata Confederazione Nazionale delle Corporazioni Sindacali Fasciste, come pure le parole dello stesso Mussolini, che le affermazioni del leader a cinque stelle mi hanno evocato: «Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro e sostituire, al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore, ed all’altro, di padrone, la parola dirigente, che è più alta, più intellettuale, più grande»; «Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei»; «Sia il Capitale sia il Lavoro devono essere disciplinati. L’appetito all’infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista è per la collaborazione»; ed in fine, il duce stesso: «Chi dice lavoro dice borghesia produttiva e classi lavoratrici, della città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della nazione».
Proprio questa concezione armonizzatrice, corporativista appunto, noi la rigettiamo: in nome del conflitto tra padronato e classe operaia e lavoratrice, del conflitto Capitale-Lavoro, in una parola, della Lotta di Classe.
Certo, è vero: specie negli ultimi anni, la CGIL –parlo essenzialmente del sindacato che qui più mi interessa- conducendo la sua linea sull’asse, inaccettabile e disastroso, della concertazione, ha finito col proporre, in più occasioni, una strategia compatibilista con le scelte ultraliberiste dei recenti governi, accodandosi, tra l’altro, a quel PD che più nulla ha di un partito di sinistra. Anni durante i quali, da una parte il sindacato acquisiva potere, mentre dall’altra i lavoratori peggioravano le loro condizioni materiali di vita, fino a giungere ad un presente che vede la riduzione drastica del potere d’acquisto dei salari e, nei casi più drammatici, com’è noto, la cancellazione padronale e arbitraria di posti di lavoro, anche per motivi di appartenenza politico-sindacale. Comportamenti inaccettabili, senza alcun dubbio, che si stanno traducendo in una progressiva e implacabile pietra tombale sui diritti delle classi lavoratrici, conquistati in anni di durissime battaglie, non prive di sangue versato per le strade. Con il padronato, con questo padronato che delocalizza in nome del puro profitto, che affama gli operai e che sta attuando una macelleria sociale, senza confini e globalizzata, non si tratta. Si va, si deve andare allo scontro diretto, alzando il livello del conflitto sociale e riproponendo, con coraggio, la nostra Lotta di Classe.
La soluzione pertanto, a mio modesto avviso, può, anzi deve essere, quella di ripensare le strategie del sindacato, di rifondarne la struttura, riorganizzandola, come dice ad esempio Cremaschi «attorno alla sofferenza delle persone in carne de ossa, riconquistando e comunicando voglia di conflitto, cambiando strategia e pratica dopo più di venti anni di accettazione del liberismo e delle compatibilità». Insomma, la soluzione deve essere il rilancio di un serio sindacato di classe; non può certo essere la dismissione, invocata dal demagogo di turno, di una delle più grandi conquiste democratiche nella storia delle lotte per la difesa dei diritti dei lavoratori: in una parola, delle lotte tra oppressori e oppressi. Lotte e conquiste che, diciamolo a chiare lettere, vanno ascritte principalmente a quel movimento operaio di matrice marxista, socialista prima e comunista poi, la cui storia e memoria, oggi, Grillo vorrebbe superare, se non addirittura cancellare. Allora vorrei ricordare, infine, al buon Beppe e ai suoi militanti e attivisti, sempre troppo solerti, come dicevo prima, nell’accogliere pedissequamente le parole del loro capo carismatico, quelle scritte, sul Popolo d’Italia, da un altro sindacalista fascista, Enrico Corradini, nella speranza che all’interno del M5S –cui hanno aderito e dato voti non pochi compagni- su certi temi si apra un franco dibattito: «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell’opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti [...] Vi è fra socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica [...] Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell’opera socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua». Asserzioni su un ipotetico superamento delle idee socialiste e comuniste che, purtroppo, sento spesso affiorare anche sulla bocca di numerosi grillini, temo digiuni di conoscenza storica e privi di una visione politica prospettica, riguardo ad un simile smantellamento sul piano culturale, ancor prima che su quello politico.
Io da Comunista, e con me tanti altri compagni, a questo scempio post-ideologico, che rischia di mescolare, come già accaduto in un fosco passato, istanze e principi, offendendo la nostra memoria e appropriandosi, per giunta, della nostra cultura e azione politica, diciamo no. La nostra è, lo abbiamo dimostrato in quasi due secoli –a prescindere da quanto si affanni a sostenere oggi la squallida propaganda, al soldo del grande capitale finanziario o della ricca borghesia radical chic- una storia gloriosa di lotte per la Libertà, la Giustizia sociale, la Pace tra i popoli; pur nell’ottica rivoluzionaria di liberazione dalla tirannia e dall’oppressione esercitata dal più forte sul più debole, dal ricco sul povero. Una storia che ha visto il sacrificio di migliaia vite umane, immolatesi per quegli ideali. Una storia che, perciò, siamo decisi a difendere con tutte le nostre forze. Gli altri –nel caso specifico Grillo- invece di evocare, facendo pericolosamente leva sulla rabbia e l’insofferenza della gente, uno «Stato con le palle», dalle vaghe eco fascistizzanti, pensino a costruirsene una di storia, di cui essere, se possibile, altrettanto fieri!

sabato 23 novembre 2013

RAI3 DISINFORMA SULL’OMICIDIO KENNEDY, TRA GOSSIP E COMMISSIONE WARREN.




"Cosa avrà mai fatto di grande Che Guevara?" Alla dichiarazione di Oliviero Toscani, sobbalzo sulla sedia. Secondo questo signore, trasgressore tartufesco e sincero furfante –avrei voluto vedere lui sulla Sierra Maestra, almeno a fare fotografie- Ernesto Guevara de la Serna sarebbe diventato famoso semplicemente come icona mediatica, grazie allo scatto di Korda.
Un film, Parkland, sull’assassinio di Kennedy –prodotto nientedimeno che da Tom Hanks- ed un dibattito, ieri sera su Rai3, che hanno evidenziato, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, lo stato di dismissione e di abdicazione culturale in atto, ormai da anni, nel giornalismo e nel mondo intellettuale italiani, e non solo. La redazione giornalistica del terzo canale Rai, ieri, ha superato sé stessa, mettendo in atto un vero e proprio protocollo disinformativo al fine di manipolare e narcotizzare le coscienze dei cittadini -specie dei più giovani e di quelli meno preparati- in merito alle connivenze tra politica, lobby finanziarie –armi e petrolio- mafia, FBI, CIA, servizi segreti USA addetti alla persona del presidente, ed anticastristi –anticomunisti, in parole più chiare- che agirono dietro le quinte nella preparazione e nell’esecuzione dell’attentato al presidente John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas cinquant’anni orsono. In pratica, invece di ricercare la verità –deontologica missione che dovrebbe permeare il mestiere del giornalista- si è tenuto un dibattito-farsa che ha trattato l'omicidio Kennedy alla stregua di un becero gossip. E quando non lo ha fatto, ha dato ampio e quasi esclusivo rilievo alla tesi ufficiale, ratificata dalla commissione Warren, limitandosi solo ad accennare ai dubbi e alle incongruenze che ne mettono in discussione l’impianto.
Per intenderci, secondo gli atti di quella commissione: ad uccidere Kennedy fu il solitario folle -marxista e filo castrista, ovviamente- Lee Harvey Oswald; non esistono prove di un complotto; furono sparati solo tre proiettili –sulla base di indagini e studi, invece, ne sarebbero stati sparati cinque- ed il secondo sparo, quello che colpì il Presidente Kennedy nella parte alta della schiena, uscì dalla gola, continuando la sua corsa e causando tutte e cinque le ferite del Governatore John Connally. Sostanzialmente, in spregio alla razionalità e all’umana intelligenza, la commissione concluse che quel proiettile era entrato nella spalla di Connally, era uscito dal petto, aveva attraversato il suo polso ed era finito nella sua coscia destra, cadendo, successivamente, fuori dalla lettiga all'ospedale, dove fu trovato addirittura intatto. E’ quella che Jim Garrison, il procuratore di New Orleans che tentò di provare l’esistenza di un complotto, chiamò la pallottola magica! Basta vedere il film di Oliver Stone “JFK, un caso ancora aperto” per avere almeno una visione un po’ più ampia e critica circa quegli avvenimenti, se non si avesse voglia di leggere il libro, comunque sempre più istruttivo. Ora, parliamoci chiaro, io non dico che bisogna abbracciare per forza la tesi di Garrison e di Stone, ma certo, quella che è diventata la “verità ufficiale”, risulta, alla prova dei fatti e ancora dopo cinquant’anni, piuttosto sbilenca e facilmente confutabile.  
Ciò detto, dunque, il conduttore de L’Agorà, Gerardo Greco –che, per inciso, all’affermazione fatta da Toscani su Che Guevara non trattiene una risata- ieri sera ha superato Vespa di due spanne!
Oramai, ed è questo il problema che mi preme sottolineare qui più di ogni altra cosa, le dinamiche e gli equilibri sono così consolidati, anche e soprattutto per quel che concerne il ganglio cruciale dell'informazione, come essenziale strumento in mano al potere borghese, che il pensiero critico è stato quasi definitivamente soppiantato. E lo sarà di certo ancor di più, se si proseguirà nella scellerata politica dei tagli indiscriminati all’editoria e nel progetto di privatizzazione di una RAI il cui livello culturale è già da tempo, comunque, schiacciato dagli interessi di mercato. E’ di pochi giorni fa, tra l’altro, l’annuncio della cancellazione dai palinsesti di un programma come “C’era una volta”, di Silvestro Montanaro. Un programma di documentari e reportages –realizzato per altro a costi bassissimi- per molti versi unico nel suo genere nel panorama televisivo italiano, che ha mantenuto aperta una finestra informativa di qualità sulle pagine più oscure dei processi di globalizzazione, sullo stato dei diritti umani nel mondo, su tante crisi e conflitti volutamente ignorati e che ha sempre denunciato, con rabbia e forza, l'azione criminale del capitalismo neocolonialista. Ad una simile situazione non ci si può e non ci si deve rassegnare, specie pensando all’eredità che trasmetteremo alle generazioni future. Generazioni per le quali il rischio, già abbondantemente in atto, è quello di vivere in un mondo in cui l’unica “verità” sarà quella che verrà ammannita loro, asettica e preconfezionata, dalle classi dominanti. E chiuderei, quindi, con un pensiero di Antonio Gramsci, imprescindibile e al quale bisognerebbe tornare più spesso: «La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri».

martedì 29 ottobre 2013

IL PERICOLO NEGAZIONISTA


Nei giorni scorsi, quelli che hanno seguito la morte del boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, e la questione della sua sepoltura –cui è stato opposto, giustamente ritengo, un veto simbolico- con mio grande rammarico e angoscia, mi è toccato leggere ed ascoltare le più assurde teorie, volte a mettere in discussione la veridicità storica delle camere gas e, più in generale, dell’Olocausto. Non si tratta, lo dico subito, di veri e propri postulati di matrice negazionista –i corifei di questo movimento sono “storici” come David Irving, Robert Faurisson, Ernst Zundel, tutti associati all' Institute for Historical Review, fondato nel 1978 negli Stati Uniti- ma di una sorta di tendenza culturale, riduttiva e pericolosissima, che, alla luce di alcune considerazioni, prendenti le mosse dalla sbriciolata attualità politica, sociale ed economica che ci troviamo a vivere, tende a mettere in discussione qualunque punto di riferimento e certezza, come se fossero diretta emanazione di un Potere occulto, quasi metafisico direi, capace non solo di predeterminare e di indirizzare, teleologicamente e per interessi ben precisi, il futuro e, con esso, l’intimo sentimento delle nostre coscienze, ma addirittura di aver, preventivamente, alterato la realtà storica, scrivendo pagine atroci di orrori, al solo scopo di un’autoassoluzione in prospettiva, qualora quello stesso Potere avesse in seguito, come è poi effettivamente accaduto, compiuto altrettante nefandezze. Ora, soprattutto da comunista, non sarò certo io a negare l’esistenza dei cosiddetti poteri forti o occulti, come non sarò certo io a negare la manipolazione che, del passato, il Potere ha sempre compiuto. Del resto, scriveva Orwell nel vaticinante 1984: «Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato». Qui, però, la questione va ben oltre, mi sembra, ed il rischio, nient’ affatto peregrino, è quello di accettare e sostenere –nel nome di un pur giusto sentimento antagonista nei confronti del pensiero e del sapere dominante- derive culturali di carattere nazista. Quel nazismo –o fascismo- che poi fu, ed è ancora, emanazione diretta proprio di quei poteri occulti, che ad esso hanno fatto e fanno ricorso nei momenti di crisi, cui non sanno dare una risposta se non di tipo autoritario. Insomma, per chiarirci, il mostruoso paradosso potrebbe essere quello di finire col fare letteralmente il gioco di quello stesso Potere che si pretende di avversare, abbracciando la sua faccia più sinistra e feroce. Viviamo in un momento storico di tale caos entropico, informativo e culturale, che un simile pericolo è implicito e per nulla illogico. Ecco perché ci sono alcune questioni che non possono e non devono essere messe in discussione, in primo luogo in quanto appartenenti alla dimensione etica dell’umanità. E negare la tragedia della Shoah, quale aberrante prodotto del nazifascismo, significherebbe aprire una ferita, difficilmente rimarginabile, proprio nella carne viva del nostro sentimento etico. 
Dunque, a chi nega o afferma di dubitare dell’esistenza delle camere a gas -in cui, ricordiamolo, non furono uccisi soltanto ebrei, ma rom, sinti, slavi, negri, omosessuali, persone con handicap, comunisti, cattolici, oppositori in genere: insomma, chiunque non corrispondesse, umanamente e politicamente, al farneticante ideale di società, vagheggiato dal nazionalsocialismo- consiglio di dare una scorsa al Mein Kampf.
In quel libro, un indigesto pot-pourri –com’è noto a chi lo abbia letto- di pensiero filosofico corrotto e decontestualizzato (Nietzsche in primis), razzismo, slogan, pervertimento etico, ribaltamento delle teorie darwiniste -noto come darwinismo sociale o spencerismo- degenerazione radicale della morale luterana e dell’intimo antisemitismo che la plasma –interessante, a tal proposito, la visione del film di Michael Haneke “Il Nastro bianco”- concezioni economiche elaborate su base rigidamente nazionalistica e razziale, falsificazione storica, esoterismo ecc, Hitler gettava le basi di quello che sarebbe stato, poi, il pensiero “politico/filosofico” che avrebbe permeato l’intera vita del III Reich. Un vangelo aberrante, di cui vorrei ricordare solo alcuni illuminanti passaggi: «Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita, dobbiamo distruggere in maniera tecnico-scientifica[…] Gli ebrei non furono mai nomadi, ma sempre e soltanto parassiti[…] I negri sono delle mezze scimmie[…] In creature fornite di un forte istinto di razza, la parte rimasta pura tenderà sempre all’accoppiamento fra eguali, impedendo un’ulteriore mescolanza. E con ciò, gli elementi imbastarditi passano in secondo piano, a meno che essi non si siano così tanto moltiplicati da impedire la riaffermazione della razza pura[…] La Francia, in misura sempre maggiore, integra il suo esercito con gli elementi di colore del suo gigantesco impero e, dal punto di vista della razza, si va così rapidamente “negrizzando”, che in verità si può parlare della nascita di uno stato africano sul suolo europeo. Se questa mescolanza continuasse per altri trecento anni, sparirebbero gli ultimi resti di sangue franco e si formerebbe un compatto stato africano-europeo, che va dal Reno al Congo, popolato da una razza inferiore, figlia di un costante imbastardimento[…] L’ariano rinunciò alla purezza del sangue: e così perse il proprio posto nel paradiso che si era creato […] L’individuo di razza mista diventa incerto e prende decisioni non completamente valide. Già la stessa Natura compie delle selezioni... le razze bastarde sono destinate alla sconfitta». Soltanto una persona in malafede, un indottrinato, un esaltato nazista –qual era, ad esempio, il boia delle Fosse Ardeatine, Erich Priebke, che fino all’ultimo ha avuto tutto l’interesse a negare i crimini commessi da lui stesso e dai suoi camerati- non ravviserebbe, dunque, in tali proposizioni, il seme ideologico di quanto poi verrà attuato nei campi di sterminio.
Ecco, allora, perché mi ferisce e mi offende, come Uomo prima ancora che come comunista, sentire e leggere intellettuali, Piergiorgio Odifreddi su tutti, o addirittura amici e persone, che si sono dichiarati più volte di “sinistra”, i quali, seppur giustamente confusi, nel caos caratterizzante il nostro presente -dall’informazione, alla politica, all’etica- possano pensare di negare, o anche solo di dubitare delle agghiaccianti atrocità naziste, adducendo la strumentale argomentazione secondo cui la Storia la scrivono i vincitori. Affermazione, questa, senz’altro veritiera, ma alla quale andrebbe applicato, con l’ausilio dell’intelligenza, un giusto criterio di discernimento. O peggio, che dichiarano, con un certo sprezzo del ridicolo aggiungerei, che, non essendo stati testimoni degli eventi, non possono sapere cosa sia accaduto in Europa, a partire dagli anni ’30 e fino al 1945. In pratica, adducendo la stessa vile giustificazione addotta dal popolo tedesco all’epoca: non sapevamo nulla!
Di testimonianze, ne abbiamo ascoltate tante , in questi 70 anni successivi alla II guerra mondiale. E, rimarcherei, non solo di parte ebraica. Questo lo dico perché un’altra delle argomentazioni portate, e che da sempre leggo e ascolto, a sostegno di teorie più o meno negazioniste, sarebbe quella della speculazione, da parte dello stato di Israele, sulla tragedia dell’Olocausto. Una speculazione indiscutibile che, come il professor Norman Finkelstein, ebreo, autore del volume “L’industria dell’Olocausto”, afferma, è divenuta un vero e proprio affare, scadendo addirittura, in taluni casi, nel ridicolo o nel cattivo gusto; nonché, una strumentalizzazione della tragedia della Shoah che, meschinamente, viene brandita –principalmente in chiave sionista e antipalestinese- soprattutto dalla destra israeliana oggi al potere, e fatta pesare, come un indelebile senso di colpa, sulla coscienza, certamente sporca, dell’ Occidente. Quell’ Occidente che, a partire dal Regno Unito e dagli USA, all’epoca si voltò dall’altra parte e fece finta di non accorgersi di quanto stesse accadendo nell’Europa, finita sotto al giogo nazista. Quello stesso Occidente, inoltre, su cui grava il peso della tragedia israelo-palestinese, la cui origine è da rintracciarsi ancor prima della fine della II guerra Mondiale e dell’occupazione della terra palestinese da parte ebraica, e al cui attuale prosieguo sovrintendono, com’è noto, biechi interessi finanziari e petroliferi. 
Quella speculazione e quella strumentalizzazione, però, non possono e non devono giustificare lo scetticismo o la deviante tesi negazionista sulle camere a gas. Questo perché negare valore di autenticità ai testimoni di quegli orrori, vuol dire negarlo a tutti coloro che sono stati e sono ancor oggi –a partire proprio dal popolo palestinese- martiri di crimini di guerra o, allargando questa sconsiderata prospettiva, di qualunque altra brutalità. E, ciò che pare non si voglia mettere in conto, potrebbe voler dire negarlo anche a sé stessi, ove mai, malauguratamente, si dovesse rimanere vittime di eventi simili. Razionalmente e filosoficamente, ricordiamolo, la verità è sempre confutabile: sono le persone e i contesti reali, in cui si verificano i fatti, a darci la prova di una sua eventuale affermazione o negazione.    
Purtroppo però, come dicevo precedentemente, sembra che tutto ciò abbia progressivamente perso valore, mentre si va affermando, di contro, una certa tendenza culturale, frutto di un evidente conformismo populistico e piccolo borghese, equivocamente libertario e contraddittoriamente democratico, che comincia lentamente a sdoganare –dopo aver insozzato la Resistenza ed i suoi caduti con l’irricevibile e offensiva mozione della memoria storica condivisa- anche la più pericolosa tesi negazionista. Una minaccia, a mio modesto avviso, contro cui non si può e non si deve rimanere inerti, e contro la quale è un dovere schierarsi ed essere partigiani, specie in questo delicatissimo passaggio storico. Il rischio di un collettivo smarrimento della memoria storica, e con esso di un isterilimento della nostra umanità, mi sembra troppo evidente e presente, per non suscitare un giustificato allarme, specie in chi ha fatto e fa dell’antifascismo un dovere civile, politico, morale. E allora, chiuderei queste brevi e, dato l’argomento, sicuramente insufficienti considerazioni, con un pensiero di Gramsci, che reputo adatto al contesto:
« Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i “solamente uomini”, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. [...] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».

sabato 19 ottobre 2013

IL MOVIMENTO NO TAV E LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DISSENSO

Le Forze dell'Ordine tutte, le Istituzioni, i Partiti politici e la stampa, ad essi asservita, si sono organizzati e, da giorni, stanno scaldando i motori per la criminalizzazione della manifestazione che, oggi, si terrà a Roma. Una manifestazione che non vede solo il coinvolgimento del movimento NO TAV, anzi. In piazza ci saranno, infatti, famiglie, Cobas, sindacati di base e movimenti, per protestare contro le politiche recessive del governo liberista Alfetta, contro gli sfratti e a favore del lavoro. Tutto ciò, però, ai gestori dell'ordine borghese e ai servi al soldo del grande del Capitale, non interessa. L'importante è criminalizzare il Movimento NO TAV e da ciò partire per una generale criminalizzazione del dissenso in questo paese, già di per sè narcotizzato e reso inerme.
E' stata messa in atto, infatti, nei giorni che hanno preceduto la manifestazione, un'operazione di terrorismo psicologico, come non si vedeva dai tempi di Genova 2001. Addirittura, sono state approvate, all'interno del decreto contro il femminicidio e a tempo di record, leggi anti NO TAV. Una atto vergognoso e vile, soprattutto perché prende a pretesto un provvedimento contro uno dei più odiosi delitti che si possano commettere -la violenza contro le donne, appunto- per reprimere ogni forma di protesta, che non sia bena accetta ad Istituzioni e Forze dell'Ordine. Sappiamo tutti come finì, in un clima molto simile a quello che si respira in questi giorni, in occasione di quel fatidico G8 di Genova. Una repressione in perfetto stile fascista ed un morto: Carlo Giuliani! Cosa succederà oggi?
Se ne facciano una ragione: a sfilare oggi ci saranno coloro che non si arrendono alla barbara legge del capitalismo finanziario e ad una politica accucciata ai suoi piedi! A manifestare a Roma, oggi, ci saranno coloro che ancora credono che un altro mondo è possibile!
CONTRO OGNI REPRESSIONE, CONTRO OGNI FORMA DI FASCISMO, ORA E SEMPRE RESISTENZA

lunedì 14 ottobre 2013

Il Presidente della Provincia di Salerno, Antonio Iannone, dichiara su FB: «Che Guevara è stato un macellaio peggio di Priebke».

Voglio dirlo chiaro: non mi meraviglia affatto che Iannone abbia espresso questa sua infame e infamante idea. Del resto, l'anticomunismo è stato sempre viscerale nel nostro paese: un paese incapace di rivoluzioni –come diceva il maestro Monicelli- e dominato da una cultura di fondo cattofascista! Se a questo ci aggiungiamo che, da 20 e più anni, dalla stessa "sinistra" arrivano prese di distanza da una storia gloriosa di lotta per la libertà, l'uguaglianza tra gli uomini e la giustizia sociale, che è stata ed è quella del Comunismo, allora, ancor di più, non mi sorprendono quelle dichiarazioni. Iannone non è altro che il simbolo dell'ignoranza e del fascismo che, intimamente, attraversano il nostro paese. Quanti, nel silenzio della loro vile coscienza, avranno pensato che Iannone non ha poi detto una cosa tanto riprovevole? Scommetto che saranno moltissimi! Moderati, benpensanti, borghesi, inutili idioti!
Un a sola cosa, vorrei ricordare a Iannone. Che Guevara, eminentissimo stronzo, lottava per restituire Dignità e Orgoglio ai popoli oppressi; Priebke, per affermare la superiorità di un'elite fanatica e mostruosamente crudele sul resto del mondo. Priebke era permeato dall'odio fine a sè stesso; il Che predicava il sacrosanto "odio di classe" nei confronti di chi, possedendo ricchezze e potere, credeva e crede di poter tiranneggiare lavoratori, uomini singoli, popoli. Un odio che mi auguro possa, prima o poi, colpire anche chi, come Iannone, offende e calpesta la memoria di coloro che -come i morti delle Fosse Ardeatine- sono stati vittime innocenti della brutale follia nazifascista, o di chi, contro quella follia, ha combattuto e versato il suo sangue, per amore di Libertà. Infine, un piccolo dettaglio: Ernesto era un Uomo; Priebke, un insulto per l’umanità!
E mi sembra giusto, a questo punto, concludere proprio con una delle frasi più eloquenti del Che:
«Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia».
ORA E SEMPRE ANTIFASCISMO!

domenica 13 ottobre 2013

AL TEATRO NUVO “NAPOLI 43” DI MOSCATO. LE QUATTRO GIORNATE IN UN CORO TRAGICO, TRA BENJAMIN E VIVIANI.




Scrive Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: «Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico, si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall'idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere». E ancora, più avanti: «Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. In Marx, essa appare come l'ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente, in cui egli per suo conto scrive storia. Lo storicismo postula un’immagine “eterna” del passato, il materialismo storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice “C’era una volta” nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia».
Ecco, le Tesi succitate definiscono perfettamente l’essenza ideologico/filosofica che permea “Napoli 43”, lo spettacolo -in scena al Teatro Nuovo, scritto diretto ed interpretato da Enzo Moscato- in cui si narrano le vicende e le emozioni che segnarono e percorsero l’anima del popolo napoletano durante quelle Quattro Giornate che, attraverso un’insurrezione che potremmo chiamare spontaneista, condussero alla cacciata dei nazisti dalla città.
Chiarisco. Per Benjamin, in pratica, ogni rappresentazione della Storia secondo concezioni lineari è fuorviante. E’ falso, inoltre, che i traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed esclusivamente collocare nel futuro. Alla redenzione, umana e di conseguenza sociale, si deve essere spinti, invece, dalla visione del passato. Un passato fatto, come egli stesso sottolinea, di “rovine su rovine” e così orrendo da esercitare, in chi sappia voltarsi a guardarlo, una spinta irresistibile verso un futuro diverso. Quel passato, come si diceva, è il «ricordo come esso si presenta al soggetto storico nel momento del pericolo». Ma chi è il soggetto storico in questione? Per Benjamin, marxista sui generis, si tratta, ovviamente, di quelle classi e popoli rivoluzionari che sappiano svolgere il loro compito teorico e pratico, assumendo su di sé una responsabilità epocale: quella di capire e di far capire che viviamo in uno “stato di emergenza” . In buona sostanza Benjamin -rifacendosi alle 11 Tesi su Feuerbach di Marx- non solo conduce una durissima critica nei confronti dello storicismo, che giustifica gli eventi storici assumendo il punto di vista dei vincitori nella storia, ma indica una possibilità di vittoria, per il materialismo storico, solo se questo, recuperando la tradizione messianica, consente di concepire il tempo non come un processo lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari, che frantumino la continuità storica: «La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie, nell'attimo della loro azione», scrive ancora il filosofo tedesco. Ebbene si comprenderà, a questo punto, come Moscato, rievocando le Quattro Giornate, persegua, agendo da materialista storico, proprio il fine di rievocare il passato dell’occupazione nazista e della successiva liberazione, allo scopo di renderlo vivo e attuale, non “museificato” in una sorta di Storia/Mito, inviolabile e dogmatica, dunque preda nelle mani delle classi dominanti. Le Quattro Giornate, sulla scena moscatiana, diventano evento che, dalle tenebre del Tempo fissato nella Storia, ci viene incontro, quasi assalendoci, nel momento di un presente percepito, appunto, come pericolo. Ed eccoci giunti, finalmente, al nucleo di questo spettacolo/evento! Quei quattro giorni, che fecero di Napoli la prima città liberata dal nazifascismo, non vengono semplicemente celebrati –come del resto avviene, oramai, ogni anno- a mo’ di rituale svuotato di senso. Diventano, invece, Storia viva, Presente, cui voltarsi –come l’Angelus Novus di Klee- e da cui trarre ispirazione, orgoglio di classe e di popolo, forza morale in un momento storico, sociale, economico, culturale, che vede sempre più allargarsi il divario tra classi e popoli dominanti e dominati. La nostra attualità, insomma, si configura come quello “stato di eccezione” -di cui ci parla Benjamin- attraversato da un fascismo che, pur non mostrando il volto sanguinario di quello che marciò, sull’Europa e sul mondo, col passo dell’oca, risulta però più sottile e subdolo, quindi altrettanto pericoloso e inumano. Un fascismo nato dal ventre stesso di una democrazia malata e ridotta ormai a mero simulacro perché inginocchiata ad un potere economico-finanziario, il cui credo ultraliberista sta devastando nazioni, popoli, persone. «Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» scrive, come abbiamo visto, Walter Benjamin. Il fascismo –sia esso in camicia nera, doppiopetto o cachemire- va, di conseguenza, sempre combattuto, facendo appello a quelle passioni, a quell’orgoglio di popolo e di “classe”, che possano, in un dato momento, spezzare, attraverso un atto rivoluzionario, il continuum della Storia.
Per la Napoli della rivoluzione fallita del 1799, culturalmente borbonica e votata alla provvidenziale apparizione del Masaniello di turno, quelle Quattro Giornate dell’autunno del ’43 rappresentarono proprio un atto rivoluzionario, carico di valenza messianica e perciò deflagrante sull’asse cartesiano raffigurante la sua storia. Storia di una città consacrata alla sconfitta, al dominio, alla rassegnazione.
Moscato ed i venti attori che popolano la scena di “Napoli 43”, quelle Quattro Giornate, dunque, le ri/evocano, senza retorica, sganciandole dall’enfasi che, in genere, connota la liturgia della commemorazione fine a sé stessa.
“Napoli 43” è un racconto di passioni, che erompono dalle viscere di una terra e di un popolo che ha deciso di combattere la tirannia. Un racconto commosso e lucido, tragico ed ironico; giocoso come una festa di Piedigrotta e dolente come un corteo funebre; tetro e soffocante come un lager, ma invaso da improvvisi scrosci di luce popolare e dialettale.
Dalle grotte oscure del tempo, a parlarci e a raccontare, ecco materializzarsi, evanescenti come ombre platoniche, figure di testimoni e protagonisti di quegli eventi. Ci raccontano fatti, episodi, atti di eroismo e di vigliaccheria; ci parlano di spie e di scugnizzi morti, di collaborazionisti e di puttane. Si susseguono, in un vortice di emozioni, la ferocia nazista e l’innocenza fanciullesca, le deportazioni e la vendetta; come strette nell’indissolubilità della comune origine, si sovrappongono la paura e la tensione morale e civica dei napoletani, stanchi di subire i teutonici soprusi. Il tutto si mescola, su un tappeto cromatico simile ad una tela di Pollock, grazie alla lingua drammaturgica e alla scrittura scenica adottata dalla sapiente regia. I suoni della babelicante phonè moscatiana -intessuta di filastrocche, canzoni, motti, italiano, napoletano, tedesco, greco, cui si aggiungono pezzi di dialoghi tratti dal bellissimo film di Nanni Loy, “Le Quattro Giornate di Napoli” appunto - sono la perfetta metafora di quella rivolta cittadina, dove si rincorrono voci, grida, proclami, rumori, musiche, spari. Un coro tragico tra i vicoli di una città vivianea, che Moscato guida, direttamente sulla scena, come un puntuale direttore d’orchestra.
Lo spettacolo/evento vive di momenti, di attimi di magia, di suggestioni e turbamenti, che emergono grazie alla straordinaria potenza espressiva degli attori, ma anche alla perfetta e stilizzata architettura scenica, costruita ad arte da Mimmo Paladino. Qualche lungaggine nel telaio drammaturgico è, tuttavia, sorvolabile.
Bravi nel complesso i protagonisti, certo. Ma mi sia consentito citare, su tutti, la prova vigorosa di Gino Curcione, di un rigoroso Salvatore Cantalupo, quella intensa e malinconica, seppur spruzzata da accenti di ironia, del bravissimo Benedetto Casillo; e ancora, quella pregevole di una Cristina Donadio capace di regalare, con grande e personale sapienza attoriale, inquietudini e smarrimenti, cesellando un’interpretazione in bilico tra la stereotipia di una bambola/automa, sintesi della disumanità nazifascista, e la biblica crudeltà di Salomè. L’emozione più grande, però, la si vive vedendo in scena una delle colonne portanti del teatro napoletano: Antonio Casagrande. E, difatti, Moscato affida a lui, testimone umano, per questioni anagrafiche, di quegli eventi, ma soprattutto patrimonio di memoria teatrale, un finale dai toni sarcastici e solo apparentemente rassegnati:
« Adesso, ci vorrebbero i Tedeschi. Un’altra volta! […] Ma, oggi, in un paese e in un popolo totalmente istupiditi, indifferenti, egoisti, rassegnati, dovremmo fare il voto a qualche santo che risorgano e ritornino, i Tedeschi, a molestarci, offenderci, ferirci mortalmente, come prima e più di prima! Così, almeno, reagiremmo da cristiani, come facemmo allora».
In conclusione, “Napoli 43” è uno spettacolo che vuole e deve insegnarci qualcosa; che vuole e deve interrogarci sul nostro presente. Moscato, come di consuetudine, parla della sua Napoli e alla sua Napoli, ma –come spesso avviene nel teatro moscatiano- quel microcosmo cittadino può dilatarsi e assurgere a simbolo di ferite universali e umanissime. Del resto, come abbiamo sottolineato sin dall’inizio, la tirannide e il fascismo sono sempre in agguato, nascosti nel buio e pronti a colpire. Oggi poi, più che mai!

sabato 14 settembre 2013

PER LA FIFA IL GOLPE IN CILE NON E’ MAI AVVENUTO: OGGI, COME GIA’ NEL ’73, L’ORGANO SUPREMO DI CONTROLLO DEL CALCIO FA GIOCARE LA PARTITA DI QUALIFICAZIONE AI MONDIALI. MA E’ TUTTO LO SPORT, ORAMAI, AD ESSERE SCHIAVO DEL BUISINESS




A riprova di come il mondo del calcio, e dello sport in genere, siano essenzialmente inseriti nel sistema capitalistico e le istituzioni che li governano rispondano ad interessi squisitamente finanziari e, in quest'ottica, non abbiano un briciolo di umanità. E, mi sia consentito, di come l’URSS, pur con tutte le sue storture, fosse un baluardo contro la globalizzazione, oramai trionfante!
Ieri sera, mentre guardavo il film di Andrès Woo, "Machuca" -tenero racconto sui giorni che precedettero immediatamente il golpe cileno, visto con gli occhi di due bambini, uno ricco e borghese, l'altro povero e indio- sul finale, che si svolge ovviamente quando il criminale Pinochet è già a capo della Junta, viene inquadrato un giornale, sulla cui prima pagina campeggia questo titolo: "La FIFA dichiara che la vita in Cile si svolge normalmente". Finito il film, incuriosito e sgomento -il secondo sentimento era senz'altro più intenso del primo- mi siedo al Pc per scoprire a cosa volesse far riferimento il regista, con quell'inquadratura del quotidiano. Ebbene, scopro che la FIFA -cosa che mi era ignota- nel 1973, anno del golpe, mantenne in calendario lo scontro tra il Cile e l’Unione Sovietica, da disputarsi all’Estadio Nacional di Santiago del Cile, nonostante quello stadio fosse stato trasformato, dai militari, a partire dall'11 settembre, in un campo di concentramento e tortura.
In pratica, quell'anno, la nazionale cilena si giocò –nientemeno che contro l’Unione Sovietica– il ripescaggio ai Mondiali del ‘74, organizzati dalla Germania Ovest. Il 26 settembre ‘73, la partita di andata, giocata nello stadio “Lenin” di Mosca, era finita 0 a 0, rendendo così decisivo il ritorno, previsto per il 21 novembre all’Estadio Nacional di Santiago del Cile, casa dell’Universidad de Chile e adibito, in quei giorni, come è noto, a campo di concentramento e tortura per diverse migliaia di cileni. Una commissione della FIFA fece, allora, un sopralluogo allo stadio, decretandone l’ottimo stato del prato e approvando quindi il regolare svolgimento della partita. L’Unione Sovietica, che dopo il golpe aveva rotto le relazioni diplomatiche con il Cile, disertò l’evento che, paradossalmente, ebbe luogo ugualmente, con una sola squadra in campo, circa 18.000 persone sugli spalti e alcune migliaia di sequestrati spostati, momentaneamente, dallo stadio in diverse sistemazioni alternative e temporanee. 
In quel calendario perpetuo che è il suo ultimo libro "Los hijos de los días" (I figli dei giorni), Eduardo Galeano ricorda così «la partita più triste della storia»: «I prigionieri furono spostati e le massime autorità del futból mondiale ispezionarono il campo, prato impeccabile, e diedero la loro benedizione. La nazionale sovietica si negò a giocare. Assistettero diciottomila entusiasti, che pagarono il biglietto e festeggiarono il gol che Francisco Valdés segnò nella porta vuota. La selezione cilena giocò contro nessuno».
Insomma, la FIFA e le diplomazie mondiali preferirono quella macabra farsa, anziché denunciare quanto stesse accadendo in Cile, con centinaia di persone già morte nei giorni successivi all'instaurazione della dittatura fascista. Farsa che si ripeterà, del resto, anche in occasione dei mondiali nell' Argentina del 1978, anch'essa divenuta, dal '76, terra martoriata sotto il giogo della Junta militare di Videla. E d'altronde, di che meravigliarsi? Quelle feroci dittature erano state volute e finanziate, in primo luogo, da USA e Gran Bretagna -Reagan e Thatcher ne erano la criminosa incarnazione- baluardi della "democrazia occidentale"!
Ma la FIFA è recidiva. Nei giorni scorsi, infatti, la Federación de Fútbol de Chile aveva chiesto ufficialmente di rinviare la partita, prevista per martedì 11 settembre e valida per le qualificazioni ai Mondiali di Calcio del 2014 in Brasile, in quanto ennesimo anniversario del golpe militare che, nel 1973, mise fine al governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende. La FIFA, in risposta, appellandosi all’equità sportiva, ha fatto sapere che la partita non sarebbe stata rinviata, per non alterare il calendario delle eliminatorie dei Mondiali del 2014, stabilito precedentemente. Tutto ciò, è inutile sottolinearlo, in spregio di quei valori che dovrebbero rappresentare le fondamenta stesse dello sport: valori che, da tempo, sono invece divenuti mere figure retoriche della squallida propaganda di Potere.
Quel Potere –finanziario, politico, mediatico- che vorrebbe farci guardare allo sport come volano di pace, fratellanza e unione tra i popoli e gli uomini e che, al contrario, è essenzialmente garante, anche attraverso lo sport stesso, di quell’economia di mercato grazie alla quale, oggi, le società di calcio –e non solo- sono quotate in borsa e gli sponsor dettano le loro regole disumanizzanti. Regole che hanno mutato, nel corso del tempo e profondamente, il codice genetico del calcio e dello Sport in generale, trasformandoli, sempre più, in uno sporco affare miliardario e in un nuovo strumento di controllo, manipolazione e distrazione della coscienza di massa e di Classe!!!

mercoledì 10 luglio 2013

GRILLO, UNICA SPERANZA DI CAMBIAMENTO DEL QUADRO POLITICO ITALIANO? LETTERA APERTA ALLE COMPAGNE E AI COMPAGNI CHE HANNO VOTATO M5S




Care Compagne, Cari compagni,  
pur comprendendo la vostra rabbia per il disfacimento del quadro politico-sociale, venuto a delinearsi, negli ultimi vent’anni, nel nostro paese, nonché condividendo la disillusione che ci attanaglia per la frammentazione di un movimento comunista, incapace altresì di reagire, come si dovrebbe, alla drammatica situazione di crisi che tutti ci sta colpendo –e i motivi di tale inadeguatezza sono molteplici e non sempre nobili- ciononostante, non capisco fino in fondo –sicuramente per miei limiti- la scelta di guardare al Movimento 5 Stelle come ad una concreta speranza di cambiamento dell’attuale assetto politico italiano. Vi chiedo, infatti: come giudicate gli endorsement di Mediobanca e di Goldman Sachs –che poi va detto, ad onor del vero, se lo è rimangiato- per il movimento? E della vicinanza di Casaleggio al gruppo Bilderberg, che ne dite? E della sua inquietante visione del mondo: "GAIA"? E vogliamo parlare delle “democratiche” richieste di espulsione per chi non condivide il pensiero di un capo che, lo ricordo benissimo, in passato affermava che non si sarebbe mai ingerito nelle dinamiche del movimento, perché le decisioni spettano ai cittadini? E di alcune dichiarazioni, velatamente razziste, di Grillo -questione ius sanguinis e ius soli, per esempio- che ne facciamo? Le liquidiamo come un semplice inciampo linguistico? E della richiesta di poltrone cruciali, nelle commissioni parlamentari, in antitesi con quella “strategia politica” che si dichiarerebbe estranea ad ogni compromissione con le vecchie logiche di potere, che vogliamo dire? Per non discutere, poi, in chiave più teorica e generale, dell'interclassismo del movimento –si considerino, solo per portare un esempio, le gravi dichiarazioni della Lombardi sul fascismo buono o contro l’articolo 18, sic!- interclassismo che, personalmente, come marxista, rifiuto!
Dunque, quale sarebbe il merito dei 5S finora? Restituire le diarie? Criticare e sputare sul parlamento? Posso capirlo, ma allora la scelta sarebbe dovuta essere radicale: non presentarsi alle elezioni e dare, da extraparlamentari, battaglia seria in piazza. Altrimenti, si rischia il ridicolo e la contraddittorietà, come alcuni militanti del movimento stanno facendo notare da un po’. Ma poi, detto con franchezza, veramente pensiamo che la questione decisiva, in questo delicatissimo momento storico, politico, economico e sociale, per il mondo e per il nostro paese, siano gli stipendi dei parlamentari? E su via, questa è ingenuità bella e buona! Intendiamoci: le strutture e le organizzazioni interne dei partiti vanno senza dubbio riformate e "moralizzate" -parafrasando Berlinguer- e, su questo punto, non ho difficoltà ad ammettere che alcune proposte del 5 Stelle siano da condividere senza esitazione. La questione vera però, più ampia ed articolata, resta per me un’altra: il sovvertimento radicale, culturale, del modello criminogeno capitalista e neoliberista; di quel finanzcapitalismo insomma, per citare Gallino, che sta producendo un massacro sociale di dimensioni globali, cancellando non solo i diritti della classe lavoratrice ma colpendo a morte il concetto stesso di lavoro. Un modello completamente legato alle tendenze del marcato e, di conseguenza, necessariamente sordo alle esigenze dei popoli e delle classi subalterne. Se non fossi tanto ateo e anticlericale come sono, citerei il Papa e la sua “globalizzazione dell’indifferenza”.
Nei confronti di tale sistema, invece, il M5S non si pone in alternativa, anzi. Propone, è vero, alcuni cambiamenti radicali che andrebbero a colpire gli aspetti più degenerativi del capitalismo finanziario, ma lo fa con il chiaro obiettivo di mantenere quell’impianto. Del resto, come dovrebbe intendersi la proposta, tra le più urgenti avanzate dal Movimento, di abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, se non nell’ottica di quelli che sono i cardini del pensiero liberal-liberista? E ricordo, a tal proposito, che quando fu introdotto Il finanziamento pubblico (Legge Piccoli n. 195 del 2 maggio 1974) la norma venne approvata con il consenso di tutte le forze politiche allora presenti in parlamento, ad eccezione, guarda caso, del Partito Liberale. Pertanto, una volta eliminati i finanziamenti pubblici, mi chiedo: chi rimarrà sulla scena politica? La risposta mi sembra scontata: miliardari che possano autofinanziarsi le campagne elettorali e quei partiti, funzionali al sistema, cui andranno le cospicue sovvenzioni di lobby potentissime, le quali poi influenzeranno, necessariamente, l’attività legislativa e di governo. In pratica, ciò che succede da tempo negli Stati Uniti, patria del capitalismo più spinto e, per come la vedo io, non proprio un esempio cristallino di democrazia, malgrado i media e la propaganda ce li presentino come la patria delle libertà e dei diritti democratici. Il problema, diciamolo chiaro, non sono i finanziamenti in sé –anche se i media, piegati agli interessi delle lobby finanziarie che li controllano e che avrebbero tutto da guadagnare dall’approvazione di una simile legge, soffiano sul fuoco della rabbia popolare, proprio al fine di farli cancellare- ma la trasparenza con cui li si gestisce, la disonestà dei gestori, il malcostume italico filo mafioso e la cultura dell’arricchimento personale ad ogni costo, legata essenzialmente a quella del Capitalismo. Ad ogni modo, a rinforzare i miei dubbi sul Movimento, va aggiunta poi la sensazione, devo dire alquanto sgradevole, che ho ricevuto leggendo lo scarno e approssimativo programma economico redatto per le elezioni. Mi è parso di intuire infatti, tra le righe, l’adozione di una sorta di socializzazione dell’economia –si badi bene, da non confondere con la collettivizzazione di matrice comunista- di stampo corporativista. La mia non vuol essere, mi pare chiaro, un’ allusiva accusa di fascismo, però sarei portato a credere che l’intento sia quello di trovare una sorta di placida conciliazione tra le classi. E si sa, quando ciò avviene –è la storia ad insegnarcelo- avviene sempre a vantaggio delle elite o delle borghesie capitaliste e a detrimento degli stati sociali più deboli e della classe lavoratrice. D’altronde -ed è la cosa che da marxista considero più grave- non una parola viene scritta, nel già citato programma economico, sui temi del lavoro o sull’articolo 18. E questo è un altro elemento che mi fa riflettere non poco!
Ciò detto, la questione dirimente resta invece, a mio modesto avviso, proprio il conflitto Capitale-Lavoro, da portare sul terreno di una Lotta di Classe estesa, generale, dura. Una Lotta di Classe capace di coinvolgere tutta la sfera del lavoro precarizzato: come si noterà, non parlo soltanto delle avanguardie operaiste. Una Lotta di Classe, per intenderci, dal basso, visto che oramai a praticarla, con una pervicace spietatezza, che ci riporta addirittura a tempi e condizioni risalenti alla prima rivoluzione industriale, sono rimasti solo i padroni. Or bene, il conflitto Capitale-Lavoro e la Lotta d Classe restano, per me, principi imprescindibili. E Grillo che non è, diciamolo francamente, né Lenin, né Che Guevara, né Togliatti, non mi pare possa assurgere a punto di riferimento, in tal senso. Con ciò, tuttavia, non voglio e non posso negare, come ho già detto e ho più volte scritto, alcuni meriti indiscutibili del Movimento, che ha posto, al centro del dibattito politico nazionale, questioni certamente importanti . Il problema, però, lo voglio ribadire con forza, è soprattutto di natura culturale. Perciò, qual è la cultura politica di riferimento dei 5Stelle? Quale il modello sociale da costruire? E la loro weltanschauung, per dirla con i colti, qual è? Se è quella di Casaleggio e del suo nuovo ordine mondiale, stiamo freschi! Essa, infatti, assomiglia senz’altro più ad un disegno dalle vaghe e inquietanti sembianze fascistoidi/orwelliane, che a quel modello declinato nel nome della libertà, dell’ eguaglianza e della giustizia sociale cui, da Comunista, mi ispiro. Insomma, per essere chiari, ciò che mi rende, più di ogni altra cosa, estraneo e diffidente nei confronti del M5S è la peculiarità delle premesse culturali, cui fa da impalcatura la fascinazione mitopoietica esercitata, con l’abilità tipica del demiurgo di platonica memoria –e come del resto già faceva Berlusconi- da Grillo, alle cui spalle aleggia la figura del Grande Architetto Casaleggio.
Premesse culturali che, come si intuirà da quanto ho appena detto, coinvolgono necessariamente l'immaginario collettivo e/o le dinamiche inconsce del desiderio. E non si tratta di mere speculazioni di carattere filosofico o intellettuale. Come in pratica dice Deleuze ne “L'AntiEdipo-Capitalismo e schizofrenia”: «Non esiste desiderio se non all'interno del costruire o dell'operare. Non si può afferrare o concepire un desiderio al di fuori di una determinata costruzione, su di un piano che non sia preesistente, ma che deve esso stesso essere costruito. Che ciascuno, gruppo o individuo, costruisca il piano immanente dove condurre la sua vita ed i suoi progetti è la sola cosa che conta. Al di fuori di queste condizioni, viene infatti a mancare qualcosa, ma si tratta precisamente delle condizioni che rendono il desiderio possibile[…]Tutto è politico». Insomma, in poche parole: cosa vogliamo? Dove vogliamo vivere? Quali vogliamo che siano i nostri desideri? E dunque, che società vogliamo costruire? Quella prefigurata dal guru Casaleggio mi sembra non solo angosciante, ma in netta continuità con lo schizofrenico modello attuale, cui pretenderebbe di opporsi. Anzi, ne rappresenterebbe, secondo me, il compiuto perfezionamento in termini spettacolari : «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini. Esso è la società stessa, per come si presenta: lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine»(Guy Debord-La società dello spettacolo) e/o in termini virtuali: «I governanti devono rendere conto a due tipi di elettori: ai cittadini che votano e al "senato virtuale", composto dalle multinazionali[…]Un tempo c' erano i dittatori, adesso ci sono i tiranni privati. Fanno gli stessi danni ma non hanno responsabilità pubbliche. Purtroppo, questi parassiti privati stanno avendo il sopravvento su un sistema di informazione come Internet, creato pubblicamente. Il loro scopo è di trasformarlo in qualcosa come la tv: servizi commerciali a domicilio, propaganda, indottrinamento» (Noam Chomsky).
Ascoltando con attenzione l’ultima parte del video GAIA beh, mi pare si vada proprio in questa direzione.
P.s. Ho volutamente deciso di sorvolare sulle voci che parlano di un abboccamento di Grillo con membri della CIA

venerdì 5 luglio 2013

L’EGITTO E LA FARSA DEMOCRATICA…TRA PASSATO E PRESENTE




Nell’articolo/intervista dal titolo “E’ stato un anno di farsa democratica”, pubblicato nei giorni scorsi da “Il Manifesto” –e che invito a leggere con attenzione- l'economista e filosofo egiziano Samir Amin spiega, con chiarezza di analisi, quali siano le vere ragioni economico-finanziarie che stanno determinando il destino politico dell'Egitto, come di gran parte dei paesi del Medio Oriente, compresa la Siria. Ragioni che ben poco hanno a che fare con le motivazioni religiose, utilizzate da Morsi al solo scopo di ottenere una sorta di dittatura della maggioranza e mano libera nell'adozione di decisioni economiche cruciali –l’obiettivo sarebbe costruire una teocrazia sul modello iraniano, creando un consiglio costituzionale di ulema in grado di controllare esecutivo, parlamento e sistema giudiziario- nonché addotte dai media internazionali, debitamente manipolati, per spiegare la crisi. Dietro a tutto invece, come sempre, l’inquietante ombra dei mercati e del business, e dunque la longa manus statunitense, del Fondo Monetario Internazionale e dei paesi UE -per non parlare di Israele, ovviamente, supervisore del Capitale nella regione- i cui principali garanti sono quei militari che, ipocritamente, ora si schierano con il popolo contro Morsi, ma che appena un anno fa sostenevano proprio l'attuale presidente, contro Mubarak e soprattutto contro il candidato nasserista Sabbahi, sconfitto principalmente con la frode. Una casta, quella militare, foraggiata da USA e lobby finanziarie che, attraverso essa, mirano alla tutela dei loro sporchi interessi, legati principalmente al petrolio e al traffico di armi.
Staremo a vedere, dunque, quali saranno gli ulteriori sviluppi della crisi ma, a ben guardare, possiamo dire che sta consumandosi, in questi giorni, in Egitto, l'ennesima farsa. Una farsa messa su nel nome di una democrazia da operetta, subordinata all’imperante ideologia del mercato e alle regole inumane del capitalismo finanziario, e il cui nome/simbolo, sbandierato sulle televisioni e i giornali di mezzo mondo, è divenuto, ormai, un abito adattabile a qualunque circostanza. Parola/Puttana, gestita dai magnacci dei media e svenduta al soldo del miglior offerente!
CONTIGUITA’ TRA PASSATO E PRESENTE.
Per delineare un quadro più chiaro di continuità storica, è bene ricordare che il filocomunista Nasser nazionalizzò, nel 1956, il canale di Suez per recuperare appieno l'indipendenza economica dell'Egitto dall'occidente capitalista, andando così a colpire però, pesantemente, gli interessi anglo-francesi. Le due potenze europee -fino ad allora proprietarie della Compagnia del Canale- risposero immediatamente a quella che ritenevano un’indebita ingerenza nei loro affari –è tipico dell’Occidente capitalistico considerare di sua proprietà ogni fazzoletto di terra che dia risorse economiche- organizzando un'operazione militare congiunta contro l'Egitto, alla quale si unì, ovviamente, Israele cui Nasser aveva deciso di impedire il transito attraverso il canale stesso. La crisi si concluse quando l'URSS minacciò di intervenire al fianco dell'Egitto e gli Stati Uniti, temendo l'allargamento del conflitto, costrinsero inglesi, francesi ed israeliani al ritiro. Nonostante ciò, nulla fu fatto per impedire a Israele di realizzare il suo progetto malgrado il suo esercito, guidato dal generale Moshe Dayan, avesse proseguito nella sua rapida avanzata dopo l'ordine dell'ONU di cessate il fuoco fra le parti. Dopo la Crisi di Suez, Nasser prese sempre più le distanze da Washington, rifiutando di entrare a far parte di uno schieramento anti-sovietico incentrato sul Patto di Baghdad composto da Iraq, Turchia, Iran, USA e Gran Bretagna, cui gli USA replicarono creando gravi difficoltà per il necessario finanziamento, da parte del Fondo Monetario Internazionale, al progetto, esposto fin dal 1952, di costruire una diga (Alta Diga di Aswān) sul fiume Nilo, che avrebbe garantito l'autosufficienza energetica al paese. Nasser si rivolse allora all'Unione Sovietica, con cui mantenne, da quel momento, rapporti economici. Inoltre, sempre per chiarezza di visione storica, va detto che, in politica interna, Nasser si oppose duramente ai Fratelli Musulmani, di cui è oggi esponente Morsi.  
P.S. In merito alla coincidenza, da me precedentemente adottata, tra le parole Democrazia e Puttana, chiarisco: chiedo scusa alle puttane, quelle vere, serie, da marciapiede, cui va tutta la mia stima e tutto il mio sostegno morale. Mi sembrava una precisazione dovuta!

mercoledì 8 maggio 2013

IL VOLTO FASCISTA DELLE FORZE DELL’ORDINE NELLA SOCIETA’ DEL CONSENSO ASSOLUTO




Ieri, 7 Maggio, ancora una volta la polizia italiana, a Napoli, ha mostrato il suo vero volto. Quello del fascismo più feroce e vigliacco. Gli sgherri di quel regime finanziario che sta, oramai, cancellando la democrazia e i diritti dei cittadini e dei lavoratori, in gran parte d'Europa e del mondo, nel nome del neoliberismo più spinto, del mercatismo, degli affari e del denaro, hanno, per ben due volte, nella nostra città -governata da un sindaco di sinistra (?)- aggredito studenti indifesi, con spietata premeditazione e, credo oramai di poterlo affermare con certezza, sulla base di una discriminante ideologica: il fascismo che, come ben sappiamo, attraversa, storicamente, le forze dell'ordine di questo nostro "democratico" paese.
La prima volta, in mattinata, sotto la Prefettura. Un gruppo di studenti, riunitosi per contestare l’arrivo della Ministra all’Istruzione, Maria Chiara Carrozza –all’indomani delle violente cariche poliziesche effettuate a Milano, fin dentro il perimetro universitario- viene prima aggredito da noti esponenti del neofascismo napoletano, che capeggiavano una manifestazione di lavoratori del Consorzio di Bacino, e poi caricato dagli sbirri. Ritorna, dunque, l'allegra saldatura -sempre in senso anticomunista, ovviamente- tra forze dell'ordine e fascisti, come già si era vista, nel nostro paese, durante tutti gli anni '70. Anni durante i quali, come ho più volte ripetuto, i vertici di Carabinieri, Polizia e Servizi non disdegnavano di collaborare con fascisti e mafiosi, nel quadro di quella strategia della tensione, che tanti morti e feriti "civili" ha lasciato sul campo.
La seconda volta, la Polizia ha caricato, ancor più selvaggiamente e con ancor più vile premeditazione, gli studenti sotto al Conservatorio, minacciando, tra l’altro, passanti e abitanti del quartiere, che protestavano vivacemente contro quel barbaro e gratuito pestaggio. 
Ora, qualcuno ci dice che il fantasma della Grecia e di quell'Ungheria, ormai caduta sotto il regime fascista di Orban, sono lontani. Ma, a parte il fatto che, tanto economicamente quanto politicamente, le similitudini sono inquietanti : disoccupazione in aumento, debito pubblico alle stelle da ripianare in vent’anni grazie al patto di stabilità (Fiscal Compact), elezioni con risultati praticamente truccati; ma qui, come è già successo in Grecia e in Ungheria, le forze dell’ordine sembrano oramai, come dicevo prima, spalleggiare forze di estrema destra e, invece di tutelare i cittadini, ne minacciano l’incolumità trasformandosi, di fatto, nel braccio armato di un potere politico accucciato ai piedi della finanza mondiale e di quelle lobby che non permettono a chicchessia di contrastarne il potere. Il dissenso è, praticamente, stato messo a tacere. Non una voce si può levare contro l’imperante dittatura del mercato e del denaro. E chi lo fa, viene manganellato spietatamente dai servi in divisa. 
Queste, m i si perdoni il pessimismo, sono le premesse -storicamente ve n’è riprova- per un colpo di stato fascista, qualora la crisi non trovasse risoluzione. E’ accaduto negli anni ’20 in Italia, all’indomani dei disordini del “biennio rosso”; è accaduto nella Germania di Weimar, funestata dall’onda lunga della crisi del ’29; stava accadendo in Italia, durante gli anni ’60 e ’70: tentato golpe Di Lorenzo, tentato golpe Borghese, tentato golpe della Rosa dei Venti. Per di più, oggi, non abbiamo un Partito Comunista -o una forza Comunista- che possa fare da argine ad una tale e funesta eventualità. Per favore, non dimentichiamo!!!
PER UN ANTIFASCISMO MILITANTE, ORA E SEMPRE RESISTENZA .

martedì 30 aprile 2013

LA GIUSTA CONTESTAZIONE DEI COMPAGNI CONTRO LA BLOGGER CUBANA YOANI SANCHEZ E LE MESCHINE IPOCRISIE DEL PD.




Da qualche parte, su fb, alcuni “sinceri democratici” del Pd hanno appellato la protesta -avvenuta durante il festival del giornalismo di Perugia- di un piccolo gruppo di compagni contro Yoani Sanchez, la blogger cubana, anticastrista e anticomunista, notoriamente al soldo della CIA, come fascista. Evidentemente, questi signori ignorano –o fingono di ignorare- la Baia dei Porci, i molteplici tentativi messi in atto dai nordamericani di uccidere Castro, e l'assurdo e scellerato embargo cinquantennale messo in atto dagli USA contro Cuba. E questo per fermarci all'isola caraibica! Vogliamo parlare, poi, delle dittature, quelle sì fasciste, instaurate in Americalatina da USA e impero britannico, con l'avallo silenzioso dei paesi satelliti della Nato, tra cui l'Italia? Vogliamo parlare delle violenze, degli omicidi, delle stragi, degli stupri commessi dai Contras in Nicaragua? O di quelli commessi dai militari fascisti, durante la dittatura di Pinochet, in Cile, sostenuta dalla politica economica liberista degli USA, che trovava la sua origine nella Scuola di Chicago? O di quelli messi in atto, durante la dittatura Argentina? O, ancora, negli anni di quella di Stroessner, in Paraguay? Tutto ciò, ritengo, basti a giustificare la rabbia contro chi, protetta dall'imperialismo americano e dalla compiacenza della stampa di mezzo mondo, al soldo delle lobby finanziarie, pensa di poter dire tutto il male possibile contro un paese, piccolo come Cuba e il suo Leader Maximo.
Ciò detto, mi chiedo e chiedo agli amici del PD: ma proprio loro danno del fascista ai contestatori? Ma un po' di dignità e di amor proprio, oltre che di pudore, non lo hanno questi signori?  
Loro, che con i fascisti sono al governo. Loro, che dei metodi squadristi della polizia e dei carabinieri, che manganellano e sparano sugli operai, sono sostenitori, esplicitamente o implicitamente, viste le "strategiche" scelte politiche messe in atto. Loro, che oramai hanno svenduto l'Italia alla politica rigorista della Germania e della Troika, e alla politica guerrafondaia degli USA. Loro, che hanno minacciato di espellere dal partito, chi non avesse votato la fiducia al governo Letta, dimostrando "l'alto senso democratico" che li contraddistingue. Loro, che hanno tradito, per denaro e potere, tutti gli ideali su cui hanno costruito la loro infame storia degli ultimi vent'anni, giocando sulla pelle di quella classe lavoratrice, di cui sarebbero dovuti essere, per tradizione e naturale collocazione politica, i difensori. Loro, insomma, ergendosi su un pulpito che non gli compete, danno del fascista a chi, con orgoglio e coraggio, difende gli ideali Comunisti di giustizia, uguaglianza, pace, contro lo strapotere del pensiero neoliberista e neocolonialista, che domina, ormai, l'intero globo! E siffatti personaggi non li ho mai sentiti inveire, con la stessa acrimonia, contro quello che sta avvenendo in Grecia o in Ungheria. E lì sì, siamo realmente in presenza di fascismo e nazismo!
Le uniche eccezioni, in questo desolante scenario, che assomiglia sempre più ad una mondiale dittatura orwelliana, sono, appunto, quei paesi dell'Americalatina che, con coraggio, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, stanno tentando di costruire un'alternativa socialista a quel capitalismo finanziario e criminale che sta avvelenando e massacrando le economie dell’intero pianeta e, con esse, la maggioranza dei popoli. Forse, ai signori del Pd è sfuggito che, nel mondo, è in atto una guerra o, per meglio intenderci, una Lotta di Classe sanguinaria, perpetrata dalle classi e dai paesi dominanti, contro le classi e i paesi più poveri. Bene hanno fatto, dunque, i compagni a contestare, anche vivacemente, la Sanchez, propaggine del potere USA nella colonizzata e martoriata Italia. Mentre, ai democratici del dissolvendo PD consiglierei di riflettere a lungo, prima di parlare, e soprattutto di evitare quei falsi moralismi piccolo-borghesi che li connotano, tanto sul versante politico che su quello esistenziale. Piaccia o no a loro, sono complici di quel fascismo finanziario, che sta conducendo l’Italia sulla soglia del baratro e le famiglie, i giovani, le lavoratrici e i lavoratori di questo paese alla disperazione.
W CUBA SOCIALISTA. W FIDEL. W IL COMUNISMO.





giovedì 25 aprile 2013

IL 25 APRILE E IL GOVERNO NAPOLITANO-LETTA




Ernesto Che Guevara diceva: « Credo nella lotta armata, come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi». In alcuni frangenti storici e in alcune situazioni politico-sociali, sono convinto che per un popolo oppresso non ci sia altra soluzione.
In questo giorno che, il 25 Aprile 1945, vedeva l'Italia liberarsi, attraverso la lotta armata, dal giogo nazifascista, non c'è molta voglia di festeggiare. Oggi, questo giorno, segna l'inizio, con il governo Letta -membro di Bilderberg, Vice presidente dell'Aspen Institute, che è una succursale del Bilderberg, e membro della Trilaterale, come il suo predecessore Monti- imposto da Napolitano, del definitivo commissariamento della Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, da parte di quegli stessi poteri finanziari che, negli anni 20/40, prima sostennero economicamente i fascismi europei e poi condussero il mondo alla II Guerra Mondiale. Il tutto, per meri fini affaristici e di potere!
Inoltre, mi giunge notizia che Alessandra Mussolini farebbe parte del governo insieme al PD. Insomma, la nipotina del duce, da cu circa 70 anni fa l'Italia si liberò, pagando un altissimo tributo di sangue -sangue partigiano e soprattutto sangue Comunista- viene chiamata a reggere le redini di questo paese da coloro che si dichiarerebbero i discendenti dell'ex P.C.I. e che io, personalmente, definisco, invece, traditori della classe operaia e lavoratrice. Oltre che di quell'ideale altissimo che è il Comunismo. Che la vergogna accompagni la vita di questa gente per sempre.
In un simile giorno, però, una sola notizia mi rallegra, anche se in parte. E' morto ieri Teodoro Buontempo, El Pecora, per intenderci. Un fascista, dunque una merda. Un sostenitore di quelle idee elitarie, razziste, omofobe, insomma folli e criminali che, quel 25 Aprile, si sperava aver sconfitto per sempre. Inoltre, questo "signore", nel 1991, quando era segretario provinciale dell’Msi-Dn, aiutato da altri missini, staccò nottetempo la targa stradale di Palmiro Togliatti a Cinecittà, sostituendola con una con su scritto “viale vittime del comunismo”. Più di 60 milioni di morti, forni crematori, eccidi nel corso del conflitto mondiale; e poi, bombe e stragi compiute dai fascisti durante gli anni '70/80, e costui aveva anche il coraggio di parlare di vittime del Comunismo! Che il custode della tua eternità possa essere il Minotauro, cara Pecora, e tu possa sprofondare nel Flegetonte, insieme agli altri assassini –per esser tale, non si deve per forza aver commesso omicidi, basta sostenere idee sostanzialmente omicide- come te!
A proposito, Buon 25 Aprile a tutti...
W LA RESISTENZA. W IL COMUNISMO

venerdì 19 aprile 2013

CASTELLI IN ARIA…NOTA CRITICA ALLA MOSTRA DI GIUSEPPE MASCOLO




Uno dei più grandi architetti della nostra epoca, il brasiliano Oscar Niemeyer, affermava «Non è l’angolo retto che mi attrae, né la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Quello che mi attrae è la libera curva sensuale, la curva che trovo nelle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde del mare, tra le nuvole del cielo, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo».
Ecco, i disegni di Giuseppe Mascolo, giovane architetto napoletano, appena visti mi hanno suscitato più o meno la stessa impressione, riportandomi alla memoria questa idea di Niemeyer.
Linee, sinuosità, femminile sensualità, ma anche, attraverso esse, solitudine, dolore, turbamento. Tracce di un mondo interiore, che arriva su foglio di getto, quasi come se la mano procedesse costretta dal furore di un bisogno, che sale dalle profonde e oscure pieghe di un’anima in tumulto.
In lui, sembrano combinarsi il segno di una geometrica dissonanza e la traslazione simbolica di una malinconica riflessione sulla struttura architettonica di città in dismissione.
La sensazione più immediata è quella di trovarsi al cospetto di paesaggi colpiti da qualche disastro nucleare, immersi in una solitudine primordiale, in cui è la natura, ormai scarna, a sorreggere l’impalcatura di costruzioni che si reggono appena sul terreno, in taluni casi pericolanti come scheletri incendiati, o che addirittura fluttuano nell’aria.
In molti dei suoi arabeschi, tracciati con penna e acquerello, ci troviamo di fronte a paesaggi malinconicamente inquietanti, nella loro scomposizione ecologica, riadattati in forma architettonica e cementificata. Tutto: il cielo, uno specchio d’acqua che spesso compare, quasi a rimandare l’immagine sbiadita di un mondo delle idee architettoniche in decomposizione, le costruzioni simili ad alberi in ferro -grazie anche all'utilizzo cromaticamente simbolico di un viola che sfuma nel grigio- sembrano piangere la perdita di un'ancestrale verginità naturale, ormai smarrita per sempre, fagocitata dal delirio consumistico di una società artificiale e inautentica.
Nei suoi disegni, Giuseppe Mascolo mette in gioco, dunque, la weltanschauung di un mondo futuribile e tragico, nel destino segnato dalla smania tecnologica e dominatrice dell’uomo, nei confronti del suo habitat naturale: un ecosistema sfregiato da un’urbanizzazione forzata, che ha prodotto lo scempio di megalopoli soffocanti e lontane dalla dimensione umana. Sembra quasi aspirare ad un sovvertimento, ad una disintegrazione palingenetica di un simile scenario, da cui ripartire per dare spazio ad un’idea dell’uomo, a una concezione paesaggistica e, di conseguenza architettonica, di segno completamente opposto.
Nell’addentrarmi nella visione di quelle figurazioni, così scarne eppure così potenti, nell’evocazione di una solitudine, che è poi metafora della condizione umana e “terrena”, sempre più riemergevano, dalle sbiadite trame della memoria, le parole profetiche che Williaam Blake scriveva nel suo poema “Quattro Zoas”, e che Elèmire Zolla riporta all’interno del suo “Eclisse dell’intellettuale”: «Le città mandarono a dirsi: i nostri figli sono pazzi di vino e crudeltà. Intrecciano le sciagure, sorelle! I figli sono nutriti per la strage, un tempo erano cibati di latte, perché mai ora di sangue? Il cavallo ha più valore dell’uomo; la tigre feroce deride la forma umana; il leone dileggia e vuole sangue. Gridano: o ragno spargi la tua tela! Ingrossa le tue ossa e pieno di midollo, di carne, sii esaltato! Abbi una tua voce! Chiama i tuoi ospiti tetri, perché i figli degli uomini si congregano a disfare le loro città. L’uomo non sarà più!».
Siamo, insomma, mi pare di poter affermare senza tema di smentita, a quella che Benjamin definiva, a proposito del dramma tedesco, Trauerspiel, “rappresentazione luttuosa”, quel concetto cioè che, a differenza della tragedia, ha per oggetto la storia e non il mito. E si, perché è la Storia, nel suo costante divenire fenomenico, a determinare escatologicamente il destino umano. Un destino che, agli occhi di Giuseppe Mascolo, appare avvolto dalla nube scura del pessimismo.
Or dunque, il termine di paragone più prossimo che mi sovviene, quando cerco di indagare l’origine stessa di quegli schizzi, e la loro profonda essenza, è, mi si passi l’azzardo, quello con le statue di Alberto Giacometti. Come nel caso del grande artista svizzero, le forme tracciate da Mascolo sembrano emergere, come relitti, dagli abissi del tempo o da un universo in cui uno squarcio si è prodotto, improvviso, nella sua dimensione spazio/temporale, precipitandolo in un non-luogo pre-storico, quasi a rappresentare l’abisso umano dell’ inconscio, con tutti suoi fantasmi, le sue paure, le sue angosce, le sue immagini orrorifiche, eppure seducenti.
Molte delle sue rappresentazioni –come nel caso delle sculture di Giacometti- mi appaiono come scheletri corrosi e alteri, che sembrano usciti da un inferno dantesco. Esse comunicano tutta l’incomunicabilità del dolore, la nostalgia, la solitudine, la paura, lo smarrimento e il dramma di un’esistenza costantemente precaria, fragile, in eterna lotta con un mondo così vuoto e, oramai, così altro da noi. Un mondo, diciamolo chiaro, oramai schiavo della sua stessa frenesia produttivistica e finanziaria, dominata da quella filosofia economica, ultraliberista e disumanizzante, il cui unico obiettivo è il predominio dell’uomo sull’uomo, attraverso lo sfruttamento del lavoro, e dell’uomo sulla natura, mediante lo sfruttamento delle sue risorse. Come nel caso delle statue di Giacometti, dunque, nelle raffigurazioni tracciate da Mascolo, possiamo scorgere quello smarrimento e quell’angoscia che sono si condizione coessenziale della vita umana, ma anche una solitudine intellettualmente ricercata e voluta, che si muta in sentimento di rivolta, mi verrebbe da dire quasi ricerca metafisica di una nuova ontologia, di fronte alla dissipazione e alla disgregazione di un’epoca, in cui l’uomo e il suo ambiente sembrano essere stati soppiantati da artifici illusionistici e/o informatici. Dinanzi a tutto ciò, però, non resta, almeno per il momento, che afferrare la fragilità e la sospensione tra Essere e Nulla e, per dirla appunto con Sartre: «la grazia indicibile di essere perituri».
Insomma, per concludere, i disegni di Giuseppe Mascolo sono gli ultimi riflessi di un universo interiore, di un mondo nato martire e ribelle, sulle sottili linee di un architetto privo di senso. Sono l’iperbolica blasfemia gridata ad un cielo vellutato e livido, sotto al quale, l’infernale specchio della dimenticanza avvolge il tutto, scaraventandoci nell’ultimo vagito di una maciullata eternità. Sono sogni astrali; punti e linee. Simboli materni e paterni di una primordiale glossolalia, oscura e alienante. Attraverso essi, ci sembra di fluttuare in labirinti di segni e di parole, significanti puri di cui ci sfugge la semantica e il cui gioco è l’inganno stesso di un dio beffardo, che ha tirato una volta di troppo i suoi dadi. Davanti ad essi, possiamo sentirci assaliti da improvviso sbigottimento, come davanti alle immagini più cupe del nostro inconscio o come dinanzi al fulgore impossibile di una legge kafkiana.
Ecco, per farla breve, la architetture di Giuseppe Mascolo sono affascinanti, kafkiani castelli in aria.









venerdì 12 aprile 2013

E ORA? QUALE FUTURO PER LA LOTTA DI CLASSE?




Da tempo, ormai, una domanda mi tormenta, sopra ogni altra. E ora? Ora che ne sarà di noi comunisti? Che ne sarà di una forza e di un pensiero che hanno, per più di un secolo, fatto tremare i padroni e i loro sporchi interessi, portando per la prima volta, sulla ribalta della Storia, gli ultimi, i poveri, l’infima plebe, insomma il quarto stato? Che ne sarà di quello spettro che si aggirava per l’Europa spezzando pesantissime catene, poste ai piedi e ai polsi di contadini, operai , proletari e sottoproletari, trattati come schiavi -o peggio come bestie- e capace di restituire loro dignità di uomini e l’orgoglio della soggettività politica? Che ne sarà di quel movimento che, nel corso del ‘900, ha conquistato, alla classe lavoratrice, diritti che fino ad allora sembravano impensabili, perché contavano solo l’egoistica volontà padronale e il saggio di profitto? Che ne sarà di quella cultura politica capace di liberare interi starti sociali dalla piaga dell’analfabetismo in cui chiesa, aristocrazia e borghesia avevano interesse a mantenerli, e che oggi sembra ritornare, grazie all’imperante e decerebrante culto televisivo, gestito da sacerdoti al servizio del dio mercato? Che ne sarà di quella spinta Rivoluzionaria, che infiammava i cuori e le menti dei giovani, facendo loro sognare una società diversa, nuova, più giusta, equa e felice?
In meno di trent’anni, la feroce corsa al consumismo, omologante e individualistico, sostenuto dal grande Capitale e da borghesie sempre più avide e corrotte, sta spazzando via, a poco a poco, in questa parte di occidente ma non solo –resta la bellissima esperienza sud americana e qualche altro sparuto e controverso laboratorio in giro per il mondo- anche l’ultimo brandello dell’ ideale Comunista, che si proponeva, in ultima istanza -è bene ricordarlo a chi oggi o ha memoria corta e opportunisticamente preferisce ignorarlo, o è troppo giovane ed è vissuto coi miti sbagliati, costruiti dalla propaganda borghese- di rovesciare uno stato di cose che pareva immutabile, coessenziale alla natura stessa dei rapporti sociali e umani: la classe dei padroni, i ricchi, le elite comandano e dettano legge, la classe operaia, quella lavoratrice, i poveri subiscono e obbediscono. Mondo è e mondo sarà, solevano dire i baroni del sud, proprietari terrieri!
Si badi bene, non si vuole negare qui che, nell’applicazione concreta, pragmatica, politica di quell’ideale, siano stati commessi errori e orrori, a volte anche disumani. Le rivoluzioni non sono un pranzo di gala e comportano sempre, quando sono vere e non civili, spargimenti di sangue e morti. E questo non lo trovo affatto eticamente sbagliato. Anzi! E’ anche vero però che, a volte, l’instaurazione dei governi che ne è scaturita, si è trasformata in morse burocratico/dirigiste, con vere e proprie derive di tipo bonapartista e, oserei dire, tirannico, anche se qualche compagno non condividerà. Personalmente, non ho difficoltà ad ammettere, per esempio, che lo stalinismo fu una bruttissima parentesi nel percorso di costruzione del socialismo in Urss -poi degenerato, alla fine, in burocratismo e dirigismo- e che, pur facendo delle differenze, lo stesso Mao non fu esente da comportamenti poco umani. Però, se qui ci mettiamo a fare le pulci, allora mi chiedo: a chi addebitiamo i morti delle due guerre mondiali, se non alle democrazie liberiste e alle borghesie capitaliste che, per difendere i loro interessi non esitarono a scatenare la prima guerra mondiale e poi, con la scusa dal pericolo rosso, finanziarono fascismo e nazismo, provocando quello che sappiamo? E i morti per le guerre neocolonialiste in Africa, ricca di miniere di diamanti e materie prime da sfruttare, o in medio oriente per il petrolio, a chi li vogliamo addebitare? Come pure, il finanziamento delle dittature fasciste e sanguinarie in Sud America, in cui fu coinvolto anche il vaticano (scandalo IOR)? E alcune delle più gravi sciagure che hanno colpito il nostro ecosistema, a chi le ascriviamo, se non ad uno sviluppo cieco e criminale che ha progressivamente deturpato il nostro habitat naturale, ma utile all’arricchimento esclusivo di tycoon e multinazionali? E la colpa della crisi attuale, con la sua macelleria sociale, i suoi morti, i suoi suicidi, a chi la diamo? Agli operai, ai lavoratori? O non a quelle politiche di austerità, volute dalla Troika, per rassicurare i mercati e permettere a chi ne controlla di fatto l’andamento, di continuare ad arricchirsi? Mi pare che dietro a tutti questi casi, poi, ci sia quasi sempre il baluardo della democrazia mondiale: gli USA! Tutto questo, però, mi sembra meschino e controproducente. Resta il fatto che il Comunismo, pensiero filosofico, prima, e poi politicamente esperito nella prassi, resta l'idea migliore, secondo me, concepita dall'uomo in merito alle cose della politica. Preferisco, insomma, per dirla tutta, la dittatura del proletariato, che garantisce il benessere di molti, alla finta libertà democratica concessa da una dittatura finanziario-mediatica che sta massacrando, nel nome degli interessi di mercato e delle elite, le classi lavoratrici e i popoli di mezzo mondo.
Insomma, per farla breve, il Comunismo è stato e rimane un ideale che voleva, nella sua essenza filosofica basata sulla lotta di classe, dare, per la prima volta a tutti gli uomini, la stessa dignità, gli stessi diritti, le stesse possibilità di partenza, senza differenze di classe, di casta, di razza, di genere. Eh, già, perché ricordiamo anche questo: l’Internazionalismo era la sua bandiera, non certo il piccolo borghese, mediocre, limitato orizzonte nazionalistico! Un internazionalismo basato sullo scambio di culture, sulla reciproca collaborazione tra i popoli, sulla solidarietà senza assurde differenze di colore e di razza appunto. Non certo la globalizzazione selvaggia, in cerca di nuovi mercati da sfruttare, e capace di mettere gli uni contro gli altri i lavoratori di diversi paesi –ma anche all’interno di una stessa nazione- a causa del disuguale costo della manodopera, stabilito sulla differente crescita del PIL, sull’andamento dello spread o, peggio ancora, sul ricatto fondato, a sua volta, sul bisogno della gente di lavorare.
Or dunque e ciò detto, nonostante le immense difficoltà che il movimento Comunista si trova a vivere in questo momento, non solo in Italia, non si può abdicare ad una storia gloriosa come la nostra. Abbiamo il dovere di ripartire e ricostruire, sulle macerie, i nostri valori, la nostra politica in senso alto, le nostre dure lotte contro un modello di società iniquo ed elitario, all’interno del quale la dittatura della finanza sta massacrando la classe lavoratrice, i pensionati, i giovani, oramai derubati dell’idea stessa di futuro . Questo va fatto, certo, sulla scorta di quegli errori e di quegli insegnamenti che la realtà e il divenire stesso della storia hanno posto davanti ai nostri occhi e alle nostre intelligenze. Ma va fatto e perseguito con quella forza morale, anche nelle avversità, che è sempre stata la nostra qualità più alta. E va fatto alzando il livello del conflitto sociale e tornando a scontrarsi, nelle piazze, nelle fabbriche, sui luoghi di lavoro, con i nostri tradizionali nemici: i padroni. Anche in maniera dura, se necessario.
Basta, perciò, con le mere esigenze elettoralistiche e democratiste; basta con i cartelli elettorali, messi su confidando in un tradizionale elettorato che, orami, ci ha voltato le spalle. E basta con le derive legalitarie! Non si possono mettere insieme culture politiche lontane anni luce, svendendo, tra l'altro, il nostro orgoglio. Io sono e voglio rimanere Comunista! Il che, mi sia consentito ribadirlo ancora una volta, significa abbattere il sistema capitalistico/finanziario, combattere lo stato borghese, imporre -si imporre- la visione di un mondo che tenga conto del benessere di tutti a scapito del privilegio oligarchico. Ma per fare tutto ciò, c’è bisogno di tempo, di nuovi entusiasmi, e soprattutto di voglia di lottare. C’è bisogno, senz’altro, di un linguaggio politico nuovo, di nuove forme di comunicazione e di approccio alla realtà contingente. Ma sia ben chiaro, questo non vuol dire smarrire la nostra identità. Il che, è bene intenderci, significa non abbracciare quella socialdemocrazia –oggi tanto di moda a sinistra, vedi PD e SEL- che rappresenta lo svilimento piccolo borghese dell’ideale comunista, della Lotta di Classe e dell’operaismo. Anzi, noi dobbiamo recuperare, pur nel rinnovamento, la nostra stessa essenza rivoluzionaria. E per far ciò c’è bisogno, innanzitutto, di ripartire dalla riunificazione di tutte le forze comuniste, facendola finita con quella frantumazione assurda e irresponsabile, dovuta prima a questioni dogmatiche, quasi teologiche, poi a questioni di prassi politica e, in ultimo, a becere questioni personalistiche. Certo, sarà un percorso lungo e tortuoso, che dovrà tener conto, come sempre quando si tratta di noi, di spinte centrifughe, ma non credo si possa fare altro. Al di là di questo percorso, infatti, secondo me, c'è solo la definitiva pietra tombale.
In conclusione, dunque, propongo di rileggere questa riflessione di Mao, che mi sembra quanto mai idonea al caso:
"Il dogmatismo e il revisionismo si contrappongono entrambi al marxismo. Il marxismo deve necessariamente andare avanti, svilupparsi in ragione dello sviluppo della pratica, non può segnare il tempo. Se si facesse stagnante e stereotipato, non avrebbe più vita. Tuttavia, non si possono infrangere i principi fondamentali del marxismo senza cadere nell'errore. Considerare il marxismo da un punto di vista metafisico, come qualcosa di rigido, è puro e semplice dogmatismo. Negare i principi fondamentali e la verità universale del marxismo è revisionismo cioè è una forma di ideologia borghese. I revisionisti cancellano la differenza tra il socialismo ed il capitalismo, tra la dittatura del proletariato e quella della borghesia. Ciò che essi auspicano è di fatto non l alinea socialista, bensì la linea capitalista. Nelle presenti circostanze il revisionismo è ancora più nocivo del dogmatismo. Sul fronte ideologico ci incombe un compito importante: quello di criticare il revisionismo".